TAG - AfricaLand Storie e Culture africane

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domenica 26 novembre 2017

Inchiesta sul BLM-Black Lives Matter





- Terza e ultima parte : Nuovi scenari per il Movimento antirazzista all'ombra dell'America di oggi al tempo di Trump


Si conclude oggi l'inchiesta che AfricaLand Storie e Culture Africane (sezione "Afroamerican") ha pubblicato per tutto il mese di novembre. Si è trattato di un reportage che ha stabilito come, gli attivisti del #BlackLivesMatter ha modificato e diversificato le modalità di proteste e mobilitazione popolare nell'America che, sotto la guida del peggiore presidente della storia degli Stati Uniti, Donald Trump; si riscopre razzista e pericolosamente intollerante non solo contro  le minoranze etniche quanto invece, sotto la spinta di  #TheDonald torna in auge la galassia della "destra suprematista" - quella più vicina al Ku Klux Klan - che sogna addirittura il ritorno ai "tempi della schiavitù" per ribadire il più classico degli "sport nazionali a stelle e strisce", ossia la "caccia al nero" mai evidentemente cessata con la complicità delle forze dell'ordine.
Ne consegue - come abbiamo scritto durante le due puntate già pubblicate su queste pagine virtuali - che gli attivisti del movimento BLM la ricerca di una nuova strategia anche per fronteggiare lo scenario del cambiamento del clima, decisamente ostile al Black Lives Matter.
Tuttavia, non tenendo conto di tutto questo, negli USA è montato un dibattito-processo contro il BLM : detrattori e analisti - sopratutto quelli più vicini ai canali dei media della destra razzista e suprematista - che hanno inscenato il "de profundis" del movimento già dato per spacciato.
Ma così non stanno le cose come abbiamo visto durante questa inchiesta.

In conclusione lasciamo volentieri la parola e lo spazio a uno dei più autorevoli e seguiti scrittori statunitensi e afroamericani, Ta-Nehisi Coates. Il giornalista dice la sua su un aspetto che abbiamo approfondito nel reportage: la modalità e il gradimento delle proteste dei neri. L'intellettuale spiega come le "proteste della comunità nera non devono per forza piacere a tutti" in un contesto come l'attuale che obiettivamente rende la vita molto difficile per gli attivisti neri.
(Bob Fabiani) 



  

Ta-Nehisi Coates: "Le proteste dei neri non devono piacere a tutti"*

"Negli ultimi mesi sono sempre di più gli atleti statunitensi che s'inginocchiano durante l'inno nazionale prima delle partite per denunciare la discriminazione degli afroamericani. Questa forma di protesta, nata da un'iniziativa del giocatore di football Colin Kaepernick, è stata criticata da diverse persone, che la giudicano troppo divisiva. Il conduttore televisivo statunitense Joe Scarborough ha scritto su Twitter: "Molti mi criticheranno, ma questa è una realtà politica: ogni giocatore di football dell'Nfl (la lega del football americana; n.d.r) che si rifiuta di alzarsi in piedi durante l'inno nazionale non fa che aiutare Donald Trump".
Secondo Scarborough il comportamento dei giocatori è così irrispettoso che Trump riesce  facilmente a strumentalizzarlo con la sua demagogia. Chi, come Scarborough, sostiene che questi atleti si stanno dando la zappa sui piedi, ricorda anche che in altre epoche la protesta dei neri è stata una forza unificante capace di far cambiare idea ai bianchi dalla mentalità più aperta. Il giornalista David Leonhardt ha parlato di questo concetto in articolo sul New York Times: "In uno dei suoi discorsi più importanti, durante il boicottaggio degli autobus a Montgomery nel 1955, Martin Luther King parlò della "gloria dell'America, con tutti i suoi difetti", scrive Leonhardt. "In occasione della marcia su Washington King parlò di 'un sogno profondamente radicato all'interno del sogno americano'. Prima di concludere, recitò i primi sette versi della canzone patriottica My country, 'tis of thee, concludendo il suo intervento con la frase 'lasciate risuonare la libertà!'. Un anno e mezzo dopo, i manifestanti alla marcia da Selma a Montgomery sventolarono la bandiera statunitense, mentre i segregazionisti portarono la bandiera sudista. Sei mesi dopo Lyndon Johnson firmò la legge che permetteva ai neri di votare".
Leonhardt contrappone questo genere di attivismo, che metteva insieme il movimento per i diritti civili e i simboli statunitensi, a quello degli atleti, che sembra esprimersi in opposizione a questi simboli. Leonhardt sta dalla parte di Kaepernick, ma al suo atteggiamento "arrabbiato" preferisce quello "intelligente" del movimento per i diritti civili. Con la sua critica Leonhardt sottintende che Martin Luther King e altri pionieri dei diritti civili riuscirono a coinvolgere i bianchi americani meglio di Kaepernick. Leonhardt cita un sondaggio di YouGov, secondo il quale solo il 36 per cento degli statunitensi considera "opportuna" la protesta. Potrebbe essere un'obiezione giusta, se non fosse che il movimento per i diritti civili a cui fa riferimento Leonhardt all'epoca era considerato altrettanto inopportuno, se non peggio. Come ha ricordato il Washington Post, il 60 per cento degli statunitensi era contrario alla marcia su Washington. Nel 1966 il 63 per cento aveva un'opinione negativa di Martin Luther King. Anche il suo omicidio va inserito in un contesto di ostilità.
Leonhardt è un opinionista intelligente e mi sorprende che sposi questa interpretazione mitica del movimento per i diritti civili. In realtà il suo obiettivo è criticare la sinistra radicale di Bernie Sanders: "Agire in modo intelligente significa rinviare i contrasti interni e unirsi contro il programma di Trump. Significa capire, come fecero i leader del movimento per i diritti civili, che i simboli dell'America sono  un alleato prezioso", scrive. La storia però lo contraddice.
Gli attivisti per i diritti civili - come gli attivisti neri di oggi - non riuscirono a coinvolgere la maggioranza. Il processo non fu mai ordinato né unificante e infatti distrusse il Partito democratico di Franklin Delano Roosevelt e Harry Truman. Ci furono molte violenze, che misero in imbarazzo il paese. Alla fine i militanti riusciranno a sfruttare questa vergogna pubblica per ottenere un cambiamento. E sopratutto, riuscirono a far cambiare idea ai figli dei bianchi che li criticavano.
E così arriviamo al vero bersaglio della protesta di Kaepernick. Il suo scopo non è convincere quelli che fischiano quando una squadra s'inginocchia prima dell'inno, ma  sensibilizzare i loro figli. Il suo obiettivo è il futuro. Kaepernick non ha lanciato la sua iniziativa per far eleggere più democratici moderati. Ovviamente, neanche lui è immune del compromesso. Quando le sue prime iniziative sono state criticate, Kaepernick ha parlato con un gruppo di veterani dell'esercito per trovare un modo migliore per portare avanti la sua protesta. Da quel dialogo è nata la scelta di inginocchiarsi, e il fatto che anche questo abbia alimentato le critiche è il sintomo di un problema più grande.
Se l'idea che un ragazzo provi a salire su un autobus è inaccettabile, se riunirsi al National mall di Washington è vietato, se predicare la nonviolenza spinge qualcuno ad ammazzarti, se una protesta nata da un colloquio con i veterani è offensiva, dobbiamo chiederci cosa sia accettabile nell'America bianca. Forse il problema non è il modo in cui si protesta, ma il motivo per il quale lo si fa".
*Ta-Nehishi Coates - scrittore e giornalista afroamericano 
** Questo articolo è apparso sulle colonne di Atlantic in Usa e su Internazionale in Italia
(Fonte.:theatlantic;thenation;nytimes;washingtonpost;internazionale)
Bob Fabiani
Link
-www.thenation.com;
-www.theatlantic.com;
-www.nytimes.com;
-www.washingtonpost.com;
-www.internazionale.it          

venerdì 24 novembre 2017

Chi è Emmerson Mnangagwa, il nuovo presidente dello Zimbabwe?





Emmerson Mnangagwa - detto "il Coccodrillo" (Ngwenya) per le atrocità e i massacri compiuti come braccio armato del tiranno Robert Mugabe - è stato vicepresidente dello Zimbabwe fino al 6 novembre 2017 quando, dopo 2 anni (era in carica dal 2014 n.d.t) è stato licenziato dal padre-padrone Mugabe al timone dell'ex Rhodesia fino al 13 novembre 2017 giorno che segna la fine (ufficiale) del suo potere eterno stroncato solo da un "colpo di stato" seppure al "velluto". Per conto del tiranno, Mnangagwa, è stato ministro della sicurezza dello stato a partire dal 1980 al 1988 e poi successivamente, ministro della giustizia dal 1988 al 2000.
Nello stesso anno divenne "Speaker del Parlamento" carica ricoperta fino al 2005. Finita questa esperienza torna nelle file del governo di Mugabe ricoprendo la responsabilità che comporta essere ministro dell'edilizia rurale: un dicastero per nulla secondario qui, Mnangagwa vi rimane dal 2005 al 2009.

Ogni volta che il "Compagno Bob" - soprannome del tiranno Mugabe sin dai tempi della guerra di indipendenza - ha avuto bisogno di Mnangagwa lui - il nuovo-vecchio uomo forte di Harare - ha sempre risposto all'appello: prima nella stagione caratterizzata dalla lotta armata e poi, nei lunghi 37 anni in cui Mugabe (come abbiamo raccontato ieri 23 novembre 2017 n.d.t) è passato dall'essere eroe del popolo zimbabwiano a despota e tiranno del suo stesso popolo dando forma a un regime spietato dove tutto era vietato se, aveva a che fare con le proteste e l'opposizione al governo, come per altro recita la biografia dello stesso Mnangagwa da cui deriva anche il suo terribile soprannome.

Colui che ha preteso le dimissioni di Mugabe in queste ultime settimane di novembre 2017 coincise con la fine del "Regno di Mugabe" (e della sua corte dei miracoli compresa la sua discutibile moglie Grace Mugabe detta anche "Disgrace" o "Gucci-Grace" n.d.t) dal 2009 al 2013 ha ricoperto la carica di ministro della difesa. Negli ultimi anni dal 2015 al 2017 torna al ministero della giustizia avocando a sé la carica di vicepresidente ed è proprio da questo scranno di prestigio che subirà l'onta di essere licenziato a corollario delle velenose parole di Mugabe per "Carenza di rispetto, slealtà, inganno e inaffidabilità".
Queste accuse gravissime hanno scatenato la reazione dei militari che di fatto, mettendo in atto un "soft-golpe" o "golpe al velluto" (con l'avvallo della Cina che ha reso possibile il sostentamento del paese africano n.d.t) decidevano, in un primo momento di arrestare e poi destituire il "vecchio leone", il leader e fondatore del partito ZANU-PF (Unione nazionale africana- Fronte Patriottico un tempo Gruppo di miliziani della lotta armata durante la guerra d'Indipendenza e di liberazione dall'apartheid dei coloni bianchi britannici) e, per questa ragione collocava Mnangagwa tra i candidati alla successione del presidente della Repubblica dello Zimbabwe. Era questa la ragione primaria per cui era inviso a Grace Mugabe, la potente moglie assetata di potere che mai avrebbe accettato di essere scavalcata dal braccio armato del vecchio leone, quel Robert Mugabe ormai inviso in ogni angolo dello Zimbabwe. Questa decisione lo ha portato alla destituzione mascherata da dimissioni (per nulla spontanee).

Emmerson Mnangagwa e il sostegno delle forze armate dello Zimbabwe

Fin dagli anni'70 del Novecento, al tempo delle guerre di liberazione dello Zimbabwe, Mnangagwa è sempre stato benvoluto dai militari anche per il suo status di veterano di quelle epiche guerre; una volta abbandonato il paese - subito dopo essere stato licenziato - ha spinto l'esercito a pretendere le dimissioni del "compagno Bob" una volta andato a segno il colpo di stato del 14 novembre 2017 la data che sancisce la rivolta dei militari contro Mugabe. 
L'artefice di questi passaggi drammatici è stato Mnangagwa che dall'esilio ha seguito passo dopo passo tutto il puzzle che, solo 5 giorni dopo, il 19 novembre 2017 quando, lo stesso partito che Mugabe aveva fondato dal nulla, il ZANU-PF lo ha espulso dalla carica di capo del partito e, quindi, successivamente, da quella più importante di presidente di Zimbabwe.
Finiva la lunga tirannia durata 37 anni.


Chi è Emmerson Mnangagwa?

Due giorni dopo il suo brusco licenziamento per volere del tiranno Mugabe su ordine di Grace "disgrace" Mugabe la moglie di 40 anni più giovane dell'ex presidente, dal vicino Sudafrica, Mnangagwa rilanciava: "Robert Mugabe e relativa corte, lascerete prima il partito ZANU-PF per volontà del popolo e poi il potere dello Zimbabwe".

Era l'8 novembre 2017 e Mnangagwa parlava di 2 settimane ma, in realtà tutto si è compiuto in soli 7 giorni necessari per vedere esaudita quella minaccia che era anche il vero scopo del golpe dei militari di Harare.

Originario di Zvishaugane (ex Shabani) nella provincia di Midlands dove apprende un insegnamento dal nonno-capo del villaggio quando è pressapoco più di un bambino e, prima che tutta la famiglia Mnangagwa deve riparare nella Rhodesia del Nord ossia, l'attuale Zambia: in quelle ore travagliate e dolorose, il "piccolo Emmerson" apprende una grande lezione "Se vuoi combattere i bianchi" - disse suo nonno e capo-villaggio - "devi farlo in modo collettivo e non individuale".
Questa storica lezione gli servirà quando passerà alla lotta armata condotta fianco a fianco a quel Robert Mugabe che poi, una volta raggiunto il potere si dimenticherà di averla combattuta a nome del popolo e per cessare i soprusi e le vergogne dell'apartheid anzi, da presidente dello Zimbabwe ordinerà a Emmerson Mnangagwa - a più riprese - di reprimere (in modo cruento e spietato) ogni genere di proteste del popolo zimbabwiano; nel frattempo ridotto alla povertà e, per questa ragione è soprannominato "il Coccodrillo".

Conclusione

Tolto di mezzo un dittatore e promuovendone un altro lo Zimbabwe risolverà tutti i suoi problemi? Intanto giurando da presidente, come primo atto ha omaggiato Mugabe: in quell'istante forse, la grande gioia dello Zimbabwe ha visto un primo momento di arresto perché il suo governo, potrebbe rivelarsi più tirannico del suo predecessore.
Di una cosa si può essere sicuri: Ammnesty International ha invitato Mnangagwa a "rinunciare agli abusi del passato", mentre Human Rights Watch gli ha chiesto di riformare "esercito e polizia, strumenti della repressione di Mugabe". E' plausibile che "il Coccodrillo" faccia spallucce di queste suggerimenti, lasciando che restino lettere morte.
(Fonte.:jeuneafrique)
Bob Fabiani
Link
-www.jeuneafrique.com/politique/zimbabwe-qui-est-emmerson-mnangagwa-lhomme-qui-a-fait-tomber-robert-mugabe        

giovedì 23 novembre 2017

Storia di Robert Mugabe: da eroe a tiranno.








Al termine della guerra di indipendenza della ex Rhodesia - nel 1980 - un conflitto caratterizzato da brutalità, massacri e da odio a lungo covato contro i coloni britannici e, i bianchi in generale, Robert Mugabe era il più radicale dei capi-guerriglia e, appariva, paradossalmente come la persona più adeguata per far uscire lo Zimbabwe dalla spirale della violenza e dalla vergogna dell'apartheid. 

Invece la storia e la piega delle cose hanno preso una strada diversa.

Il "compagno Bob" - come veniva chiamato fino al 13 novembre 2017 dai veterani della stessa guerra di indipendenza - è diventato un implacabile dittatore che, per 37 anni, ha affossato tutte le speranze di cambiamento del popolo zimbabwiano che aveva riposto in lui tutte le speranze per un domani di prosperità e di giustizia a lungo negate sotto la dominazione britannica.
Ma così non è andata perché Mugabe si è rivelato un tiranno spietato e attaccato al potere anche dopo essere stato disconosciuto dal suo esercito, dal suo partito e dal suo popolo.
Eppure, Robert Mugabe era stato un capo-guerrigliero (fondatore dell'Unione nazionale africana-Fronte Patriottico - ZANU-PF che poi al termine della guerra si trasformerà in partito di governo) raffinato, in grado di parlare un inglese degno di Oxford, insomma un intellettuale passato alla lotta armata per via dell'orribile "Regime dell'apartheid": ma questa è solo una parte della storia. Terminata la guerra di indipendenza, Mugabe cambia e, in nome dell'antico fascino per la Cina di Mao decide di governare e di percorrere quella "via al socialismo africano" che finirà per portarlo a tenere il controllo dello Zimbabwe con il più classico e spietato "pugno di ferro", illudendosi in questo modo di non incappare nel fallimento del tutto caratteristico di molti paesi africani dopo aver raggiunto l'Indipendenza dalle Potenze colonialiste europee.

Mugabe da leader rivoluzionario a tiranno

Mugabe appartiene a quella generazione di dirigenti dei movimenti africani di liberazione dell'Africa australe che si è formata all'università per neri di Fort Hare, nel vicino Sudafrica e, per giunta in pieno Apartheid. Nel paese della segregazione istituzionalizzata, i neri dovevano frequentare università distinte da quelle dei bianchi.
Fondata nel 1916 e situata nella parte orientale della provincia di Città del Capo (Cape Town), Fort Hare accoglieva gli studenti di buona parte dell'impero britannico in Africa. Ma invece di formare dei sudditi sottomessi al sistema coloniale (e come sarebbe potuto accadere...!), era diventata la scuola della Resistenza.
In quella università hanno studiato alcuni tra i più importanti protagonisti della storia africana, in qualche modo legata al Movimento del Panafricanismo come il presidente della Tanzania Julius Nyerere, quello dello Zambia Kenneth Kaunda, o quello del Botswana Sereste Khama, così come i grandi nomi della lotta anti-apartheid in Sudafrica: Nelson Mandela, Oliver Tambo, Govan Mbeki, Robert Jobukwe, Chris Hani e Steve Biko.

E' dunque a Fort Hare che Robert Mugabe decide di impegnarsi politicamente stando a contatto con la nuova generazione nera del dopoguerra, quella che vide Nelson Mandela e i suoi amici prendere il controllo della Lega giovanile dell'African national congress (Anc) e spingerla a una azione più determinata contro il regime segregazionista. 
Mugabe ha fatto grandi sacrifici per la sua causa, è stato in prigione 10 anni, ha conosciuto l'esilio e le privazioni eppure, con il passare degli anni, il potere ha finito per trasformarlo in despota che ha umiliato lo Zimbabwe e il suo popolo.
La sua storia come capo di governo era iniziata in modo incoraggiante: il suo primo governo aveva dato un immagine di una riconciliazione tanto idilliaca quanto illusoria.
A questo punto possiamo fare nostra una domanda che si era posta la giornalista Heidi Holland che, da sostenitrice di Mugabe, nel 2008 scrisse "Dinner with Mugabe" (Cena con Mugabe - Penguin) : come ha fatto Robert Mugabe, l'eroe del 1980, il vittorioso "combattente della libertà", a trasformarsi nel tiranno, nell'aguzzino dei 37 anni successivi?
Lasciamo la parola a Heidi Holland che lo ha conosciuto bene prima del 1980, ma che poi è stata costretta a sua volta a fuggire dallo Zimbabwe nel 1982; nelle pagine del suo libro scrive:
Osservando il passato, mi rendo conto che insieme a molti altri individui ben      intenzionati, ho forse contribuito a fare di Robert Mugabe  l'uomo che è diventato oggi.  Se avessimo reagito diversamente ai suoi primi segni di paranoia, lo Zimbabwe avrebbe potuto evitare questa discesa agli inferi? Se i bianchi di questo paese avessero potuto essere più realisti, riconoscendo l'impossibilità di una transizione morbida dallo stato poliziesco che avevano creato alla democrazia illusoria che sognavano, sarebbero forse stati più rispettosi e meno provocatori? Oppure Robert Mugabe è semplicemente un esempio della maniera in cui il potere corrompe gli esseri umani? Mugabe pensava di essere speciale, diverso e nato per essere grande (...). Lo ricorderemo come un personaggio triste, che ha sofferto e patito dei sacrifici. Ha rovinato il suo paese, lo Zimbabwe, il che è una tragedia, perché questo triste destino non era inevitabile. 

Chi è dunque Robert Mugabe?

Per avere qualche strumento in più, strumento che ci indica bene il temperamento e forse quella paranoia di cui parlava la giornalista Heidi Holland è sufficiente soffermarci su due celebri affermazioni dell'ex padre-padrone dello Zimbabwe:
Solo Dio può destituirmi
oppure
Se non dovessimo trovare i soldi per i progetti, ebbene li stamperemo
Bastano queste due citazioni a inquadrare cosa sia diventato Robert Mugabe, un tempo combattente rivoluzionario per liberare il paese dalla tragedia della colonizzazione britannica quella legata al "Regime dell'apartheid" e che si concluse nel 1980 dando vita all'Indipendenza e al cambio del nome del paese.

Era nato lo Zimbabwe. 





Quale futuro per lo Zimbabwe?

Ora lo Zimbabwe volta pagina entrando in una nuova era eppure, la "tragedia del compagno Bob", una tragedia allargata a una comunità intera, a un paese, lo Zimbabwe che una volta era considerato il "granaio d'Africa" lascia una domanda di fondo: come è stato possibile uno spreco umano e politico: 37 anni dopo c'è da ricostruire tutto.
Sarà Mnangagwa l'uomo giusto, con il suo terribile soprannome "il coccodrillo" per le atrocità e i massacri compiuti come braccio armato del tiranno a far partire la ricostruzione dello Zimbabwe?

Intanto in lontananza riecheggia la voce di Bob Marley quando, in quel lontano 1980, venne a suonare con i suoi fantastici The Wailers, nel giorno che celebrava l'Indipendenza dello Zimbabwe dalle atrocità del passato coloniale.
(Fonte.:internazionale;jeuneafrique;lobs)
Bob Fabiani
Link
-www.internazionale.it;
-www.jeuneafrique.com;
-https://tempsreel.novelobs.com/monde/zimbabwe-robert-mugabe-demissionne   
 
 
       

   
   

domenica 19 novembre 2017

La "Rivoluzione di velluto" capace di scrivere la fine di un'epoca in Zimbabwe.







Il 15 novembre l'esercito dello Zimbabwe ha preso il controllo della capitale Harare, mentre l'anziano presidente e despota, Robert Mugabe, 93 anni, al potere da ben 37 anni, ossia dal 1980, è stato messo agli arresti domiciliari.

Inizia così quella "Rivoluzione di velluto" capace di riscrivere la storia dello Zimbabwe e di "voltare pagine" per porre fine a un'epoca quella che ha visto il "potere assoluto" del "compagno Bob" - come a volte e nelle giornate felici ed epiche quelle che servirono a porre fine alla colonia britannica ai tempi della Rhodesia, veniva chiamato dal popolo zimbabwano - .
Non a caso nelle caotiche ore in cui in tutto il mondo si spargeva la notizia di una "operazione in atto" in Zimbabwe che mirava a bloccare le ultime decisioni del presidente Mugabe, la Bbc parlava da subito di "un colpo di stato senza spargimento di sangue", ma dal canto loro, le stesse forze armate negavano - in modo deciso quasi muscolare - che fosse stato organizzato e, portare a segno, un golpe, spiegando di essere intervenute per pacificare una "situazione economica e sociale che stava degenerando".

Che cosa stava accadendo ad Harare, la capitale del paese africano?

La sera del 14 novembre i militari avevano preso il controllo della TV di stato mentre, in quei stessi minuti erano state avvertite una serie di esplosioni (in tutto tre) in vari punti della città. Inoltre venivano arrestati alcuni politici alleati della moglie di Mugabe, Grace (detta anche Disgrace per via della sua mania per lo shopping sfrenato). 
La situazione si era già aggravata il giorno precedente, il 13 novembre, quando il capo dell'esercito Costantino Chiwenga aveva detto che i militari erano pronti a intervenire dal momento che, le stesse forze armate, non potevano più tollerare l'allontanamento dagli incarichi di governo di personalità legate al partito al potere (lo stesso che era stato fondato ai tempi della lotta armata da Mugabe n.d.r) ZANU-PF.
Il generale Chiwenga mentre si esprimeva con queste pesanti parole lasciando con il fiato sospeso tutto il popolo zimbabwano, si riferiva all'estromissione del vicepresidente Emmerson Mnangagwa, uno dei compagni di lotta di Mugabe, considerato il suo probabile successore. Molti hanno interpretato questa mossa del presidente come un tentativo di spianare la strada verso il potere a sua moglie Grace. 
Il "colpo di stato", spiega l'esperto di Zimbabwe Brian Roftopoulos, "è la conseguenza di tutti i tentativi fatti nel corso degli anni per bloccare la transizione democratica. L'esercito è intervenuto a sostegno del leader di una fazione, Mnangagwa, nel nome degli ideali democratici del paese. Ma è paradossale, perché finora l'esercito aveva usato la violenza per mantenere Mugabe al potere".
Gli zimbabweani sono così desiderosi di un cambiamento e questo creerà un pericoloso precedente ma, del resto, non c'erano altre vie di uscita per porre fine al potere di Robert Mugabe. 


-Destituito Mugabe

Il Comitato centrale dello "Zimbabwe National Front National Union (ZANU-PF)" ha votato in queste ore domenicali, la rimozione di  Robert Mugabe dall'incarico di primo segretario e, di conseguenza, spiana la strada alla destituzione del despota che ha retto il potere per 37 lunghi anni. Ora, davvero, lo Zimbabwe può voltare pagina e iniziare una "nuova era".
L'organo direttivo del partito che ha sempre governato lo Zimbabwe dopo l'indipendenza ha nominato l'ex vicepresidente Edwar Mnangagwa in sostituzione di Mugabe. "E' stato espulso, Mnangagwa è il nostro nuovo leader", ha detto uno dei membri del Comitato centrale, ripreso e rilanciato dall'agenzia di stampa Reuters. L'annuncio è stato ricevuto con danze da alcuni delegati del partito riuniti ad Harare. 

-Marcia di solidarietà per le vie di Harare

Sabato storico in Zimbabwe caratterizzato da una oceanica protesta popolare e collettiva per le strade di Harare. La folla ha chiesto a gran voce la destituzione di Mugabe e della moglie. Finisce dunque così il regno più lungo di un despota che, a suo tempo era stato un eroe della lotta di liberazione contro il disumano "regime dell'apartheid" nella ex colonia britannica ai tempi chiamata Rhodesia. 
(Fonte.:reuters;publico;bbc;africanews24)
Bob Fabiani
Link
-https://af.reuters.com/news/zimbabwenews;
-wwwpublico.pt/mundo/noticia/partido-no-poder-afasta-mugabe-e-nomeia-mnangagwa;
-www.bbc.com/africa/zimbabwe;
-www.africanews24.com 

sabato 18 novembre 2017

Se il "libero scambio" minaccia l'agricoltura africana.(Terza parte)*


 




Terza e ultima parte dell'inchiesta dedicata da AfricaLand Storie e Culture Africane che allarga l'orizzonte visivo sui guasti del libero scambio che, a nome del "credo neo-liberista" anche in Africa - imposto dal cosiddetto primo mondo quello occidentale, ossia dell'Unione europea - minaccia l'agricoltura africana. 
Le pagine di questo blog ospitano l'intervento dell'economista Jacques Berthelot che spiga quale siano i problemi e i rischi per l'intero Continente nero; una problematica che chiama in causa anche l'Unione africana per la convergenza funesta con l'Unione europea non fosse altro perché attraverso il libero scambio continua quell'oppressione colonialista per continuare a poter disporre, a proprio piacimento delle "ricche risorse" dell'Africa.
(Bob Fabiani)


-Jacques Berthelot: "L'agricoltura africana nella tenaglia del libero scambio"*

"L'Unctad non vede che vantaggi nella Zlsc, in particolare nel settore agricolo. "Le esportazioni africane di prodotti agricoli e alimentari - in particolare grano, cereali, zucchero grezzo (di canna e di barbabietola) e i  trasformati (carne, zucchero e altri prodotti alimentari) - trarranno i maggiori benefici della Zisc", scrive  l'organismo delle Nazioni unite. "Con la Zlsc, le esportazioni africane di prodotti agricoli e alimentari potrebbero aumentare del 7,2% (pari a 3,8 miliardi di dollari) nel 2022 rispetto alla situazione attuale".  In realtà, la dipendenza dell'Africa non smette di crescere: le importazioni annuali di grano da parte del continente sono passate dai 26,6 milioni di tonnellate (per 9,2 miliardi di euro) fra il 2014 e il 2016, mentre le esportazioni si riducevano da 0,3 milioni di tonnellate (per 31,6 milioni di euro) a 0,2 milioni di tonnellate (per 74,1 milioni di euro).
Queste ultime si riferiscono essenzialmente al Sudafrica e sono state dirette verso il resto del continente per il 71% nel primo periodo e per l'85% nel secondo, benché il deficit sudafricano quanto al frumento sia quintuplicato.


Integrazione la lezione da trarre

Decantando i presunti vantaggi dell'eliminazione dei diritti di dogana rispetto agli scambi agricoli intra-africani, l'Unctad non fa che dimostrare la propria totale ignoranza della storia dei mercati agricoli: questi sono sempre stati sottoposti a misure speciali di protezione, in tutti i paesi, dai faraoni in poi. Infatti, contrariamente ai prodotti industriali e ai servizi, i mercati agricoli non possono autoregolarsi: di fronte a una domanda alimentare stabile nel breve periodo, la produzione e i prezzi agricoli sono soggetti in particolare alle alee climatiche, alle quali si aggiungono le fluttuazioni dei prezzi mondiali in dollari, accentuate dalle variazioni dei tassi di cambio e dalla speculazione.
Dal momento che nei paesi sub-sahariani gli agricoltori rappresentano circa il 60% della popolazione attiva totale, si può immaginare l'enorme impatto sociale che avrebbe la liberalizzazione degli scambi agricoli.

L'Unione africana misura gli ostacoli che si frappongono al suo progetto di zona di libero scambio? Com'è possibile stabilire regole commerciali comuni in un continente enorme che ospita 1,2 miliardi di abitanti, cifra del 2016 (saranno 2,5 miliardi nel 2050), che presenta sistemi politici davvero diversificati e infrastrutture di trasporto debolissime, e dove il reddito nazionale lordo pro capite va dai 260 dollari del Burundi ai 6.510 del Botswana. "La Zlsc creerà solo un gigantesco mercato africano con pochi prodotti africani scambiati, avverte il Third World Network Africa. Favorirà semplicemente la circolazione dei prodotti importati dall'Europa e da altre regioni del mondo...".

Uno sguardo critico sulle politiche condotte dall'Unione europea non impedisce di trarre insegnamenti dall'integrazione che essa ha realizzato e che sembra ispirare l'Unione africana. Quest'ultima sottolinea che il commercio intra-africano rappresenta all'incirca il 10% del suo commercio totale, mentre il commercio intra-europeo costituisce quasi i due terzi del commercio totale. Ma non si è arrivati a questa percentuale in virtù di un miracolo. Benché il bilancio dell'Unione europea sia sempre stato molto limitato, nella misura dell'1% circa del Pil totale, più di un terzo è stato dedicato ai fondi strutturali. E al fondo di coesione. E questi trasferimenti hanno facilitato l'adattamento degli Stati membri meno sviluppati. Ma nel continente nero non è previsto nulla di simile.

La lezione da trarne per l'Africa sub-sahariana è dunque chiara: un'integrazione economica duratura non sarà possibile senza una politica di redistribuzione significativa fra gli Stati membri (in  particolare all'interno di ogni sub-regione del continente), il che implica un minimo di integrazione politica e un bilancio importante. L'apertura precoce al libero scambio senza queste contropartite non può che marginalizzare le famiglie, le imprese e le ragioni più povere, provocando conflitti sociali e politici strutturali e insormontabili, e acuendo il sottosviluppo dell'Africa".
-Fine-
*Jacques Berthelot - Economista
(Fonte.:monde-diplomatique)
Bob Fabiani
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-www.monde-diplomatique.fr;
-www.sol-asso.fr;
-www.au.int;
-www.unctad.org   

giovedì 16 novembre 2017

Se il "libero scambio" minaccia l'agricoltura africana. (Seconda parte)*




Oggi pubblichiamo la seconda parte dell'inchiesta che punta la lente d'ingrandimento su una questione di vitale importanza per l'intero Continente nero: la questione legata al problema del "libero scambio", lo stesso che prende forma e corpo da quel "credo neo-liberista" che minaccia l'agricoltura africana. 

Lasciamo dunque la parola all'economista Jacques Berthelot.

(Bob Fabiani)


-Jacques Berthelot: "L'agricoltura africana nella tenaglia del libero scambio"*

"La professione di fede liberista dell'Unione europea non impedisce a quest'ultima di sovvenzionare le sue esportazioni verso l'Africa dell'Ovest.
Nel 2016, l'Ue ha destinato 215 milioni di euro per 3,4 milioni di tonnellate di prodotti lattiero-caseari in equivalente latte. Nello stesso anno, gli aiuti all'export verso l'Africa australe sono stati pari a 60 milioni di euro per i cereali, 41 milioni per le carni avicole e le uova e 23 milioni per i prodotti lattiero-caseari. Infine 18 milioni di euro di aiuti sono stati versati per i prodotti lattiero-caseari destinati all'Africa centrale. Per i cereali trasformati, i prodotti lattiero-caseari e le carni, i diritti doganali praticati dell'Unione europea verso il resto del mondo e le tariffe fuori quota sono molto più elevati da quelli applicati dall'Africa sub-sahariana.

                                                                               ***

E' in questo contesto che l'Unione africana, sostenuta dalla Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), dalla Commissione economica delle Nazioni unite per l'Africa e dalle istituzioni finanziarie internazionali, ha deciso di lanciare una Zona di libero scambio continentale (Zlsc) entro la fine del 2017 e un'unione doganale continentale entro il 2019; la prima eliminerà i diritti di dogana fra i 55 Stati, e la seconda doterà questi ultimi di una tariffa estera comune verso il resto del mondo. L'Unione africana, affascinata dai grandi accordi di libero scambio in gestazione, come il grande mercato transatlantico (Ttip, Tafta in inglese), il partenariato transpacifico e l'Accordo economico e commerciale globale (Ceta in inglese) fra Unione europea e Canada, pretende di fare ancora meglio: "La nascita di mega-accordi commerciali regionali continua a minacciare l'accesso degli africani ai mercati principali, dichiarava Fatima Haram Acyil, allora commissaria al commercio e all'industria dell'Unione africana, e la tendenza sembra accentuarsi. Anche se non siamo capaci di controllare quello che succede nell'Organizzazione mondiale del commercio o altrove, quello che facciamo all'interno della Zlsc è interamente nelle nostre mani".

L'idea che il continente nero possa trarre benefici economici da un'apertura brutale alla concorrenza fa parte del mondo delle illusioni. Nella storia, nessun paese ha raggiunto un livello di sviluppo sufficiente ad affrontare la competizione con altri senza proteggere dalle importazioni la propria agricoltura e le industrie nascenti.
Inoltre, gli Stati già sviluppati hanno beneficiato e tuttora beneficiano di importanti sovvenzioni, come nel quadro della politica agricola comune europea. "Non si può oggi chiedere all'Africa di essere la prima a dimostrare che lo sviluppo avvenga aprendo i mercati", riassumeva Mamadou Cissoko, presidente onorario della Rete delle organizzazioni contadine e dei produttori dell'Africa dell'Ovest (Roppa), nel corso del Forum pubblico dell'Organizzazione mondiale del commercio nel settembre 2014.

Ospitando ad Accra, il 9 marzo 2016, una riunione della Comunità economica degli Stati dell'Africa dell'Ovest (Cedeo), il ministro del commercio e dell'industria del Ghana, Ekwow Spio-Garbrah, lanciava un avvertimento: "Il successo della messa in opera della Zlsc dipenderà da come essa risponderà alle necessità del settore privato. E' previsto generalmente che le regole che i paesi africani adottano in materia di commercio siano destinate a essere utilizzate dal settore privato. L'impegno di quest'ultimo  e la sua sensibilità rispetto alla Zlsc sono dunque essenziali". Il "settore privato" al quale il ministro fa riferimento non sono le centinaia di milioni di piccoli agricoltori africani - i quali produrrebbero molto di più se fossero loro assicurati prezzi remunerativi garantiti da un'efficace protezione rispetto alle importazioni -, ma alcune decine di multinazionali presenti in Africa e di imprese private africane che premono per l'abolizione dei diritti doganali fra paesi del continente. "Certo, trarre vantaggi dal commercio internazionale rimane una sfida per la maggior parte dei nostri paesi, riconosce il ministro, perché misure come le regole di origine, i deficit infrastrutturali, le norme e gli ostacoli tecnici mascherati da strumenti di politica commerciale continuano a impedirci di trarre vantaggio dalla possibilità di accesso ai mercati, ostacolando così la nostra effettiva integrazione nel sistema commerciale multilaterale". Ma egli sembra ignorare che gli Ape apriranno una breccia enorme nella protezione dei mercati interi africani".
-Fine Seconda parte-
*Jacques Berthelot
(Fonte.:monde-diplomatique)
Bob Fabiani
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-www.monde-diplomatique.fr

martedì 14 novembre 2017

Se il "libero scambio" minaccia l'agricoltura africana. (Prima parte)*






Sempre più spesso in questa parte di mondo che fa capo all'occidente si sente ripetere, fino alla nausea, la stucchevole frase - a proposito di Africa e di africani - e ancor di più se si vuole abbracciare la tragedia delle migrazioni e dei migranti : "aiutiamoli a casa loro". Non si tratta evidentemente solo e soltanto di una frase con connotazioni razziste ma un vero e proprio "progetto politico" perseguito (con caparbietà) dall'UE su vari fronti e, guarda caso, si tratta di una nuova forma colonialista di dominazione nei confronti dell'Africa e delle sue risorse.
Quando i vari leader politici europei usano la frase "bisogna aiutarli a casa loro" in realtà vogliono dire che, lo stato di turno europeo s'impegna in quella stucchevole politica imperialista per sottrarre risorse ai popoli africani. Uno dei "capitoli" che più fanno gola al cosiddetto mondo civilizzato ed europeo è l'agricoltura africana. 

Oggi, dalle pagine di AfricaLand - Storie e Culture africane parlando di "Geopolitica d'Africa" allarghiamo la nostra lente d'ingrandimento sulla minaccia del "libero scambio" che incombe sull'agricoltura del Continente nero ospitando il punto di vista dell'Economista Jacques Berthelot , esperto di Africa e delle problematiche legate al "libero scambio" tra UE e Africa.
(Bob Fabiani) 


-Jacques Berthelot: "L'agricoltura africana nella tenaglia del libero scambio"*

"Sul continente nero soffia forte il vento del libero scambio. Da un lato, l'Unione europea aumenta la pressione sulle capitali africane per arrivare alla firma degli accordi di partenariato economico (Ape) e abolire le preferenze commerciali non reciproche: per mantenere l'esenzione dei diritti doganali sulle loro esportazioni verso l'Europa, gli africani dovranno eliminare l'80% di quelli che applicano alle importazioni provenienti dal Mercato comune. D'altro canto, l'Unione africana avvia negoziati in vista della creazione di una zona di libero scambio continentale (Zlsc). A Niamey (Niger), il 16 giugno 2017, i ministri del commercio africani hanno già deciso di sopprimere man mano fino al 90% dei diritti doganali fra i paesi del continente.

                                                           ***

Quest' entusiasmo libero-scambista lascia perplessi, in particolare nel settore agricolo. Si prenda il caso dell'Africa dell'Ovest, che deve far fronte alla triplice sfida di un deficit alimentare in costante aumento, dell'esplosione demografica e dei cambiamenti climatici. Il deficit alimentare è passato da 144 milioni di euro in media nel 2000-2004 a 2,1 miliardi di euro nel 2013-2016 ma senza il cacao, che non è un prodotto alimentare di base, il deficit è schizzato da 2,5 a 7,5 miliardi di euro. La situazione potrebbe ulteriormente aggravarsi con il previsto raddoppio della popolazione da qui al 2050, proprio mentre nello stesso periodo un aumento della temperatura di 2° C potrebbe ridurre del 10% i raccolti agricoli nell'Africa subsahariana, secondo le Nazioni unite.
Gli Ape chiesti dall'Unione europea devono azzerare, a partire dal quinto anno di applicazione, i diritti doganali sui prodotti alimentari di base come i cereali (riso escluso) e il latte in polvere. Questo potrebbe non solo aumentare fortemente la dipendenza alimentare ma anche rovinare gli allevatori da latte e i produttori di cereali locali (miglio, sorgo, mais) e di altri amidacei (manioca, igname, platano).

                                                      ***

La Commissione di Bruxelles presenta le Ape come accordi "win-win". Ma se è così, perché la maggior parte dei paesi dell'Africa, Caraibi, Pacifico (Acp) ha rifiutato di firmarli formalmente, dopo aver dichiarato l'intenzione di farlo? E' il caso in particolare della Nigeria, che nel 2016 totalizzava il 72% del prodotto interno lordo e il 52% della popolazione dell'Africa dell'Ovest. Il suo presidente, Muhammad Buhari, ha dichiarato davanti al Parlamento europeo il 3 febbraio 2016 che l'Ape regionale avrebbe rovinato il programma di industrializzazione del paese. Nell'Africa dell'Est, i dirigenti di Tanzania e Uganda mostrano gli stessi timori. Se gli Ape sono così benefici, perché l'Unione europea ha rifiutato di divulgare i tre studi di impatto (aprile 2008, aprile 2012 e gennaio 2016) che si riferiscono all'Africa dell'Ovest?

La Commissione di Bruxelles trascura totalmente l'agricoltura locale quando afferma, in un rapporto del 2016, che gli Ape aumenterebbero del 10,2% le esportazioni cerealicole e dell'8,4% quelle di carne bovina dell'Africa dell'Ovest. I cereali sono le principali importazioni della sub-regione: nel 2013 queste erano state pari a 16,1 milioni di tonnellate, di cui 2,8 milioni provenienti dal Mercato comune (3,4 milioni di tonnellate nel 2016). Nel 2016 l'Unione europea ha importato solo 22 tonnellate di carne bovina dall'Africa dell'Ovest, mentre ne ha esportate ben 84.895 tonnellate.


Un'apertura prematura

In realtà, le perdite annuali relative ai diritti di dogana e all'imposta sul valore aggiunto (Iva) della sub-regione quanto alle importazioni dell'Europa passerebbero da 66 milioni di euro nel primo anno a 4,6 miliardi di euro nell'ultimo anno (2035), e le perdite cumulate arriverebbero a 32,2 miliardi. Perdite lontane dall'essere compensate dagli aiuti europei previsti per il periodo 2015-2020: 6,5 miliardi del programma Ape per lo sviluppo (Paped), che del resto non sono che un riorientamento degli aiuti normalmente accordati, come ha dichiarato la direzione cooperazione della Commissione. Le prospettive sono ancora più fosche visto che il Regno unito, che contribuiva per il 14,5% al Fondo europeo di sviluppo (Fes), lascia l'Unione, e la Francia ha già ridotto il proprio bilancio per la cooperazione di 140 milioni di euro nel 2017.

In Europa sono in gioco interessi potenti che esercitano forti pressioni sui responsabili politici nazionali ed europei per la conclusione degli Ape. Le imprese francesi fanno parte delle principali società agroalimentari interessate da questi mercati: la Compagnie fruitière di Robert Fabre produce ed esporta la gran parte delle banane e degli ananas di Costa d'Avorio, Ghana e Camerun; i Grands Moulins di Abidjan, quelli di Dakar e le Compagnie sucrière del Senegal erano di proprietà del gruppo Mimran che li ha appena ceduti a un gruppo marocchino; il gruppo Bolloré controlla le infrastrutture portuali del golfo di Guinea  e si occupa fra l'altro dell'esportazione dei prodotti verso l'Europa".
-Fine Prima parte-
*Jacques Berthelot 
(Fonte.:mondediplomatique)
Bob Fabiani
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-www.monde-diplomatique.fr  

lunedì 13 novembre 2017

Buraambur (Somalia).





Il Buraambur è una forma poetica femminile somala nata come "canto" associato alla "danza".
Il Buraambur ha uno schema "metrico preciso". Il verso si divide in due "emistichi" (dal latino "hemistichium"; dal greco "hemistikion") e ciascuna delle due parti in cui un "verso", suscettibile di ripartizione può essere diviso da una "cesura".
Nella poetica somala, l'uso delle allitterazioni (figura retorica ricorrente sopratutto nella poesia, che consiste nella ripetizione, spontanea o ricercata) è ritenuto prova necessaria di eloquenza anche nei discorsi pubblici.
In somalo, come in molte altre lingue antiche e moderne, esistono vocali lunghe e brevi che determinano il computo "sillabico" (la sillaba è un complesso di suoni che si pronuncia unito con una sola emissione di voce).

Negli anni'40 del Novecento, alcune autrici hanno cominciato ad utilizzare la forma poetica Buraambur per affrontare questioni di importanza politica, come le lotte per l'indipendenza, la divisione "clanica" (Clan, anticamente clano, è un termine utilizzato nelle scienze etnoantropologiche e indica uno o più gruppi di persone unite da parentela), il malgoverno della neonata nazione e in ultimo, la guerra civile e la disgregazione provocata dalla diaspora. E' agli albori dell'indipendenza che sono diventati popolari i nomi di Timiro Ukash, Xawa Taka, Halimo Godano, donne che si erano unite alla lotta per la libertà con la forza della loro voce. 

La produzione poetica persiste nella diaspora e si diffonde prevalentemente attraverso supporti audiovisivi.
"Siamo come il tronco e il ciuffo di un albero, anche se i cammelli sono perduti e non danno più latte, siamo come il ferro di uno scudo, non possiamo separarci", recita Ardo Bilan, compositrice residente in Canada da oltre un decennio.

Il Buraambur non è molto conosciuto ed è sottovalutato rispetto ad altri generi letterari e poetici, sopratutto maschili, così come spesso lo è la condizione sociale delle donne somale (e in genere quelle dell'intera Africa comune tuttavia al resto del mondo dove, le donne, spesso e volentieri sono mal pagate, sfruttate e fanno fatica a raggiungere posizioni di rilievo nell'organigramma del mondo del lavoro quando non si vedono costrette a "sottostare" a ricatti sessuali da parte di datori di lavoro troppo esigenti oppure apertamente "schiavisti" tema dolente e che negli ultimi tempi sta squarciando l'omertà del silenzio in tutto quell'occidente così civilizzato eppure così infarcito di razzismo n.d.t) e spesso lo è anche la condizione delle sue autrici. 

Eppure nei decenni e prima ancora nella seconda metà del Novecento quando, l'Africa conobbe la fase della nascita delle nuove e giovani Nazioni Africane sono state proprio le donne a regalare la spinta necessaria alla Storia della Lettura africana: come in altri settori, è toccato alle giovani autrici farsi portavoce di una generazione di africani e di giovani donne che, hanno avuto il coraggio non solo di raccontare la drammatica condizione sociale delle donne nel Continente Nero ma, di aprire un percorso e una strada che prima di loro era stata tracciata (e percorsa) solo da alcuni grandi autori e scrittori al tempo del " Movimento della Negritudine".
(Fonte.:bbc;jeuneafrique)
Bob Fabiani
Link
-www.bbc.com/news/africa;
-www.jeuneafrique.com 

domenica 12 novembre 2017

Quell'ossessione razzista nel "Dossier-'Fbi" su Martin Luther King





Nell'America 2017 che si riscopre in balia di ogni scellerata forma di razzismo e di odiosa forma di "suprematismo bianco" ci mancava una sola cosa: che dai meandri, dagli abissi segreti dell'Fbi venisse sdoganato uno degli attacchi più beceri - di chiaro stampo razzista - per indirizzarlo verso Martin Luther King. 
Forse deve essere stato questo abbaglio che ha fatto straparlare - ancora una volta - il peggiore presidente della storia degli Stati Uniti d'America, #TheDonald quando, ha annunciato lo sdoganare i cosiddetti "File-JFK": ma non si trattava di chissà quale sconvolgente "informazione inedita" sull'assassinio di JFK, in realtà - come per magia - sono tornati alla luce alcune becere, inaccettabili rivelazioni sul reverendo e leader afroamericano. 

Benché si tratti di un "dossier segreto" a firma Fbi, queste rivelazioni non solo sono false ma neanche inedite. 

A chi fa paura ancora Martin Luther King ? A molti. Sopratutto a quella parte di America più marcatamente razzista che, avrà gradito questa nuova ondata di fango (la stessa di allora!) che è stata vergognosamente riversata sulla figura del reverendo e leader afroamericano. 

Di cosa si tratta? Cosa contengono questi dossier-segreto dell'Fbi?

All'epoca dei fatti - ricordiamo che si tratta di un dossier di 20 pagine redatto dall'Fbi il 12 marzo 1968 e dunque, tre settimane prima che il leader afroamericano per la battaglia dei diritti civili, nonché Premio Nobel per la Pace fosse assassinato a Menphis - bisogna sottolineare che, il potentissimo J. Edgar Hoover - il capo indiscusso dell'Fbi - , aveva una avversione personale per il leader della comunità afroamericana. 
Il capo di allora attribuiva di tutto (e l'incontrario di tutto) sul conto di Martin Luther King. Era nota la sua continua ossessione anti-comunista che legava a "doppio filo" anche sul conto di Martin Luther King : un po' come avveniva nel Sudafrica sotto il "Regime brutale dell'Apartheid" che, guarda caso, rinfacciava lo stesso presunto reato a Nelson Mandela descritto dal regime come "un pericoloso terrorista e sedicente comunista".
Così accadeva anche negli Stati Uniti d'America. Ma in realtà, a ben vedere questa accusa non era nemmeno la più brutale. Nello stesso dossier (ora riemerso in questa America nuovamente e paurosamente deragliata su posizioni da "paranoie di destra suprematista" guidata da Trump n.d.t)  lungo 20 pagine c'è ben altro.
In quel "report segreto" si va dall'attribuzione di una relazione extra-coniugale (Joan Beaz) a una figlia illegittima e, come detto, legami con il Partito Comunista. Lo stesso partito si sarebbe dato la briga di vagliare ogni singola presa di posizione di Martin Luther King. 

Quello che colpisce a rileggere queste incredibili "Fake-News" sul conto di Martin Luther King, è il "movente" tipico dell'odio razziale tanto di moda in quell'America come per altro in quella odierna.
Come poter inquadrare e in qualche modo cadere nell'errore di poter credere che il leader della comunità afroamericana - come per altro riportato con molta enfasi nel dossier-segreto dell'Fbi - potesse partecipare a "orge a base di alcol". E se ancora non bastasse, il potente "Ras dell'Fbi", J. Edgar Hoover pretese di mettere nel calderone del dossier altro fango: quelle orgie vedevano tra le protagoniste "prostitute bianche e nere" che, venivano assoldate per i "festini dopo gli incontri di lavoro". 
Il lavoro a cui si riferisce il dossier era quello del grande Movimento afroamericano che si batteva e dava battaglia per i diritti civili. E se questo era il contesto era chiaro l'obiettivo: gettare tutto il fango possibile ed inimmaginabile non solo contro il leader afroamericano ma, in questo modo si tentava di tarpare le ali dell'intero movimento.

Ma erano solo cattiverie razziste e bisogna dirlo, in questa America 2017 cade a pennello e forse, neanche colpisce più di tanto quello reso noto dagli Archivi di Stato di Washington. Tuttavia resta da capire per quale ragione e motivi misteriosi questo dossier fosse finito - ben nascosto - negli ultimi "Files" sull'assassinio di John F. Kennedy.

Misteri americani anche se non è molto difficile quale manovra politica ci fosse dietro l'"attenzione ossessiva" del capo Fbi, Hoover. Anche qui nulla di nuovo: al di là dell'avversione nei confronti di Martin Luther King, il dossier infamante serviva a screditare il Premio Nobel a isolarlo, indebolirlo e forse, stando così le cose quando tre settimane dopo la stesura del dossier (12 marzo 1968) Hoover non deve essersi strappato i capelli per l'assassinio del reverendo a Menphis.

-Lo storico Garrow ribadisce : "Accuse né nuove né vere"

"La realtà" , commenta in modo diretto e preciso lo storico David Garrow - già vincitore di un premio Pulitzer - "è che queste accuse non sono né nuove né vere. Il documento non contiene alcuna prova".
Ad avvalorare questa posizione dello storico Garrow è che Hoover non ha mai trovato nulla di compromettente sui rapporti tra il reverendo e i comunisti e, nemmeno sulle accuse malfamanti di una presunta relazione extra-coniugale con Joan Beaz che non si è neanche degnata di smentire questa "notizia completamente falsa".
A chi fa ancora paura Martin Luther King?
(Fonte.:bbc;cnn;washingtonpost;;nytimes)
Bob Fabiani
Link
-www.bbc.com/news/world-us-canada-41871956;
-www.cnn.com/martin-luther-king-document-included-jfk-files;
-https://www.washingtonpost.com/in-the-latest-jfk-files-the-fbi-ugly-analysis-on-martin-luther-king-jr;
-https://www.nytimes.com/us/politics/jfk-files  
          

     

sabato 11 novembre 2017

Quella strage di Migranti in Libia che chiama in causa l'occidente.





La nuova  strage nel Mediterraneo - davanti alla Coste della Libia - squarcia di netto la situazione che si è venuta a determinare dopo l'ideazione e, la conseguente applicazione del cosiddetto "Codice Minniti". Non ci voleva poi molto a capire che quel diktat - messo in atto dal governo italiano e dal ministro dell'interno - fosse del tutto sbagliato e, avrebbe causato una gran quantità di tragedie, sotto forma di un infinito, inarrestabile, doloroso genocidio di migranti. 
Il video che fa da sfondo a questo nuovo articolo di questo blog è la testimonianza drammatica di quel che significa quel codice messo in atto dall'Italia. 

Che cosa ci dicono queste immagini?  (opportunamente pubblicate nel sito della Ong tedesca Sea Watch)  ...

Raccontano di una guerra inaudita, inaccettabile che è la maggiore responsabile di ciò che è accaduto non più tardi di lunedì scorso al largo delle Coste libiche, in quel tratto di mare che è già Mediterraneo e, dunque, proprio per questo non può non chiamare in causa tutti: la Libia e la guardia costiera (lautamente finanziata dal governo italiano n.d.t), la stessa Italia e l'Unione europea. Non si può continuare a far finta di nulla dopo questa strage che ha condannato alla morte in mare di altri 50 migranti.

Ma a  nessuno sembra importare più di tanto delle tragedie del mare al cosiddetto occidente, quell'occidente civilizzato interessa solo bearsi di pseudo risultati che si celano questo accordo Italia-Libia (parziale, non vincolante ... ricordiamolo una volta per tutte: fare un patto con Al Sarraj significa dare denaro alle milizie libiche, le stesse che nei lager trattano i migranti come schiavi, torturandoli e stuprandoli n.d.t) e, se poi la vera realtà squarcia la folta, spessa coltre di silenzio  - che in realtà è censura - a quel punto, si manifesta un certo nervosismo di fondo.


-Stime e numeri falsi

Il ministro dell'interno italiano, Minniti ha passato gran parte dei mesi scorsi a lodare i risultati di questo accordo - che vale la pena ricordarlo, attraverso i diktat del "Codice Minniti" ha fatto in modo di cacciare le Ong dallo stesso tratto di mare dove è andato in scena il disastro di lunedì scorso per lasciare le mano libere ai libici - vantandosi di un 30% in meno di sbarchi dei migranti ma, la verità è un'altra: come avevano denunciato da subito alcune Ong (e tra queste Msf  n.d.t) la ragione di questo calo è da ascrivere al fatto che "ne sbarcano di meno perché ne muiono di più tra le onde del Mediterraneo".
Purtroppo è ciò che è accaduto in questi mesi di cui la tragedia di lunedì scorso rappresenta una costante che non può più essere accettato da tutti i cittadini europei. 


-La denuncia di Sea Watch ong tedesca

Lo scenario che si trovano davanti ai loro occhi i volontari dell'ong tedesca racconta di una "guerra contro i migranti", una guerra senza esclusioni di colpi. Ricostruiamo la tragedia in "5 atti":

  1. L'intervento della guardia costiera dei libici e l'arrivo di Sea Watch: la motovedetta libica è la prima a raggiungere i migranti in difficoltà sul loro gommone ormai semi affondato. A decine vengono soccorsi e fatti salire a bordo. Poco dopo però il punto del nubifragio viene raggiunto anche dalla Sea Watch che cala in mare i suoi gommoni offrendo aiuto ai migranti.
  2. Calci e botte per fermare la fuga: decine di persone, già in salvo sulla motovedetta libica, si lanciano in mare nel tentativo di raggiungere i gommoni della Sea Watch. Secondo il racconto dei testimoni, i libici reagiscono violentemente. Prendono a calci i migranti e li colpiscono con mazze e corde per trattenerli sul ponte della motovedetta e impedirne la fuga.
  3. I lanci di patate per ostacolare i soccorsi: il gommone è ormai semiaffondato, alcuni cadaveri galleggiano già in acqua. Gli uomini della Ong si concentrano sui vivi per cercare di salvare più gente possibile. Molti migranti non sanno nuotare. I militari libici continuano a ostacolare in tutti i modi i soccorsi, arrivando persino a lanciare patate addosso ai volontari intenti a issare a bordo i migranti che annaspano in mare.
  4. L'appello della marina militare italiana: "Le persone stanno saltando in mare. Fermate i motori e collaborate con la Sea Watch. Per favore, collaborate", è l'invito della marina militare italiana alla guardia costiera libica. Le istruzioni, pronunciate in inglese dall'elicottero, resteranno inascoltate.
  5. La partenza improvvisa: la guardia costiera libica riaccende i motori e riparte verso Tripoli con 42 superstiti a bordo. La motovedetta trascina via i migranti ancora aggrappati alle cime. Muoiono 5 persone ma, poi si apprenderà che la stessa sorte è toccata ad altri 50 migranti. 


-Bilancio drammatico della strage

Nel disastro andato in scena lunedì scorso e costata la vita ad altri 50 migranti è stato fondamentale la decisione da parte della Ong tedesca Sea Watch di rendere visibile a tutti i video che inchiodano (senza appello) la guardia costiera libica. Queste drammatiche immagini non fanno altro che rinforzare le accuse che le stesse Ong avevano lanciato quando Minniti (spavaldamente) aveva annunciato il famoso "Codice" che, di fatto dimostrava come l'intenzione e l'obiettivo di quell'occidente ricco e cinico era soltanto togliersi di torno le navi delle Ong che venivano messe all'indice visto che erano in grado di salvare i migranti che incappavano nei naufragi e praticamente da sole, evitavano tragedie come quella di lunedì 6 novembre 2017. 
"Il video e gli audio messi a disposizione dalla Sea Watch" - dichiara don Armando Zappolini, presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza - "parlano chiaro, sono una vergogna per qualunque paese civile. La condotta della guardia costiera libica viola i più elementari diritti umani", e conclude "Non pensi il governo italiano di allontanare da sé la responsabilità o di raccontare la favoletta che l'Italia non c'entra con i respingimenti. Le navi delle Ong, che assicurano realmente una possibilità di soccorso in mare, sono drasticamente e i morti in mare aumentano".

Queste parole sono una denuncia diretta nemmeno troppo velata al "Sistema Minniti" un sistema che prevede il sostegno alle tragedie che avvengono lontano dalla visione diretta dei cittadini italiani. Si tratta di quella "favoletta" di cui parla don Zappolini e che prevede l'unica strada percorribile di questo occidente cinico e impavido; una non-strategia che condanna alla morte migliaia di migranti nel deserto e nei lager libici che la stessa Italia finanzia. 
L'ultimo episodio di questo infinito genocidio era stato ampiamente denunciato e previsto dai volontari di Medici senza frontiere - Msf che fin da subito, nelle ore in cui tutti i media italiani incensavano il "Codice Minniti" come soluzione vincente e risolutiva, i volontari dissero senza mezzi termini che si voleva perseguire la "politica dei respingimenti tramite il lasciapassare della guardia costiera libica" dove, non ci si è fatto scrupoli di far accordi con chi si fa dettare legge dalle milizie armate che a Tripoli e in tutti i lager del paese africano costringono i migranti a stare in condizioni disperate, al pari di detenuti e terroristi tra sporcizia, le continue violenze, torture, stupri in una sistematica mancanza dei diritti umani. 
(Fonte.:seawatch;ilmanifesto)
Bob Fabiani
Link
-seawatch.org;
-www.ilmanifesto.it       

     

venerdì 10 novembre 2017

Storia di un Genocidio dimenticato: la Namibia e lo sterminio Herero (Prima parte).


 




Iniziano oggi e per tutto il mese di Novembre le pubblicazioni di AfricaLand - Storie e Culture Africane dedicata a un "Genocidio dimenticato" quello che andò in scena all'inizio del XIX secolo e vide protagonisti la Germania allora impegnata nella "campagna d'Africa". Ci volle più di un secolo per ammettere la brutalità di quello sterminio contro il popolo Herero. 
Questa è la storia di quella tragedia che questo Blog ha ricostruito in quattro puntate. 

La storia della Namibia è in gran parte una storia coloniale. La Namibia come stato indipendente esiste soltanto dal 1990; precedentemente, la zona fu prima una colonia tedesca (col nome di Africa Tedesca del Sud-Ovest) e poi, con diverse formulazioni ufficiali fu controllata dal Sudafrica. 


-Nascita della colonia (Africa Tedesca Sud-Ovest)

Il 24 aprile 1884, il cancelliere tedesco Bismarck dichiarò "colonia tedesca" un'area corrispondente a gran parte della Namibia moderna, eccetto l'enclave britannico di Walvis Bay. La colonia, che aveva inizialmente un'estensione di 885.100 chilometri, fu battezzata "Africa Tedesca del Sud-Ovest (Deutsh-Sudwestafrika)". 
Sul suo territorio la bandiera fu issata il 7 agosto 1884, tre mesi prima della Conferenza di Berlino - svoltasi tra il 1884 e il 1885, detta anche Conferenza dell'Africa Occidentale o Conferenza sul Congo, regolò il commercio europeo in Africa centro-occidentale nelle aree dei fiumi Congo e Niger e sancì la nascita dello Stato Libero del Congo sotto l'influenza (dominazione) di Leopoldo II del Belgio - .
La colonia si espanse nel 1890 mediante l'acquisizione del "Dito di Caprivi" (territorio della Namibia con una superficie di circa 18 mila chilometri), nel Nord-Est, che prometteva nuove rotte commerciali. Questo territorio fu acquisito grazie al "Trattato di Helgoland-Zanzibar" tra la Gran Bretagna e la Germania. 
L'Africa Tedesca del Sud-Ovest fu l'unica colonia dove i tedeschi si stabilirono in gran numero. I coloni erano attratti dalle opportunità economiche offerte dall'estrazione di diamanti e dal rame, ma specialmente dalla coltivazione della terra. Nel 1902, la colonia aveva 200 mila abitanti, di cui 2.595 tedeschi, 1.354 afrikaner (termine a cui si fa riferimento quando si vuol indicare i membri della popolazione dell'Africa Meridionale di pelle bianca calvinista, ugonotta, olandese, francese, belga o tedesca e che parlino l'Afrikaans, una lingua derivata dall'olandese e tristemente nota nel Sudafrica del "Regime dell'Apartheid"; la lingua in questione risale al XVII e XVIII secolo) e 452 inglesi. 
Negli anni seguenti, sino al 1884, arrivarono altri 9 mila coloni tedeschi. Nello stesso periodo, le popolazioni autoctone comprendevano circa 80.000 Herero, 60.000 Ouambo e 10.000 Nama, a cui ci si riferiva genericamente col nome di Ottentotti.


-Lo sterminio del popolo Herero (Guerre herero)


Gli Herero o Ovaherero sono un popolo africano appartenente al gruppo etnico dei Bantu (antica civiltà fiorita intorno all'XI secolo ed è stata la più importante civiltà dell'Africa subequatoriale. I Bantu abitavano praticamente tutta l'Africa Meridionale e gran parte dell'Africa centrale). Attualmente sono circa 120.000, la maggior parte dei quali si trovano ancora qui in Namibia (e sono i diretti discendenti degli avi sterminati dalla Germania all'inizio del XIX secolo n.d.t) ma gruppi minori si trovano anche in Botsawana e Angola.
Da sempre la società Herero è incentrata sul possesso del bestiame essendo fin dalla notte dei tempi un popolo dedito alla pastorizia. La lingua herero (otijherero) fa parte della "famiglia bantu" (gruppo Niger-Congo) e copre un'area chiamata "Hereroland", costituita principalmente dalle regioni di Omaheke (regione della Namibia con capoluogo Gobabis), Otjozoindjupa (altra regione della Namibia con capoluogo Otiiwarongo) e Kunene (regione della Namibia con capoluogo Opuwo). 

Le "guerre herero", sono ricordate come "genocidio degli Herero e dei Nama", ebbero luogo nell'Africa Tedesca Sud-Ovest (l'attuale Namibia) fra il 1904 e il 1907, nel cosiddetto periodo della "spartizione dell'Africa", da parte delle potenze colonialiste europee. 
Il conflitto ebbe inizio dalla ribellione del popolo Herero - a cui si aggiunse in un secondo tempo il popolo Nama, popolo di pastori conosciuti anche con il nome di Namaqua della regione del "Namaqualand", compresa tra il Sudafrica, la Namibia e il Botswana - contro l'autorità coloniale tedesca.

Il generale Lothar von Trotta, incaricato di sopprimere la ribellione, utilizzò pratiche di guerra non convenzionale che includevano l'avvelenamento dei pozzi e altre misure che portarono alla morte per fame e per sete di una rilevante percentuale della popolazione Herero e Nama. 

La realtà dei fatti si trattò di ben altro. Di qualcosa di terribile: la Germania, in questa parte di Africa attuò uno "sterminio pianificato" in cui si trovano le prove generali di un genocidio che colpì il popolo Herero, una sorta di anticipazione di quello nazista. Del resto qui in Namibia - all'epoca Africa Sud-Occidentale Tedesca - il primo governatore imperiale è Heinrich Ernst Goring, padre del futuro comandante delle Luftwaffe e numero due del regime hitleriano, Hermann Goring. 

Nel 1985, la Nazioni Unite (con il "Rapporto Whitaker) identificarono nella guerra contro gli Herero uno dei primi tentativi di genocidio del XX secolo. Nonostante ciò, la Germania, non ammise da subito le proprie pesanti colpe: si dovette attendere il 2004 (quindi un secolo dopo...) quando, il governo tedesco fu costretto a riparare, in qualche modo, con parole di questo tenore: "noi tedeschi accettiamo le nostre responsabilità storiche e morali".
Quali che siano state le parole del governo tedesco questa tragica storia del "genocidio della Namibia" merita di essere raccontato in tutte le sfaccettature e, nei drammatici eventi che seguirono in quei tre anni che sterminarono il popolo Harare: è quello che faremo nelle prossime puntate di questa inchiesta.
(Fonte.:bbc)
Bob Fabiani
Link
-www.bbc.com/news/germany-admits-namibia-genocide/august14,2004




  

giovedì 9 novembre 2017

Inchiesta sul BLM-Black Lives Matter




Seconda Parte: Nuovi scenari per il Movimento anti-razzista all'ombra dell'America di Trump


L'elezione di #TheDonald a presidente degli Stati Uniti (45° della storia Usa) andata a segno esattamente un anno fa - 8 novembre 2016 - pone una serie di interrogativi con i quali, gli attivisti BLM, hanno dovuto cimentarsi e tentare di risolvere.
Sulle colonne della rivista statunitense "The Nation" - da sempre paladina delle istanze della sinistra americana, liberal, pacifista e incuriosita dai diritti sociali e per questa ragione impegnata sul fronte dei diritti civili - Dani McClain ha dedicato un dettagliato articolo-inchiesta sulla nuova dimensione del Movimento BLM, al tempo dell'America di Trump.
Un anno dopo, gli attivisti hanno dovuto prendere atto che scendere nelle piazze oggi, negli Stati Uniti, è più oneroso e pericoloso di quanto non lo fosse prima, non fosse altro perché Trump, la sua amministrazione e le "falange della destra suprematista", non ammettono alcun indugio: le istanze dei neri, le aspettative (e le richieste) della comunità afroamericana per loro non valgono nulla anzi, bisognerebbe tornare alle "pratiche della vergogna" ossia, al "tempo della schiavitù". 

Altro che diritti civili conquistati negli anni'60 del Novecento.

In questo contesto non c'è solo la mancanza di "uguaglianza civile" e, il sostanziale ritorno ai quei "tempi bui" - cosa del resto sempre perseguita da quella America razzista dove il fascismo impera ora che si annida addirittura dalla plancia di comando della Casa Bianca - a preoccupare la comunità afroamericana è stata la decisione voluta dai Ras del Partito Repubblicano che, negli stati sudisti, hanno cancellato il "diritto al voto dei neri". 
Ma questo in fin dei conti avveniva ancora sotto la "presidenza Obama" ora, invece, la situazione è diventata ancora più pericolosa dopo la vittoria drammatica di #TheDonald. Oggi, negli Stati Uniti si deve convivere con il Regime Trump-Pemce" e si oscilla tra spinte razziste ed editti presidenziali tipici di quei sistemi autoritari degni delle dittature nazi-fasciste degli anni'20 e '30 del Novecento che portarono alla catastrofe della seconda guerra mondiale. Tuttavia, quello che più inquieta (e stordisce) è il sistematico ricorso alla pratica della "deportazione di stato" - voluta e applicata da questa amministrazione - contro le minoranze etniche che rischia di gettare altra benzina sull'incendio razziale, in fin dei conti la vera "questione irrisolta" degli Stati Uniti. In poco più di un anno di presidenza, l'amministrazione Trump sta condannando centinaia di migliaia di bambini alla triste "condizione di orfani" che, da un giorno all'altro, si sono visti sottrarre da sotto il loro sconvolto sguardo i propri genitori considerati da questa dal governo-Trump alla stregua di criminali e di terroristi. E' la faccia cruenta del Trumpismo contro il quale la sinistra americana, il Partito Democratico Usa e quindi lo stesso Movimento BLM sono chiamati, non solo a resistere ma a riorganizzarsi.

Ma allora in tutto questo rigurgito di  "odio razziale" (sopratutto nei Collage e nelle Università n.d.t) ma anche nei posti di lavoro dove, i neri (e in questo caso sopratutto le donne) si ritrovano a dover far i conti come se, improvvisamente, si fosse realizzato un inquietante viaggio a ritroso nel tempo; riscoprendosi (amaramente) dei facili bersagli, a uso e costume di squadristi fascisti, di datori di lavoro sempre più esigenti e convinti seguaci di quel "capitalismo rampante" - del resto ben rappresentato dall'inquilino della Casa Bianca, di gran lunga il peggior presidente della storia americana - e, per questo decisamente liberi di poter licenziare tutti coloro che non stanno alle regole (neo-liberiste) e molto semplicemente schiaviste che tanto vanno di moda in questa America dove impera il Trumpismo.

Alla luce di questo contesto il BLM cosa intende fare? Quale strategia intende perseguire?
      
L'analisi dentro il Movimento è stata serrata e, alla fine la conclusione a cui si è arrivati è la seguente: il futuro del BLM sarà uno sbocco elettorale più che una occupazione delle strade. Nessuno all'interno del Movimento nasconde la necessità di rivendicare una rappresentanza politica.  Al momento del tutto deficitaria. Sullo sfondo resta la contraddizione andata in scena durante le ultime Primarie democratiche: in un primo momento era stato lanciato l'amo a Bernie Sanders salvo poi, aver votato per Hillary Clinton. Un errore da non ripetere.
Tuttavia porre la questione solo esclusivamente su chi appoggerà il BLM è fuorviante e del tutto riduttiva.
A quattro anni dalla sua nascita - si legge nel reportage firmato "The Nation" - tutto è cambiato fuori e dentro lo stesso Movimento. A essere cambiate sono anzitutto le modalità organizzative, la struttura interna e quindi, la strategia politica della mobilitazione. Oggi il BLM è un misto tra una associazione di promozione sociale, un gruppo di interesse (non solo politica evidentemente) e una strat-up, divisa in una pluralità di sotto-progetti (con esplorazioni interessanti alla Cultura afroamericana e alla musica Black allargata alle Arti visive n.d.t) e per questo abile a produrre suadenti hastag per tenere il passo sui social network dove per altro, subisce anche l'onta di vedere scippato non solo lo storico slogan delle lotte sociali e delle "Marce per i diritti civili" condotte e guidate nello scorso secolo da Martin Luther King Jr è il caso di molti gruppi nati sulle nuove piattaforme che fanno il verso al BLM rivendicandolo e annettendolo sulle istanze razziste collegate a quei gruppi dell'estrema destra che si schierano sempre e comunque con le forze dell'ordine incitandole a "far fuori i neri", in quel massacro che è e rimane la "caccia al nero" negli Stati Uniti. 
Al di là di queste schermaglie, nel Movimento BLM sono tutti consapevoli che la strada è tutta in salita perché, tutti gli attivisti sanno che se non si mirerà a incidere concretamente sui rapporti di forza dentro la società americana, il BLM non riuscirà a invertire la tendenza della fase attuale, in cui gli Usa stanno tornando indietro rispetto ai tempi delle "Marce di Selma": all'epoca gli afroamericani protestavano per il diritto di voto, adesso invece sono costretti a farlo per il diritto a vivere. 
-Fine seconda parte-
(Fonte.:thenation)
Bob Fabiani
Link
-www.thenation.com

  

mercoledì 8 novembre 2017

MULATTIERA DI MARE*





Siamo tutti naufraghi
in bilico tra terra e mare
questo mondo, dicono:
è di tutti
quelli che arrivano
da Amman o Ramallah
Dakar o Assuncion
Siamo tutti naufraghi
anche noi che
abitiamo qui nel
mondo
effimero delle luci
e del lusso
sfrenato
pensiamo di stare
sempre nel giusto
quando gridiamo
qui non c'è
più posto neanche
per respirare
"né case né salario"
Siamo tutti naufraghi
noi indifferenti
a storie salate
lacrime su queste
esistenze
da primo mondo
Siamo tutti naufraghi
chiusi nelle nostre
belle case, case di pianura
aspettiamo emozioni smisurate
che non arrivano
mai
e non sappiamo
più amare
paralizzati come siamo
dalla paura
dell'arrivo di un'altra
mulattiera di mare
che attracca davanti
a questo mare.

* Versi in onore delle 31 ragazze nigeriane morte in mezzo al mare
** Alle Sorelle d'Africa e a Matar, fratello africano di una lontana stagione
Versi scritti nel 2004
Bob Fabiani 

martedì 7 novembre 2017

La "Questione Migranti" (in onore e in ricordo delle ragazze nigeriane morte nel Mediterraneo)






Questa è una storia africana. Una storia di dolore, speranze negate tra indicibili soprusi, torture, diritti umani violati. Storia di stupri e naufragi.
Cronaca di un genocidio.

Queste poche frasi che avete appena letto sulle pagine virtuali di un blog, uno spazio interamente dedicato all'Africa - che ci siete capitati per sbaglio oppure con l'intenzione di leggerle quotidianamente le storie della "Grande Madre Terra" - devono la loro pubblicazione in onore e in ricordo delle ragazze nigeriane naufragate nel tratto di mare che va dalla Libia all'Italia. 
E' l'ennesimo bilancio drammatico di un unico sterminato genocidio quello dei migranti costretti a fuggire dall'inferno di guerre, schiavitù, fame, torture che si consumano nel Continente Nero. 
E' un cerchio concentrico che non conosce fine perché, questa situazione fa comodo a troppi protagonisti, compreso quell'occidente, quella civilissima Europa - non ultima l'Italia - che è restia a lasciare l'egemonia colonialista oggi rinverdita sotto altre spoglie. Le stesse di sempre: controllare le risorse di quelle materie prime di cui l'Africa è ricca. E' un gioco al massacro che chiede (e pretende) il "sacrificio massimo" solo e soltanto all'anello debole, i migranti costretti ad abbandonare la Nigeria, il Senegal, il Burundi e giù fino all'Africa del Sud per poi risalire verso la Costa D'Avorio, il Camerun, il Ghana o il Burkina Faso. E sono donne e uomini, più spesso ragazzi e ragazze strappati alle loro città Lagos o Dakar, Bamako o Tunisi quando ancora sono in età scolastica. Minori soli, sbandati, disorientati, passati attraverso l'inferno in terra racchiuso in un posto, uno "Stato fallito" (che qualcuno di loro già aveva conosciuto perché il caso ha voluto che siano nati in Somalia, cittadini di Mogadiscio oppure di sperduti villaggi, in balia di orde di terroristi, "Signori della guerra", ben finanziati, armati, sostenuti dalle potenze imperialiste, le stesse di sempre ... Francia o Usa, Italia o Gran Bretagna e poi Spagna, Belgio e le monarchie del Golfo, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia, Russia e Germania).

Vite disperate confluite in un altro "Stato fallito" la Libia del dopo-Gheddafi. E' qui che accade qualcosa di inaccettabile. E' qui che tutto diventa inferno: sulla pelle dei migranti. Nessuno può salvarsi dopo mesi e mesi di un lento, massacrante girovagare per l'Africa passando attraverso il deserto al confine con il Niger e il Ciad. 
Sono le "rotte della morte" e l'Europa si mostra insensibile a questa tragedia se, cinicamente fa finta di nulla scegliendo di girare la testa da un'altra parte come per la "costa dei lager" che, in Libia ormai se ne conta a decine. Ce ne sono di ufficiali, ossia gestite da milizie (armate) vicino al governo (quello riconosciuto solo a livello internazionale, Onu, Unione Europea e Stati Uniti d'America e non certo in quella Libia ridotta al caos e allo sbando dopo la guerra del 2011 voluta sopratutto da europei e americani con la Francia smaniosa di levarsi di torno Gheddafi ... e, a distanza di 6 anni si capisce anche il perché...dato che oggi, in quella stessa Francia, all'epoca dei fatti guidata da Nicolas Sarkozy; un libro appena pubblicato rivela che "i soldi di Gheddafi erano per la candidatura dello stesso Sarkozy", il "peggiore scandalo di corruzione della Quinta Repubblica" ("Avec les compliments du Guide" firmato da Fabrice Arfi e Karl Laske) e "per questo l'Eliseo volle la guerra").
Ma ne esistono anche di segreti, in mano alle bande di trafficanti di armi, droga, comprese quelle del petrolio (in combutta con la mafia e in complicità con la guardia costiera libica, la stessa che l'Italia supporta...ufficialmente sul fronte anti-migranti) e del traffico di migranti. Siamo sulla costa, nella città di Zawyia oppure a Mellitah, un compound in mano alla milizia "Anas Dabbashi". 
E' qui l'inferno dove nessuno può sperare di farla franca se decine di migliaia di migranti vengono sistemati nel centro di detenzione di Al Nasr, Zawyia. Le tribù hanno afferrato bene il concetto: più riescono a tenere i migranti sotto chiave e più il loro guadagno sale. Basta non farli partire.

E' dunque con queste milizie, con queste tribù che l'attuale ministro dell'interno italiano, Minniti, ha stretto un accordo che in realtà era temporaneo, inconcludente e tutto incentrato sul blocco dei migranti condannandoli ai soprusi, alle torture e agli stupri come raccontano le decine di migliaia di ragazze, donne e bambine che sono approdate in Italia dopo aver superato e domato l'inferno prima di finire in un altro "girone infernale" calcando ormai il selciato italiano. 
Frammenti e storie del "Codice Minniti" dove si voleva colpire in una unica direzione: i diritti non riconosciuti dei migranti e di pari passo tutte le Ong delle navi di soccorso dei migranti in difficoltà in mare aperto, nel vano e velleitario tentativo di impedire lo sbarco dei migranti in Italia e in Europa. 


-Torture e stupri nei centri libici

Sono storie dure. Amare. Violente. Testimonianze che denunciano la perdita della ragione umana.
"Eravamo ammassati come bestie", raccontano le voci migranti a Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza frontiere (Msf). La stessa presidente dichiara "quello che ho visto in Libia è l'incarnazione della crudeltà umana al suo estremo".
E sono denunce dirette di giovani donne, ragazze (come le 31 nigeriane naufragate solo qualche giorno fa e sbarcate nel porto di Salerno dentro alle bare, giovani adolescenti, di soli 14 anni e, la più grande di 18 anni...) vittime di stupri e torture. Questo accade in quei centri libici finanziati dall'Italia (con ingente somme di denaro) eppure declinati come vanto sia dal ministro Minniti sia dal primo ministro del governo italiano. 
Storie di orrori documentati dai disegni dei ragazzi in gabbia. Orrori disegnati narrando stupri, fucili e botte: per questa ragione nell'animo dei migranti non può far paura la traversata del Mediterraneo tra la Libia e la Sicilia, la rotta più pericolosa che porta al Canale di Sicilia.
Qui dove si consuma il genocidio dei morti in mezzo al mare, come quelle 31 ragazze nigeriane, sorelle d'Africa di cui non sapremo mai i loro nomi.
(Fonte.:libyaherald;limes;espresso.repubblica;ilmanifesto;internazionale)
Bob Fabiani
Link
-https://www.libyaherald.com;
-www.limes.com;
-espresso.repubblica.it;
-www.ilmanifesto.it;
-www.internazionale.it/africa