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lunedì 15 aprile 2019

Quel pericoloso "risiko da guerra fredda" in atto a #Tripoli (sulla pelle dei #migranti e dei popoli d'Africa)







Impazza la guerra. La furia dei combattimenti sta mettendo a dura prova la sopravvivenza dei civili a Tripoli. Questa nuova-vecchia guerra civile in atto (con il sostegno più o meno dichiarato della comunità internazionale) ha già causato troppe vittime: secondo le ultime stime, sarebbero almeno 121 i morti e oltre 600 i feriti nei combattimenti, sempre più cruenti, vicino Tripoli.

Partiamo dunque da questi dati per il nostro nuovo approfondimento sul "Caos in Libia".

A capire quanto sta avvenendo sul terreno della capitale è l'ufficio dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in Libia, che non specifica il numero delle vittime civili; ci aiuta però a inquadrare che, questi scontri bellici, non stanno risparmiando - come si conviene durante una guerra e, in un paese dove, nessuno, rispetta i diritti umani  - neanche gli ospedali e le ambulanze della capitale libica.  Sull'account dell'Oms su Twitter si condanna "i ripetuti attacchi contro personale medico" e le ambulanze.


La precisazione ONU

L'ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento Affari umanitari (OCHA), tramite l'ONU ha riferito che 13.500 persone sono sfollate a causa dei combattimenti e, 900 di esse, sono stati alloggiati nei rifugi delle Nazioni Unite.





Il giogo del "risiko da guerra fredda": a chi conviene?


Uno dei responsabili dell'attuale "caos libico", quel Al-Serraj che, non ha esitato a reclutare e a spedire al fronte (sotto il pesante fardello di un disumano ricatto che, più o meno è risuonato così: il migrate sudanese o eritreo viene scelto e se accetta gli si promette il ritorno alla libertà ... come se, le vite delle persone potessero essere barattate come si faceva agli albori dell'umanità, quell'umanità che non vale per chi si trova nell'inferno dei lager libici), i migranti, detenuti illegalmente, nei vergognosi lager, gestiti dalle milizie libiche (e sovvenzionati anche con i soldi pubblici dei cittadini italiani come del resto di quelli europei, n.d.t), tenta di salvarsi dalla sua certa destituzione da presidente del governo, lanciando messaggi catastrofici, sul fronte delle migrazioni.




Ecco le sue dichiarazioni, per una volta riportate fedelmente (e in tempo reale...) dai media italiani (cosa per altro inusuale, dato che non accade di frequente trattandosi di Africa...).

"Haftar ha tradito la Libia e l'ONU", è l'attacco delle dichiarazioni di un leader ormai all'angolo, sempre più inviso al resto della Libia. Il discorrere del premier libico - che troverà spazio nella versione cartacea di domani de @laRepubblica - vira, inaspettatamente, su un'involontario (?) assist ai sovranisti che imperversano ovunque in Europa, Italia compresa. Serraj sciorina numeri:"800mila migranti sono pronti a partire" e conclude l'intervista chiamando in causa i miliziani dell'"Isis di nuovo in azione".




E' questo dunque il messaggio che Serraj si sente di veicolare all'Italia senza per altro dire nulla sul suo discutibile ricatto messo in atto contro i migranti.

Intanto in questo puzzle che fa capo al "nuovo risiko da guerra fredda" in atto su larga scala in Africa, bisogna registrare la solita "azione mediatriceitaliana", una di quelle però invise, detestate da _Haftar che, tuttavia, deve ora fare i conti (sul terreno) con le forze speciali USA tornate, in fretta e furia da Mogadiscio.

Mentre a Roma andava in scena un summit con il ministro degli esteri qatariota, Al Thani, a quanto pare, da Roma, hanno deciso, ancora una volta di puntare su Serraj.

E' inutile trincerarsi dietro formule "in politichese" : a Roma, mettono in circolo questa "azione mediatrice" (con chi poi se, il maresciallo e uomo forte della Cirenaica ma ormai in espansione in tutta la Libia, ha già fatto capire di non voler fare nessuna trattativa con il premier di Unità nazionale che, reputa come un "prestanome" al soldo degli stranieri ...), nel vano tentativo di salvare gli interssi dell'Eni, ossia i giacimenti di petrolio ... salvo però criticare gli altri se fanno altrettanto.

Colpisce l'impasse italiana: si resta allibiti da questa visione utulitaristica, senza capire che, in Africa, gli equilibri della Geopolitica sta cambiando (e non da oggi).

Tattica rischiosa dal momento che Haftar - come abbiamo scritto la settimana scorsa - può contare sulla nuova alleanza con l'Arabia Saudita e, il massimo sostegno di Egitto senza, naturalmente ttralisciare la Francia di Macron.




Nel mezzo c'è l'inferno.

Ci sono migliaia di migranti che nessuno tutela e di cui, Al-Serraj si fa scudo, lanciando e rimettendo in circolo lo spauracchio di una supposta invasione - come se fosse l'attuale inquilino del Viminale a parlare quando arringa, da ministro della Repubblica italiana, folle di simpatizzanti, nelle arene della campagna elettorale permanente come gli ha insegnato il suo "padre putativo" quel Trump che passa le giornate a fare campagna per le #Presidenziali2020 sulla pelle dei migranti - alle coste italiane ed europee.

Chi tutela i civili di Tripoli? Chi pensa alla ricostruzione della Libia?

Forse alla comunità internazionale serve che le cose restino esattamente come sono adesso, in modo da giustificare davanti all'opinione pubblica, il ritorno del "risiko da guerra fredda" da portare avanti sulla pelle dei popoli africani.
(Fonte.:jeuneafrique;repubblica)
Bob Fabiani
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-www.jeuneafrique.com;
-www.repubblica.it

       

Un mese dopo il #CycloneIdai, in #Mozambico si lotta contro #epidemiacolera




La catastrofe seguita al Cyclone Idai nell'emisfero Sud dell'Africa, è stata la tragedia più ignorata dai mezzi di informazione occidentali, sopratutto italiani. Ora che è trascorso un mese da quel 15 marzo che sconvolse il Mozambico, lo Zimbabwe e il Malawi, è possibile fare un bilancio di questo drammatico evento.

Oggi ci soffermiamo sul Mozambico.


I numeri della catastrofe

Per rendersi conto di quale portata distruttiva è stato questo ciclone tropicale è forse ultile partire dai freddi numeri.


  • Persone decedute,  602
  • Persone ferite,      1.641
  • Persone colpite dal ciclone, 1.85 (un milione e ottantacinquemila)
  • Epidemia colera,  2.772
  • Decessi colera accertati, 5 



La difficile sopravvivenza dei mozambicani tra morti, dispersi e l'epidemia di colera


Un mese dopo il peggior disastro - in qualche modo legato ai cambiamenti climatici in atto in Africa da molti anni - in Mozambico, iniziano a intravedersi segni di ripresa. Lentamente ma, stanno cominciando a emergere.






Un lento, doloroso ritorno alla normalità mentre, la gente torna a casa dopo aver affrontato, in queste quattro settimane, in cui il mondo, sostanzialmente, ha fatto in modo di voltarsi dall'altra parte e, i media, hanno semplicemente censurato la notizia: imponendo un silenzio che raramente si era registrato per catastrofi di questa portata; stoicamente, quanti sono riusciti a salvarsi dalla furia del vento, dell'acqua e del fango, hanno dovuto vivere a stretto contatto con una epidemia di colera che ha colpito 2.772 mozambicani.

Il picco e il peggio sembra essere passato come il ciclone Idai, con estrema lentezza, le Ong, fanno sapere del declinare della minaccia.

Tuttavia, gli effetti di questa catastrofe, si sentiranno per molto tempo.

Un mese dopo, le acque si stanno ritirando - scrive @MedairPress -, ma le persone hanno perso i loro raccolti. I punti dove rifornirsi di acqua (per irrigare i campi) sono stati distrutti.
I mesi successivi saranno la chiave per le persone - non solo qui in Mozambico ma anche in Zimbabwe e in Malawi, gli altri paesi africani colpiti da questa disastro, strettamente legato ai continui stravolgimenti del clima ormai impazzito - , a rimettersi in piedi.
(Fonte.:allafrica)
Bob Fabiani
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-https://allafrica.com)
     

domenica 14 aprile 2019

Ritratto di Abdel Fattah al-Burhanne chiamato a capo della transizione in #Sudan







L'esercito sudanese nomina #Burhan dopo le dimissioni-lampo di Awf inviso al popolo sudanese che, non ha accettato che la destituzione del deposta #Bashir - dopo una dittatura durissima durata 30 anni - favorisse, l'ascesa al Potere di una delle figure militari troppo coinvolta con il regime.

Un altro colpo di scena dunque nella storia della lotta intrapresa dal popolo sudanese unito e compatto nel restare in piazza e, questa condotta intransigente sta pagando.

Ma chi è Abdel Fattah al-Burhan, il nuovo generale a capo della transizione dopo Awf?






"Non è mai stato sotto i riflettori", dice un ufficiale che preferisce l'anonimato parlando ai reporter Afp. E' stato "addetto alla difesa per il Sudan, a Pechino", ma è sopratutto "un ufficiale di alto livello dell'esercito, un comandante che sa come guidare le sue truppe".


Nessuna sensibilità politica


Burhan nasce nel 1960 a Gandatu, un villaggio a Nord di Khartoum: ha studiato in una scuola dell'esercito sudanese e, susseguentemente in Egitto e Giordania.
Comandante dell'esercito prima che Bashir, deposto lo scorso 11 aprile, lo nominasse ispettore generale dell'esercito.

Tutto questo accadeva nel mese di febbraio.

Secondo gli organi di informazione sudanesi, quando era comandante delle forze di terra, ha coordinato l'invio delle truppe sudanesi in Yemen in guerra. L'invio di questo truppe fu deciso dal despota Bashir come parte della coalizione, guidata dall'Arabia Saudita, nel 2015, intervento contro l'accordo di governo con i ribelli Houthi accusati di legami con l'Iran.

Non è mai stato stabilito quanti fossero i soldati sudanesi inviati in Yemen, ma le immagini di soldati morti o feriti circolano regolarmente sui social network e, tramite queste, sono sempre più numerose le richieste per far ritornare le truppe, il prima possibile, a Khartoum.





"Burhane non ha sensibilità politica, è un soldato regolare", spiega la fonte anonima interpellata dai cronisti Afp; fonte anonima che proviene dallo stesso esercito.

Il generale è sposato e ha tre figli.

Eppure #Burhan, revoca il coprifuoco notturno e si appresta a ricevere una delegazione dell'Associazione dei professionisti sudanesi (SPA) e, sopratutto, si dice pronto ad accorciare il periodo di transizione: non ci vorranno (forse) due anni per indire elezioni libere che dovranno garantire un "nuovo Sudan" più inclusivo, democratico, un paese che rispetti i diritti umani e la Giustizia sociale.




Vittoria di popolo (per ora)

Il popolo vince per ora - come riporta la reporter italiana @AntonellaNapoli - . Il Consiglio militare a interim in Sudan si piega alla protesta di piazza avviando negoziati con la SPA e i partiti per l'istituzione di un governo civile.
Intanto è stato deciso lo stop del coprifuoco notturno mentre, è stato defenestrato il capo del Servizio di sicurezza e dell'intelligence.
(Fonte.:jeuneafrique; afp)
Bob Fabiani
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-www.jeuneafrique.com;
-www.afp.fr/en
    

sabato 13 aprile 2019

La svolta. In #Sudan dopo le dimissioni del capo del Consiglio militare, una delegazione SPA (società civile)verrà ricevuta da #Burhan, il nuovo responsabile Governo di transizione






Awad Ibn Awf, il capo del Consiglio di transizione militare che dirige il Sudan dopo la destituzione di Bashir, ha annunciato le sue dimissioni venerdì 12 aprile, e il nome del suo siccessore è quello di Abdel Fattah al-Burhan Abdelrahmane, ispettore generale delle forze armate.







All'annuncio di Awf, per le strade di Khartoum, sono iniziate autentiche scene di gioia collettiva. I sudanesi, sempre piu decisi nel pretendere un cambiamento radicale per un "nuovo Sudan", democratico, un paese dove vengano rispettati i diritti umani al pari della Giustizia sociale.

La svolta 

L'Associazione dei professionisti sudanesi (SPA), una delle principali forze a guidare la protesta, ha celebrato la decisione di Ibn Awf come una vittoria e ribadito, ancora una volta, la richiesta per una transizione al Potere civile.




Nella giornata di ieri, si è temuto il peggio, dal momento che, l'esercito sudanese era ben determinato a rimanare al potere per i due anni, guidando così il governo di transizione che dovrebbe poi portare alle elezioni ma, a stretto giro di posta, i manifestanti, respingevano questa decisione continuando a protestare nelle strade di Khartoum, senza lasciare il presidio di lotta, fin tanto che i militari non lasceranno il posto a un Governo civile.

Ma l'Africa è un Continente in movimento e imprevedibile, nel bene come nel male. Stavolta, il colpo di scena, scrive una pagina storica e, forse decisiva per quel cambiamento invocato dal popolo sudanese.

Una svolta imprevedibile.

Il generale #Burhan a capo del consiglio militare che ha preso il potere in Sudan incontrerà oggi, una delegazione dell'Associazione dei professionisti sudanesi (SPA) guidata  - come scrive la giornalista italiana, Antonella Napoli - dal presidente Mohammed Youssef Ahmed Mustafa, scarcerato ieri dopo due mesi di prigione sopo per essere il leader di #SudanUprising.
(Fonte.:jeuneafrique)
Bob Fabiani
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-www.jeuneafrique.com    

venerdì 12 aprile 2019

Quel rischio da "scenario egiziano" in #Sudan come in #Algeria








Lo spettro dello "scenario egiziano" prende sempre più piede nel cuore delle rivolte di Algeri e Khartoum. Del resto in questi due paesi africani, è l'esercito ad assumersi un ampio ruolo politico ed economico.

C'è un filo conduttore nella storia del passato ma anche ai giorni nostri che vuole sempre una "soluzione muscolare" alle varie crisi che attraversano l'Africa.
Crisi poste in essere dalla denuncia di problemi non più rinviabili, che, a cicli regolari, intossicano la qualità della vita dei giovani africani.

La parola chiave è: cambiamento.

In Africa, in questi ultimi anni, le giovani generazioni, hanno un obiettivo comune: estirpare la povertà, abbattere le carriere di depostiti che non vogliono mai lasciare il Potere. la plancia di comando.

Il problema risiede laddove, i popoli tenatono di emanciparsi dal cappio odioso e stretto dell'assoluta mancanza di Giustizia sociale. Libertà. Democrazia.

Algeri e Khartoum in queste settimane (e ancora nella giornata odierna) hanno riacceso la speranza di questo cambiamento.

Le élite però sono dure a morire e infatti, sia in Sudan sia in Algeria tentano di bloccare, interrompere, soffocare la voglia di emancipazione delle giovani generazioni algerine e sudanesi. A Khartoum, la folla radunata attorno al comando generale dell'esercito sudanese - da cui proviene Bashir - per chiedere "la caduta del regime", l'atmosfera è passata rapidamente dalla gioia alla disperazione.
I manifestanti non sembrano convinti dell'annuncio di Awad Ibn Awaf, Ministro delle Difesa e, con un passato e una carriera, tutta spesa all'interno delle forze armate, per gestire il dopo-Bashir : come ad Algeri e prima ancora al Cairo.




Perché in Africa i popoli non posson emanciparsi come vorrebbero?

L'Africa è un continente giovane, in cammino, in trasformazione: le nuove generazioni non accettano più "soluzioni muscolari" e come sta avvenendo a Khartoum (e anche ad Algeri), non sono più disposti a farsi scippare il futuro e restare inabissati nelle dittature cruente, disumane dove non esistono diritti sociali civili (come appunto in Egitto).

  


La rivolta sudanese non crede alla promessa dei generali quando annunciano "governo civile" anche perché esso è impossibile se il potere resta nelle mani dell'esercito. Il grido di protesta di Khartoum è "via la giunta militare", violando il coprifuoco.

La domanda da porsi è: perché le rivolte 2019 devono essere spazzate via dalla restaurazione come al tempo delle "rivolte arabe 2011"?

E' una questione di equilibri e interessi che hanno i loro consigli d'amministrazione a 10mila chilometri di distanza dall'Africa, se non di più. In quei consigli di amministrazione di multinazionali, per continuare l'odioso colonialismo e guadagli miliardiari in Borsa a New York come a Pechino oppure, nelle piazze borsistiche europee.
(Fonte.:jeuneafrique)
Bob Fabiani
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#Libya: Perché l'alleanza di Haftar con i sauditi è molto pericolosa?





Il ritorno della guerra totale in Libia sta aprendo nuovi scenari.

Il ricercatore libico, Beshir Alzawawi, mentre si trova nella sua sede nel Regno Unito, spiega, cosa sta avvenendo e cosa potrebbe accadere, in un futuro, non troppo lontano.

"Haftar è un militare e, la sua strategia è la forza. L'infuriare della guerra però, la si deve anche al fatto, del tutto nuovo dell'irrompere dei saudati nello scenario, sempre complesso e caotico, libico".

Mentre la situazione precipita a Tripoli e ci si prepara al "fuggi, fuggi generale", tranne ovviamente per i migranti, trattenuti nei disumani leger libici, oppure, spediti al fronte da quel Al - Serraj, premier del governo di Unità nazionale riconosciuto dalla comunità internazionale: la realtà di questo conflitto - scoppiato ormai da più di una settimana - racconta ben altro.






Secondo il ricercatore libico, l'aspetto nuovo è quello di "Haftar uomo forte di tutta la Libia e non più solo della Cirenaica e, l'asse con i sauditi lo rafforza sul piano internazionale".

L'inquietante alleanza Haftar-sauditi deve essere letta e interpretata in chiave anti-islamica e, si rischia un pericoloso coinvolgimento di Tunisia e Algeria nel conflitto.

"E' questa l'ipotesi peggiore", afferma il ricercatore e conclude "l'Arabia Saudita vuole diventare il paese guida di questa parte di Africa, un'offensiva iniziata con un intenso lavoro diplomatico per il riavvicinamento tra Etiopia ed Eritrea e, ora, i sauditi, vogliono diventare sempre più influenti in Africa. L'offensiva può partire proprio dall'alleanza con il maresciallo Haftar".

Per riscrivere la geopolitica del Nordafrica.

Che cosa nasconde questo patto?

Non è certamente un mistero che ormai l'Arabia Saudita vuole mettere alle corde la Turchia che, negli ultimi tempi e anni, ha visto Ankara sempre più attiva dalla Somalia a Gibuti senza tralasciare la Libia.
Tuttavia, a Riad, sono sempre più convinti che per diventare una vera potenza mondiale, bisogna contrastare la Cina "e per farlo bisogna essere ben presenti nel continente", sottolinea Beshir Alzawawi.
(Fonte.:jeuneafrique)
Bob Fabiani
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giovedì 11 aprile 2019

Sudan, il ministro della difesa annuncia "il periodo di transizione"








L'esercito del Sudan che con un golpe, nella notte tra il 10 e 11 aprile, ha posto fine al regime trentennale di Bashir, ha annunciato quanto segue: "le elezioni si terranno dopo un periodo di due anni".


Immediata la reazione dei manifestanti e gli attivisti che hanno dato voce e corpo alla rivolta di questi mesi.

"Non permetteremo che insedino uno dei loro uomini al posto del presidente".


La situazione diventa un po' più scivolosa qui a Khartoum: il popolo sudanese non lascerà le strade dopo quattro mesi di dure manifestazioni anche se, nelle ultime ore, i militari fanno sapere di non gradire la folla oceanica resti in strada.

Tra gli annunci che sono stati letti nel comunicato alla TV di Stato e alla radio, l'esercito informa che d'ora in avanti sarà istituito "il coprifuoco" e lo "stato d'emergenza".





Democrazia. Giustizia. Libertà.

Questo è ciò che chiede il popolo sudanese - riporta la giornalista italiana Antonella Napoli - che ha voluto l'intervento militare per detronizzare il presidente Omar Al-Bashir.
Secondo la giornalista italiana, difficilmente verrà accettato un semplice cambio di regime.

Dal cuiore della rivolta , dalla SPA, si apprende che il sit-in verrà mantenuto, esattamente dove è sempre stato in questi 6 giorni consecutivi di presenza in strada della capitale, ossia di fronte al quartier generale delle forze armate a Khartoum.
(Fonte.:jeuneafrique)
Bob Fabiani
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"Il Mondo che vogliamo è una Storia a Colori". Una giornata solidale nella capitale d'Italia*








"Le guerre continueranno ad esistere se il colore della pelle è più importante di quello degli occhi"
                                                                                                                                       (Bob Marley)






Roma, quartiere Paroli  -  uno di quelli che un tempo, nemmeno troppo lontano, si definiva chiamarli della cosiddetta "Roma bene" -  è stato il teatro dell'ennesimo episodio a sfondo razziale, di questa Roma, di questa Italia sempre più incattivita, inacidita e ripiegata su se stessa.


Al quartiere Parioli vive e lavora anche Baya, donna senegalese, madre di due splendidi bimbi di colore.
Evidentemente però, per qualcuno non è così: un italiano, bianco e romano che, alla vista della donna e dei suoi due bambini deve essersi sentito così irrimediabilmente in pericolo che, improvvisamente, sente salirgli, nei gangli vitali del corpo, una collera. La riconosce subito quella collera: è alimentata dall'odio. Quell'odio razziale, una volta messo in circolo, è difficile da contenere.

Gestire.

Anzi, a onor del vero, questo "paladino del prima gli italiani", non è in grado di far nulla. Nulla di diverso dalla solita storia. Quella di sempre. Quella che si ripete, sempre uguale a se stessa, da quattrocento anni a questa parte.

E' ormai arrivato a ridosso di Baya che, del tutto ignara, si trova, per puro caso, sulla stessa strada, nello stesso pezzetto di marciapiede del razzista-sovranista.

Per lui, questo è troppo.

Ha deciso di passare all'azione "per il bene degli italiani e dell'Italia" ... è ormai pronto a vomitare i suoi epiteti razzisti.

"Negra! ... Tornatene da dove sei venuta. Qui non c'è posto per te".

Non si limita a insuntarla, vorrebbe colpirla ma per fortuna di Baya, in quei paraggi è presente un'agente di polizia. Interviene prontamente, allontanando il maleintenzionato dalla donna e dai bambini, spaventati e piangenti.


Storia di ordinario odio razziale al tempo dell'orrendo "Esecutivo gialloverde" che, un giorno dopo l'altro, accende la miccia del "finto problema dei migranti in Italia".


Il sit-in del #6A a Roma









Il #6A, un sabato di inizio aprile, la Roma solidale aderisce al sit-in ideato dalle "Mamme per la pelle"; è quella parte della Città eterna che sente il dovere di far sentire la propria voce: è con un sit-in dai mille colori che dall'Africa abbracciano Roma riuscendo a mandare "segnali di speranza".

Una mattina spesa tra solidarietà, partecipazione, integrazione.

Il sit-in si conclude alle 13.30 dopo aver visto gli interventi della società civile e delle organizzazioni, che in questo difficile presente si battano per la salvaguardia dei diritti fondamentali e irrinunciabili. C'erano Emergency, Famiglia Arcobaleno, Anpi, Cara Italia (Stephen Ogongo).
Particolarmente significativa la presenza di Bene Rwanda (Francoise Kankindi), nell'immediata vigilia del 25°Anniversario del genocidio tutsi, avvenuto in Ruanda tra l'aprile e il luglio 1994; Nibi, Cosmopolitan, Cis 1920 - 1960, AfricaLand Storie e Culture africane.

L'appuntamento non ha richiamato la folla delle grandi occasioni: ma non era importante quanto fosse partecipato (certo, una maggiore partecipazione della società civile sarebbe stata gradita e importante). Era più importante rompere il "Muro dell'indifferenza", ribadire che i diritti umani "o sono di tutti oppure non esistono più per nessuno".

Era importante lanciare il messaggio - come recitava lo striscione delle "Mamme per la pelle" - che "il mondo che vogliamo è una storia a colori".

Un mondo e una storia dove c'è spazio per tutti. Un mondo di solidarietà e cultura. Un mondo di aperture dove non c'è spazio per i muri, fili spinati, deportazioni e respingimenti.

Un mondo senza "caccia al nero" come nuovo sport nazionale.

Un mondo di suoni e di libertà, senza più schiavitù, odio razziale, torture e violenze.
*ha collaborato, Giovanna Graziano
(Fonte.:repubblica;corrieredellasera)
Bob Fabiani
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-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com/migrazioni-e-africani-della-diaspora
  

  

#Sudan, colpo di stato dell'esercito sudanese. Destituito Al-Bashir







L'epilogo che in #Sudan, ha portato, questa notte al colpo di stato da parte dell'esercito sudanese, non era un'eventualità remota. Erano giorni che i militari si erano uniti alla rivolta popolare che aveva invaso le strade della capitale, Khartoum, arrivando davanti ai palazzi del potere.

Bashir è stato destituito. Da questa mattina, 11 aprile, si trova agli arresti domiciliari. Nel frattempo l'esercito annuncia un governo di transizione.


La svolta

Dopo la rivolta popolare arrivata al sesto giorno consecutivo, la parola fine sulla dittatura trentennale di Al-Bashir arriva ai titoli di coda..

Al capolinea.

Nella notte tra il 10 e 11 aprile 2019, l'esercito sudanese  - da giorni al fianco alla rivolta popolare - ha circondato il Palazzo Presidenziale dove si trova la residenza ufficiale di Bashir.
Nelle prime ore del giorno, i militari, hanno occupato la TV di Stato trasmettendo canzoni patrottiche. Fonti dell'esercito sudanese fanno sapere che verrà trasmesso un "messaggio importante".

Il presidente Bashir si trova nella sua residenza ufficiale dove è partita una drammatica trattativa con i generali dell'esercito che ha avuto un epilogo del tutto comprensibile, dal momento che, il popolo sudanese, attraverso la rivolta, ne chiedeva le dimissioni. I militari, alla fine, lo destituivano immediatamente e, per il despota di Khartoum, era la fine di tutto.

Intanto la società civile è festante nelle strade della capitale e, mentre, i generali danno disposizione ai soldati di arrestare i membri del governo-Bashir che, nel frattempo, si stavano riorganizzando attraverso le milizie delle "squadracce paramilitari" create durante i 30 anni di dittatura del despota di Khartoum, con l'unico obiettivo di mettere in circolo una sanguinosa guerra civile; sono stati immediatamente stanati e condotti in stato detentivo.

Al mattino presto, di questo storico 11 aprile 2019 - giorno finale del regno-Bashir - , gli organizzatori della protesta hanno invitato gli abitanti di Khartoum  a raggiungere, massicciamente, il quartier generale dell'esercito e congiungersi con il resto della popolazione che si trova già lì.
(Fonte.:lemondeafrique;afp)
Bob Fabiani
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-https://www.lemonde.fr/afrique/sudan;
-https://www.afp.fr/en/sudan    

mercoledì 10 aprile 2019

#SudanUprising: Sono le donne il "cuore pulsante" della rivolta anti-Bashir








La giovane manifestante sudanese che, davanti ai palazzi del potere e, circondata dalla folla oceanica di manifestanti "canta la voce del dissenso" contro il regime dittatoriale e violento di Al-Bashir, è l'immagine, il "frame", la narrazione più coinvolgente del vento impetuoso della rivolta.

Approfittando di una vecchia tradizione di coinvolgimento delle donne nell'opposizione, le organizzazioni che attualmente sovrintendono al movimento di protesta intendono coinvolgere sempre più donne sudanesi nel tentativo di far rinascere il Sudan.






L'immagine della giovane donna-attivista  - che abbiamo messo in foto d'apertura di questo post - fotografata mentre canta attorniata dai manifestanti, è il chiaro simbolo della protesta che ha scosso, riacceso e rimesso in marcia il Sudan dallo scorso 19 dicembre 2018.

La foto ha fatto il giro del mondo, grazie ai social network.

Lo scatto fotografico (e il video) è opera di un attivista, nella giornata dell'8 aprile a Khartoum, mentre una giovane donna in "Tobe", un vestito tradizionale sudanese; ritrae l'attivista sul tetto di un'auto e ha "scaldato" i cuori dei manifestanti con la sua voce inconfondibile da grande chansonnier e con le dita rivolte al cielo.

Nel video, si possono vedere i "pasionari sudanesi" che la segueno andando "a tempo" con il ritmo della sua voce.

"Mia madre è una Qandaqa!" esclama la giovane donna, riferendosi alle regine dell'era del Regno di Kush. "Thawra!" (Rivoluzione) è la risposta della folla.

Il sit-intenuto il 7 aprile davanti al quartier generale dell'esercito a Khartoum, ha voluto rendere omaggio, celebrandolo, a un "martire della rivolta" quando, una giovane madre, ha attirato su di se, tutti gli occhi dei manifestanti per la morte violenta di Hazza, ucciso dalla polizia durante le manifestazioni del 2013. 

Dall'inizio della rivolta per cacciare dal potere Al-Bashir, le immagini che mostrano la partecipazione delle donne al movimento si stanno moltiplicando. Non sono poche le giovani attiviste sudanesi che non si fanno initimidire dalla repressione delle forze dell'ordine, andando allo scontro fisico con la polizia.





Questo coinvolgimento dimostra come le donne sudanesi siano sempre più disposte a entrare nel "cuore della disputa politica" per non delegare tutto ai politici e, di pari passi, non lasciare tutto il predominio agli uomini.

E' il caso di Mariam al-Mahdi, figlia di Sadek al-Mahdi, leader del principale Partito di opposizione "Ummah", è diventata, decisamente, una delle figure dell'opposizione politica in Sudan.  Ora co-presiede il partito guidato dal padre, un partito di ispirazione islamica, che si adopera per favorire contatti conm le altre organizzazioni, tra questi il Partito del Congresso sudanese e il Partito comunista, in modo da facilitare l'unita dell'opposizione.
A marzo è stata arrestata e condannata a una settimana di priogione per le sue attività politiche.





La presenza delle donne che partecipano alla rivolta e lanciano la sfida contro il potere di Bashir, preoccupa non poco il regime del dittatore, al pari di tutto il suo entourage che, può essere ricondotto alla linea ideologica dei Fratelli Musulmani e, si attesta su posizioni conservatrici in materia di diritti delle donne.

Il Sudan è uno dei pochi paesi al mondo che non ha firmato la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979.



Da Fatima Ahmed Ibrahim a Safia Ishaq


Gli oppositori sudanesi, tuttavia, sottolineano che il ruolo chiave delle donne all'interno della rivolta, non è un novità.
Fatima Ahmed Ibrahim è senza dubbio l'esempio più conosciuto e famoso anche fuori dai confini sudanesi. Negli anni'30 a Khartoum, ha lasciato il segno nella storia politica del suo paese diventando la prima donna eletta all'Assemblea nazionale nel 1965.




Il suo ingresso in Parlamento è stato accolto da una dimostrazione di donne che la polizia ha avuto difficoltà a contenere. Nel 2017, i suoi funerali hanno portato in strada migliaia di sudanesi che non hanno voluto mancare nel rendergli l'ultimo omaggio.




Mentre i tradizionali partiti dell'opposizioni, siano essi islamici, socialisti panarabi, non offrono sempre molto spazio ai loro membri, le associazioni della società civile sono più aperte. Nel 2011, la lotta guidata da Sofia Ishaq, attivista del movimento cittadino Grifina, è riuscita ad attirare a sè l'attenzione e la copertura dei media. Parlò pubblicamente, alla luce del sole  - spingendosi molto più in là del semplice impegno anti-governativo - e denunciò gli stupri commessi da tre agenti del terribile Servizio nazionale di sicurezza e intelligence (NISS), dopo essere stata arrestata per motivi politici. Nessuno degli aggressori in divisa fu giudicato e condannato. Al contrario di un giornalista che aveva seguito questo odioso caso: venne multato.

Nel 2012, il movimento degli studenti ispirato dalle "Rivolte arabe" segnò una svolta.

Molte giovani donne si unirono alle organizzazioni giovanili. All'inizio del 2018, una piccola mobilitazione ha avuto luogo presso l'Università di Ahead per le donne, a Omdurman, uno degli epicentri più attivi della rivolta attuale. Gli studenti scesero in strada per mobilitarsi contro le violenza sulle donne nel complesso universitario.

Sui social network, stanno girando molti viseo di testimonianza del fatto che manifestanti di sesso femminile incarnano lo spirito dei movimenti 2012 e del Campus, sottolineando lo spirito di denuncia sociale attraverso il canto, la poesia o le improvvisazioni teatrali.









 L'Associazione dei professionisti sudanesi (SPA) è la spina dorsale di questa rivolta.

Molto attivo nel settore ospedaliero, riesce a intercettare gran parte degli attivisti tra i giovani e le donne. Questo coordinamento - molto simile per la verità a una confederazione sindacale parallela in un paese in cui i Sindacati sono nelle mani del governo - ha  compreso anche il ruolo preponderante che le donne vogliono svolgere nel "nuovo Sudan".

Lo scorso 8 marzo, per la Giornata internazionale dei diritti delle donne, la SPA ha chiesto manifestazioni "in onore delle donne sudanesi" e "in solidarietà con le donne prigioniere e i detenuti in sciopero della fame". 
Molte donne hanno aderito all'evento e ne hanno approfittato per chiedere un miglioramento delle loro condizioni sociali.

E' il segno tangibile di una rivoluzione totale, a 360° gradi se pensiamo che in Sudan, fino al 2015, i tribunali hanno cercato di attribuire alle violenze e agli stupri contro le doinne, la disgustosa etichetta dell'adulterio. Nell'indice di disuguaglianza di genere del programma a firma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), il Sudan si è classificato 139° su 189 nel 2017.

Il vento della rivolta che soffia forte per cacciare la dittatura di Bashir, intende partire esattamente da qui: riconoscere i diritti fondamentali delle donne ed estenderli a tutta la società civile sudanese.
(Fonte.:jeuneafrique)
Bob Fabiani
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martedì 9 aprile 2019

#SudanUprising: Il vento della rivolta per chiedere la fine della dittatura di #Bashir






I giorni del cruente regime dittatoriale di Omar Al-Bashir potrebbero essere giunti al capolinea dopo quattro mesi di manifestazioni ininterrotte.

E' una protesta sempre più oceranica quella del popolo sudanese compatto nel condurre la rivolta sul piano socio-economico. Nonostante la risposta repressiva del regime, nessuno a Khartoum abbandona la piazza finché il presidente-dittatore non abbia tolto il disturbo.

La risposta durissima del governo non ha mai tentennato e, anzi, sin dal primo giorno, ha mostrato la sua faccia più feroce. Le forze di sicurezza anche in questi giorni, non hanno avuto esitazioni sparando sulla folla dei manifestanti. Ci sono almeno 6 morti e, gli agenti, hanno usato gas lacrimogeni per disperdere le proteste anti-Bashir.

Il ministro dell'interno, Bishara Jumaa, non lesinando un tono di sfida, fa sapere che gli arresti sono stati 2.496.

Il Sudan è in fermento: con le proteste oceaniche di questi giorni, i sudanesi, stanno mandando un messaggio chairo: sono stanchi di dittatura, povertà, dell'insostenibile carovita: per questo - come riporta il Sudan Tribune - neanche le intimidazioni da parte dell'Agenzia nazionale d'intelligence (Niss) sono stati in grado di sgomberare la zona del sit-in.

Protesta socio-economica

La difficile situazione del Sudan investe tutte le sfere della società civile: la crisi è di lunga data e si alimenta su due aspetti ben precisi. Da un lato, ci sono le problematiche dei diritti umani e civili e, dall'altro, le rivendicazioni di matrice economica.

Ci sarebbero tutti i requisiti per le dimissioni di Bashir ma, il presidente-dittatore reagisce convocando un Consiglio di sicurezza nazionale dal quale emerge il rifiuto di lasciare il potere.

I manifestanti non si limitano a rivendicare cambiamenti di matrice economica per far fronte alla mancanza cronica di lavoro, il contrasto deciso alla povertà (che cresce senza sosta) e, finalmente, una riduzione dei prezzi dei beni alimentari (troppo volatili); il popolo sudanese è determinato nel chiedere pari opportunità e giustizia.

"Non è piazza Tahrir. E' finalmente Khartoum" 

E' la voce del popolo sceso in piazza per sottolineare che ormai, la rivolta presto si tramuterà in rivoluzione per chiudere finalmente questa lunga parentesi in cui, per esempio, i più giovani, hanno conosciuto solo storie di soprusi, manncanza di diritti civili che, investe la "domanda politica" per fare in modo che, il Sudan finalmente possa vivere in Pace e prosperità.

Nelle ultime ore è arrivata la decisione degli ufficiali dell'aeronautica sudanese - tramite un annuncio - che presto si uniranno al popolo per allargare e rafforzare il vento della rivolta.
(Fonte.:sudantribune)
Bob Fabiani
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-www.sudantribune.com     

lunedì 8 aprile 2019

Libia, la "guerra totale" non risparmia i migranti (per ordine di Al-Serraj)





La capitale libica, Tripoli è investita dal ritorno della guerra e appare sfibrata. Stanca di guerra. Mentre le armi tornano a far sentire il loro suono di morte, nessuno è al sicuro né qui a Tripoli né nel resto della Libia.

A Airport Road, la strada che porta al vecchio aeroporto internazionale - chiuso ormai dal lontano 2014 - è lo stesso aeroporto che Haftar tenta di conquistare ma, sopratutto, qui, è situata la sede del bunker del ministro dell'interno, nuovo "uomo forte" di Tripoli, Fathi Bishaga.
E' lui, insieme a Fayez al-Serraj e al vicepresidente di quel governo di Unità nazionale che qui, nessuno riconosce né rispetta; Ahmed Maitig, l'artefice principale della nuova svolta: ribattere e rispondere colpo su colpo, bombardamento dopo bombardamento, consci che il tempo è scaduto e, convinti che non ci sia spazio per alcuna trattativa.





Dopo l'iniziale fase di attesa - che era servita per capire le reali intenzioni di Haftar - , Bishaga ha rotto gli indugi e messo da parte ogni forma di diplomazia, rilasciando parole dure: "Haftar è un fuorilegge, ha violato accordi che aveva preso con noi e la stessa comunità internazionale. Non gli permetteremo di prendere il controllo militare di Tripoli".

La dichiarazione rilasciata dal ministro dell'interno di Al-Serraj non lasciano spazi a dubbi: siamo nel pieno della "resa dei conti", in una "guerra civile" che non si esaurirà velocemente.


Rischi e nuove alleanze

L'escalation del conflitto libico rischia di incendiare tutto il Nordafrica: nel tentativo di stanare le milizie fedeli al maresciallo Haftar, gli uomini di Al-Serraj hanno condotto una di quelle manovre ardite che da sole, potrebbero dare il via a una "guerra allargata", coinvolgendo Algeria e Tunisia. Proprio al confine tunisino c'è la base di Wattiya, distante circa 1.550 chilometri, a Est di Tripoli.
Bombardando questa base, il cosiddetto triumvirato (Serraj-Bishaga-Maitig), ha voluto gettare un guanto di sfida nei confronti di Haftar, l'uomo sempre più forte (e temuto) nell'intera Libia. Del resto, le azioni decise del "Signore della guerra e della Cirenaica", dimostrano che ormai, è lui l'interlocutore scelto da molti, a livello internazionale.

Il maresciallo può contare su un nutrito nucleo di sponsor più o meno dichiaratamente usciti allo scoperto: oltre a quelli di vecchia data, ossia, l'Egitto del dittatore Al-Sisi e alla Francia di Macron (in chiave anti-italiana) bisogna registrare, la Russia di Putin (in chive anti-Ue e anti-Nato), ma c'è un nuovo sponsor che potrebbe cambiare del tutto le carte in tavola e decidere il futuro assetto della Libia.

E' l'Arabia Saudita.

Il nuovo interesse dei sauditi per l'Africa (di cui abbiamo parlato su questo blog, a fine gennaio 2019 n.d.t) riguarda anche la Libia (in chiave anti-cinese e anti-Russia) e potrebbe sconvolgere gli equilibri.

Un primo risultato lo ottiene immediatamente: creare una pericolosa coalizione che dall'Egitto, metta insieme la Francia e gli Stati Uniti (anche se apparentementeessi si ritirano da Tripoli, questa manovra deve essere letta, non come un abbandono ma un "riposizionamento").
Una coalizione a guida saudita: speculare a quella in essere nello Yemen.

Haftar oggi non è più solo l'uomo forte di una parte della Libia, altrimenti, non avrebbe mai attaccato proprio nel giorno in cui, a Tripoli, si trovava il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guiterres.

La Libia insieme al resto dell'Africa torna a essere teatro di una pericolosa "guerra fredda" che, guarda caso, oggi come allora,  è alimentata in chiave "anti-Mosca" ma anche contro la Turchia del "Sultano del Bosforo", al secolo, Erdogan.

L'irrompere dell'Arabia Saudita è un'offensiva a tutto campo che può realizzarsi proprio in nome di Haftar: l'uomo che può rappresentare sia Riad sia Washington e, al tempo stesso, questa coalizione permette agli USA, a guida Trump, di fare un passo laterale a Tripoli e, sempre in chiave "anti-Ankara", essere presenti sempre più incisivamente dalle parti della Somalia e a Mogadisco (laddove sono forti gli interessi economici di Erdogan n.d.t), con il pretesto di sempre, oissia quella "guerra al terrorismo" di matrice islamica radicale e contro la nuova Al Qaeda e anti Al-Shabaab.
Del resto, anche il presidente americano, non ha mai nascosto la sua voglia di combattere contro gli islamisti e, anzi, a più riprese, ha fatto capire di volerli stanare senza andare troppo per il sottile; senza esclusioni di colpi, come stanno a dimostrare i raid americani sempre più frequenti, in questa parte di Africa, lasciando sul selciato, un numero sempre più alto, di vittime civili e innocenti senza per questo doverne rendere conto a nessuno.


Migranti usati come "carne da macello"




  

Al-Serraj ha deciso di giocarsi il tutto per tutto nella resa dei conti con Haftar e, per questa ragione ha ordinato, ai suoi collaboratori di reclutare (contro la loro volontà ... ma evidentemente, per il premier libico, il leader che è riconosciuto a livello internazionale, a cominciare proprio dall'ONU, la vita, di queste persone contano meno di niente) migranti che si trovano nei disumani lager libici.

Sono stati arruolati, con vecchie divise militari libiche tutti i sudanesi e gli eritrei che, in Sudan e in Eritrea svolgevano un lungo, estenuante servizio militare. Sono stati reclutati con la promessa (assai improbabile) di riacquistare la libertà perduta
Ultimo disumano schiaffo per chi èdetenuto illegalmente e, continuamente privato di ogni diritto umano.

Ultimora

Mentre staimo scrivendo questo post, le notizie che arrivano dalla capitale libica sono sempre più drammatiche: infuria la battaglia con raid aerei delle forze di Haftar che bombardano l'aeroporto di Mitiga, uno scalo ancora funzionante a Tripoli e, nella stessa città, ci sono quartieri senza luce elettrica e si segnalano almeno 53 vittime, molti sono i civili che stanno scappando dall'infernale capitale libica.
(Fonte.:theguardian)
Bob Fabiani
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Bob Fabiani
-https://www.theguardian.com.uk/africa

   

domenica 7 aprile 2019

#GenocidioRuanda:Quelle nuove accuse di complicità che macchiano la bandiera francese





La Francia era davvero all'oscuro dei progetti di sterminio in Ruanda? Il dibattito è ancora aperto.

Nel 1994, prima del genocidio, il Ruanda aveva più di sette milioni di abitanti, l'85 per cento di etnia hutu (che aveva ottenuto il potere politico dopo l'indipendenza), il 24 per cento tutsi (l'aristocrazia ai tempi della colanizzazione belga n.d.t) e l'1 per cento twa.
Dall'aprile al lugio di quell'anno furono uccise 800mila persone - in grande maggioranza tutsi, ma anche hutu moderati - in uno dei massacri più rapidi della storia.
Questo non sarebbe stato possibile, scrive David Servenay su Le Monde, senza un'accurata operazione di pianificazione del genocidio, lanciata  almeno due anni prima, dall'Akazu, un piccolo gruppo di estremisti hutu che controllava le leve del potere.

Alcune figure di primo piano di questo gruppo di génocidaires vivono ancora in libertà.  E' il caso di Félicien Kabuga, un uomo d'affari che aveva stretti legami familiari con il presidente Juvénal Habyarimana. Con l'aiuto di persone come Kabuga, l'Akazu riuscì a creare dei sistemi clandestini per accumulare denaro e finanziare da una parte il costoso conflitto contro i ribelli del Fronte popolare ruandese (Fpr), che nel 1990 avevano attaccato l'Uganda, e dall'altra la propaganda genocidaria, nonché l'addestramento e l'equipaggiamento delle milizie hutu interahamwe che, al momento dovuto, avrebbero dovuto mettere in atto lo sterminio. In quegli anni il Ruanda era un paese povero e indebitato, che aveva accettato le politiche d'austerità del Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale in cambio di aiuti.

Uno dei modi per finanziare il genocidio fu accantonare fondi neri all'interno delle imprese statali. Nella fabbrica di fiammiferi Sorwal, per esempio, fu creato un sistema di doppia contabilità. Il denaro accumulato fu impiegato per coprire i costi dell'addestramento delle milizie e per lanciare la radio Mille collines, il principale veicolo della propagande genocidaria.
Le aziende di Kabuga invece importano enormi quantità di machete dalla Cina: 25 tonnellate nel novembre del 1993 e altri 50mila pezzi nel marzo del 1994.

Gli estremisti hutu ruandesi al governo riuscirono anche a dirottare i fondi dell'Fmi e della Banca mondiale  - destinati a scopi civili, come l'acquisto di nuoive ambulanze o di camion per il ministero dei trasporti - trasferendoli alla difesa. Secondo i calcoli dell'ex senatore belga Pierre Galand, che dopo il genocidio fu incaricato di realizzare uno studio sui conti della Banca nazionale del Ruanda, nel 1992 le spese militari assorbivano il 52 per cento del bilancio stradale.

Acquisti sospetti 


L'inchiesta di Le Monde accusa inoltre banche francesi come la Bnp Paribas di aver permesso, mentre gli stermini erano in corso ed era già in vigore l'embargo sulle armi decretato dall'ONU, alcune transazioni finanziarie, respinte da altre banche, che permisero ai génocidaires di comprare nuove armi. Grazie alla Bnp Paribas, 80 tonnellate di armi provenienti dalle Seychelles sarebbero  state consegnate alle forze hutu a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, vicino al confine ruandese.

Questa si aggiunge a una lunga seriev di accuse rivolte alla Francia, compresa quella di aver usato l'operazione militare Torquoise per far scappare dal paese soldati e miliziani coinvolti nei massacri. Il resoconto di alcuni dispacci diplomatici pubblicato recentemente da Mediapart mette in evidenza che all'inizio degli anni novanta il governo francese era già stato informato dei rischi di "un'eliminazione totale dei tutsi" e della preparazione di un "programma di purificazione etnica". Eppure Parigi continuò a sostenere il governo di Kigali nascondendosi dietro al pretesto che, come molti politici francesi hanno sempre affermato "la Francia era all'oscuro di tutto".
(Fonte:lemonde;mediapart)
Bob Fabiani
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-www.lemonde.fr;
-https://www.mediapart.fr  






Charles Habonimana:"Non ho dimenticato né i rumori, né le parole, né le immagini del genocidio tutsi"







Nel mese di Aprile 1994, su una collina il capo degli assassini, senza una logica precisa gli concesse una scorciatoia per sopravvivere all'abbisso: alla fine di quella furia distruttiva,  perché, nelle intenzioni dei massacratori "sarebbe stato l'unico a salvarsi fino a quando i tutsi non fossero stati sterminati in giro per il Ruanda". 

Andò esattamente così per Charles Habonimana : sopravvisse all'apocalisse e, un quarto di secolo dopo, venticinque anni; ha scritto una Storia del Genocidio in Ruanda. Sono le pagine toccanti di Io l'ultimo tutsi (Plon, con Daniel Le Scornet), che descrive in brevissimi capitoli, con misurata distanza, senza cadere nella facile retorica del vittimismo.
Un racconto in presa diretta  mentre, lo stava vivendo con gli occhi di suo figlio.





Aspettare venticinque anni per raccontare una tragedia

"Ho testimoniato per molti anni, quasi tutti i giorni - spiega Charles Habonimana - attraverso il Gruppo sopravvissuti ai genocidi (Garge) ho viaggiato in tutto il mondo e ho condiviso questa storia per via orale. In Ruanda siamo più cantastorie che scrittori, anche se a inizio anni 2000, ho iniziato a scrivere la mia testimonianza in Kinyarwanda.
Alla fine del 2016, ho incontrato Daniel Le Scornet a Dieucefit in Ardèche, durante una conferenza per studenti di una scuola superiore.
L'idea di scrivere la mia testimonianza in un libro nacque col giorno".






Ricordi indelebili

 

"Tutto quel che accadde in quei cento giorni sono rimasti per sempre stampati nella mia mente. Non ho dimenticato nulla. Né i rumori né le parole o le immagini del genocidio tutsi. La mia storia si concentra sugli eventi dell'aprile 1994".



Sebuhuke, il capo dei massacratori hutu


"Non so darmi una spiegazione del perché, Sebuhuke, ha scelto proprio me. Quella decisione, paradossalmente, mi ha salvato dalla morte.
All'alba, gli assassini, avevano arrestato tutti, compreso io, i miei genitori e i miei sette fratelli e sorelle: prima di condurci nel luogo deputato al nostro calvario.
Esisteva un piano, nazionale o comunale, per mantenere un tutsi vivo? E' dovuto al caso?
Non ho risposte certe se non la decisione fu presa: ero salvo, seppure temporaneamente".






Furia assassina

"Solo il 19 Aprile accade l'indicibile e tutto avviene nel giro di 24 ore. Sindikubwabo quel giorno tenne un discorso a Butare dove incoraggiava a "lavorare" (ossia, nel linguaggio criptico del genocidio quello rappresentava la parola d'ordine per dare il via alla mattanza e al massacro).
Tutti, a quel punto si diedero da fare. I nostri vicini hutu, spaventati a morte da quel discorso, la stessa notte si organizzarono. Ancora oggi non so spiegarmi il perché di quella furia assassina se, a Mayunzwe, oggi come prima del genocidio, mangiamo insieme, balliamo insieme, beviamo insieme nei locali di cabaret".


Trionfo di umanità

Il capo degli assassini Sebuhuku era sposato con due mogli: Florida e Francine. La prima, nutriva un odio smisurato verso i miei confronti e, mentre ero ferito gravemente alla testa, si rifiutò di farmi entrare nella loro casa. Per fortuna e grazie a Dio, c'era anche Francine, suo nonno aveva una qualche ' vicinanza con i tutsi' della nostra regione. Mi aiutò e con grande umanità fece in modo di proteggermi. Quando lei si trova a Kigali viene sempre a visitarmi e così faccio io, se sono a Mayunzwe, non posso fare a meno di andarla a trovare".







Ritrovare, dopo il genocidio, una giovane donna che nel 1994, lo denunciò agli assassini


"Mi ritrovai nella stessa classe al college con quella ragazza, all'epoca del massacro, dodicenne come me; che mi denunciò. Ero in sofferenza nel vedere colei che denunciò la mia famiglia. Mi sentivo strano e pronto a colpirla ma, il suo urlo lancinante, mi ricordò l'urlo di mio padre prima di morire, davanti ai miei occhi... Era  troppo giovane all'epoca del processo al tribunale del Gagaga e io, l'ho menzionata nella mia testimonianza. Oggi è una donna sposata.
Ma in Ruanda, a parte quelli chiamati abarenzi w'igihango (giusti), quelli che hanno protetto i perseguitati, gli hutu evitano di parlare di quel che accadde durante il genocidio".


Riconcillazione

"Inizialmente ero sconvolto. Tra il 2002-2003, la maggior parte degli assassini di Mayunzwe iniziarono a uscire di prigione. A quel punto, ho preferito fuggire dal mio villaggio e tornai solo quattro anni dopo".


Il discorso di Kagame

"Il presidente ruandese rassicura i sopravvissuti, ma io ci ho messo molto tempo per accettare questa politica, che ha permesso a molti assassini di uscire prematuramente dalla prigione e trovare la loro collocazione, il loro posto nella comunità. Oggi abbiamo iniziato a rinnovare i fili della pacifica convivenza, a cominciare dal dialogo tra i figli dei sopravvissuti e quelli degli assassini, quelli dei soldati uccisi in combattimento e quelli nati da uno stupro..."





Anche così è potuta ripartire la rinascita per un nuovo Ruanda, con la speranza che non accada mai più.
(Fonte.:jeuneafrique)
Bob Fabiani
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