A che punto è la "crisi del Mali"? Cosa stà cambiando nel paese africano nella lunga guerra contro i miliziani jihadisti che, dal lontano 2012, con le loro azioni di aperta guerriglia tengono in ostaggio la popolazione?
In questo focus, AfricaLand Storie e Culture africane ospita il punto di alcuni autorevoli giornalisti africani che fanno il punto della situazione e spiegano, quello che, a tutti gli effetti, è un vero e proprio cambio di strategia delle autorità maliane con i jihadisti.
(Bob Fabiani)
Cambio di strategia*
"Il numero di morti nel Sahel cresce in modo esponenziale. E' arrivato il momento di esplorare nuove strade", ha dichiarato il presidente maliano Ibrahim Boubacar Keita, detto IBK, l'11 febbraio ad Addis Abeba. Quel giorno IBK ha suscitato forti reazioni riconoscendo per la prima volta quello che molti sapevano da mesi, cioè che le autorità maliane sono in contatto con i leader jihadisti Iyad ag Ghali e Amadou Koufa.
Evocando un dialogo con i jihadisti, IBK ha indicato una svolta nella linea seguita finora dal governo di Bamako nella gestione della crisi (che si è aperta nel 2012 con la conquista del Nord del Mali da parte di un'alleanza di tuareg e jihadisti n.d.t).
Le sue dichiarazioni sono arrivate in un momento simbolico: due giorni dopo, il 13 febbraio, l'esercito maliano è tornato a Kidal, la roccaforte della ribellione tuareg da cui era stato cacciato nel 2014.
Di certo gli alleati occidentali di Bamako nella lotta contro il terrorismo non hanno accolto con favore le parole di IBK. I presidenti francesi, da François Hollande a Emmanuel Macron oggi, hanno sempre respinto categoricamente il dialogo con i gruppi jihadisti. Sul campo sono state lanciate diverse iniziative per avvicinarsi ai due principali capi del Gruppo di sostegno all'islam e ai musulmani (Gsim, nato nel 2017 dalla fusione di quattro organizzazioni estremiste islamiche attive nella regione), che hanno coinvolto associazioni, rappresentanti della comunità peul ed esponenti dell'Alto consiglio islamico come l'imam Mahmoud Dicko.
A Bamako la decisione è stata accolta con favore.
"Il presidente ha fatto parlare la ragione, non il cuore. Per raggiungere la pace bisogna tentare tutte le piste. Dobbiamo fermare i massacri".
Questo il punto di vista, spiegato molto chiaramente da Dicko.
Altri nutrono dei dubbi. "Coinvolgere i leader jihadisti era necessario. Ma accetteranno il fatto che il Mali è un paese laico e democratico?", si chiede il politico Cheick Omar Diallo, del partito di IBK. Secondo il ricercatore maliano Ibrahim Maiga, che si occupa di sicurezza, il dialogo potrebbe servire a raggiungere un altro obiettivo: incoraggiare le diserzioni dei combattenti offrendogli delle alternative. E che fare con i jihadisti stranieri, come il capo dello Stato islamico nel grande Sahara, che è originario del Sahara occidentale?
"Il suo gruppo ha ucciso soldati in Mali, in Niger e in Burkina Faso. Se dobbiamo discutere con i terroristi, tanto vale farlo con tutti", sostiene l'ex premier Moussa Mara.
*Aissou Diallo e Benjamin Roger, Jeune Afrique, Francia
Il dibattito dunque è appena iniziato: appare evidente che l'attuale presidente maliano IBK, si prefigge di chiudere la lunga stagione del conflitto jihadista che ha messo alle corde la popolazione del Mali.
Tuttavia, la strada che egli ha appena tracciato alla riunione UA - Unione Africana ad Addis Abeba non è facile da percorrere anche se, in qualche modo, si tenta di fare un passo in più per uscire dal lungo empasse causato dalle "campagne militari francesi" che, non hanno risolto la situazione.
(Bob Fabiani)
Un conflitto interminabile**
Nel 2019 almeno 456 civili sono rimasti uccisi negli attacchi compiuti dai gruppi armati che imperversano in Mali. E' stato l'anno in cui sono stati registrati più morti dal 2012, quando è cominciata la crisi politica ancora in corso.
"Il Mali centrale, e in particolare la regione di Mopti, è l'epicentro di queste violenze, che hanno visto milizie jihadiste egruppi di autodifesa massacrare interi villaggi, sparare alle spalle delle persone in fuga, o separare i passeggeri dei mezzi di trasporto pubblici e ucciderli in base alla loro appartenenza etnica".
Questo passaggio si può leggere in un recente rapporto di Human rights watch.
"Chi non riesce a scappare finisce per bruciare vivo nella sua abitazione o morire nell'esplosione di ordigni" (l'ultimo di questi attacchi, il 15 febbraio a Ogossagou, ha causato 31 morti in una comunità peul che era già stata colpita da una strage con 174 morti un anno prima).
Diffusione regionale
La crisi in Mali va avanti dal 2012, quando un'alleanza di gruppi ribelli ha preso il controllo del Nord del paese. L'avanzata è stata fermata da un intervento militare francese, ma da allora l'instabilità continua ad aumentare nonostante la presenza dei caschi blu delle Nazioni Unite e dei soldati di una missione antiterrorismo regionale, il G5 Sahel. Dal Mali il terrorismo si è diffuso in Burkina Faso e in Niger, dov'è difficile ostacolare le attività dei gruppi armati a causa della porosità dei confini e delle difficili condizioni sul terreno.
**Simon Allison, Mail & Guardian, Sudafrica
E' per questa ragione che, le autorità di Bamako tentano la "carta del dialogo", per cercare di porre fine a questa lunga crisi; del resto la "questione dei ribelli jihadisti" rappresenta un grande freno per lo sviluppo di tutto Sahel e, ormai, la gran parte dei paesi africani, hanno capito che la questione va risolta in Africa senza aspettare le soluzioni indicate dall'ex potenze colonialiste (Francia) e, in seconda battuta, l'Unione Europea (UE).
(Bob Fabiani)
(Fonte.:jeuneafrique;mg)
Bob Fabiani
Link
-www.jeuneafrique.com;
-https://mg.co.za
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