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giovedì 13 agosto 2020

#USA2020, Joe Biden sceglie Kamala Harris per vincere le presidenziali

 






Il candidato Dem a #USA2020, Joe Biden, lo aveva promesso: la vicepresidenza sarebbe andata a una donna e nera: la scelta è caduta su Kamila Harris, esponente black e paladina dei diritti civili degli afroamericani e di tutte le minoranze.

La posizione politica della Harris all'interno del Partito Democratico USA si colloca in una posizione intermedia: non può essere considerata una radicale ma neanche una centrista.

Naturalmente la mossa di Biden è chiara: incalzare #TheDonald con una candidatura "forte", donna e paladina di quei diritti che per Trump, non sono ritenuti fondamentali. Ora però il ticket Biden-Harris, dovrà essere in grado di saper raccogliere le istanze che arrivano dall'interno del partito dem: e più precisamente, da quell'ala radicale, più progressista e di sinistra che ha già preparato una sorta di "programma in cinque punti" necessari a cambiare definitivamente la politica e il futuro degli Stati Uniti

Promotrice di questo programma è la Ocasio-Cortes che, insieme alle "donne ed esponenti radicali dem" ha già chiesto al ticket Biden-Harris di inserirlo nel suo programma presidenziale.

Quali sono questi cinque punti? Li riassumiamo velocemente: 1) Programma sociale (ossia più risorse per l'istruzione, l'edilizia scolastica, civile e valorizzazione spazi culturali); 2) Sanità pubblica accessibile a tutti; 3) Un equa distribuzione delle risorse economiche (tutela di tutti i lavoratori); 4) Riforma delle forze dell'ordine; 5) Tutela dei diritti delle donne.

Vedremo se queste istanze saranno accolte dal ticket Biden-Harris.

(Fonte.:theatlantic)

Bob Fabiani

Link

-www.theatlantic.com    

 

lunedì 10 agosto 2020

Viaggio in Mauritania tra deserto e mare Pt.3







Percorrendo la strada lungo la costa della Mauritania s'incontrano saline, dune e spiagge sconfinate. E popolazioni dal passato nomade che vanno incontro a un futuro ancora incerto.

Con la pubblicazione di questa terza parte si conclude il nostro viaggio nel paese africano: AfricaLand Storie e Culture africane dopo questo post si prende una pausa di due settimane dando appuntamento ai lettori virtuali di questo blog lunedì 31 agosto.



-Riempire il vuoto*

Il giorno in cui fu proclamata l'indipendenza della Mauritania, - era il 28 novembre 1960 - Nouakchott, la città destinata a diventare la capitale, non esisteva ancora. Era solo una duna in un deserto che un tempo era stato un fondale marino - conchiglie e sabbia - con una piccola fortificazione costruita dai francesi, all'interno della quale alloggiavano 15 soldati al comando di un sergente.
Sessant'anni dopo Nouakchott è la più grande città del Sahel.




Perché si decise di costruire una città in un luogo inospitale, battuto dal vento, senz'acqua dolce, senza una casa né una storia da raccontare?

Il primo presidente mauritano, Moktar Ould Daddah, voleva che lo stato creato su un territorio colonizzato dai francesi partisse da zero. Rompesse con il passato. Che si costruisse un'identità nazionale fino ad allora inesistente. Avrebbe potuto scegliere come capitale la città di Port-Etienne, oggi Nouadhibou, o Rosso, sul fiume Senegal.







Ma la prima era troppo a Nord e la seconda troppo a Sud. A Nord predomina il mondo arabo e berbero, a Sud il mondo nero africano. Costruire la capitale a metà strada era un modo per conciliare la diversità culturale del nuovo stato, dove tutto era ancora da fare.

Uno degli artefici della nuova città è stato l'architetto Tidiane Diagana. Quest'ultimo ricorda il suo primo viaggio con il presidente Daddah fino alla duna. Ricorda che le prime case furono delle khaima e che proprio in una di quelle tende si svolse il primo consiglio dei ministri. Che Nouakchott era chiamata la città dei cartelloni perché centinaia di cartelloni conficcati nella sabbia annunciavano quello che sarebbe stato costruito in seguito: la scuola, la moschea, il parlamento, l'ospedale.
Il generale Charles De Gaulle andò a visitare la duna nel suo tour attraverso i paesi africani che stavano ottenendo l'indipendenza dalla Francia. Improvvisamente si scatenò il panico. Non c'era un letto abbastanza grande per il generale - alto un metro e novantasei - e dovettero andare a cercare a Saint-Louis, in Senegal.
Di quegli anni Diagana ricorda sopratutto l'entusiasmo.
Non c'era nemmeno l'acqua, racconta, e dovettero portarla con i secchi da Rosso fino a quando i francesi scavarono - e pagarono - alcuni pozzi nella regione di Idini e poi si costruirono le condotte fino al fiume Senegal che oggi riforniscono la città.







Lasciamo Nouakchott per dirigerci a Sud. Viaggiamo in compagnia di un biologo di Madrid, José Manuel Baldò, detto Mané. Ci accompagna una forte tempesta di sabbia. A Tiguent troviamo Ivan e Goran. Uno è serbo, l'altro croato. Viaggiano in bicicletta. Vogliono ripercorrere la rotta dei migranti, ecco perché vanno da Sud a Nord, con il vento in faccia. In direzione contraria: è proprio quello che fanno mettendosi insieme un serbo e un croato che vogliono attirare l'attenzione sull'orrore della guerra e che decidono di intraprendere il viaggio di quelli che - com'è capitato a loro durante l'infanzia - oggi vivono nuove guerre.
All'incrocio per Legweichich ci fermiamo a chiacchierare con alcuni giovani tipografi e topografe dei lavori promossi dall'Organizzazione internazionale del lavoro.
Stanno costruendo una strada per semplificare  il trasporto di prodotti ittici. I loro genitori, spiegano, sono agricoltori e nomadi. Loro voglio un'altra vita. Binta parla delle difficoltà delle donne in un mondo dominato dagli uomini. Prima di diventare topografia non aveva le idee chiare. Ora, dice, ama la topografia perché le permetterà di essere indipendente.
Sta già progettando una vita in cui sarà lei a prendere le decisioni.

"Non voglio essere una moglie in una famiglia poligama".

Navighiamo lungo il delta del fiume in mezzo a una vegetazione di mangrovie e ogni sorta di uccelli. Gestendole bene, dice Mané, queste foreste di mangrovie potrebbero essere redditizie per la popolazione locale, che potrebbe "affittarle" alle aziende inquinanti per compensare le emissioni di gas serra, come prevede il protocollo di Kyoto.

Una famiglia di pescatori avanza senza motore, approfittando del vento, con una vela ricavata dai ritagli di una khaima sulla quale è ricamata la parola amore. Ci salutano con la mano. Alla fine del delta, nel bel mezzo del parco naturale la Cina ha cominciato a costruire un grande porto (come ha già fatto in altre parti del Continente).
C'è segretezza assoluta intorno a quest'opera faraonica, che comprende un porto militare, uno commerciale e un altro di pesca. Una baguette regalata a una delle  guardie ci permette di entrare nella zona dei lavori. Vediamo una nave militare.
Grandi edifici in costruzione. Piccole casette per gli operai. Un immenso appezzamento costellato di pannelli fotovoltaici.

In mare aperto, proprio davanti alla foce del fiume, è stato trovato un enorme giacimento di gas. Ora si teme che questa ricchezza naturale, che andrà divisa con il Senegal ed è estremamente necessaria a entrambi i paesi, possa essere una maledizione, alimentando la corruzione e modificando gli equilibri naturali senza alcun rispetto per l'ambiente.
La Mauritania, che ha poco più di 4 milioni di abitanti, ha oggi risorse sufficienti - oro, ferro, gas - per essere una "Norvegia del Sud".




N'Diago è l'ultima città mauritana prima di attraversare il fiume Senegal. Una città di pescatori tradizionali wolof. In questi ultimi mesi il livello del mare è salito tanto da portare via la prima fila di case. Non ci sono posti dove fermarsi a dormire, quindi raggiungiamo Kajara, un paesino tra dine bianche e palmeti. Amadou ci offre una casa. Dobbiamo lavarci. Un ragazzo va a cercare dei bidoni d'acqua. Si può mangiare? Andiamo dal capo del paese e ci presenta una donna che ci vende un pollo. E chi lo cucina? Nessun problema. Troviamo la donna che lo spennerà e lo metterà in padella. Con le cipolle va bene? Perfetto. Al risveglio Amadou si presenta con un vassoio di tè. Da lì a pochi giorni tornerà a pescare, ci spiega, è un capitano e ha la sua piroga. Magari verrà a trovarci in Spagna.

"Mi piacerebbe molto", dice salutandoci.

- Fine -
*Bru Rovira è un giornalista spagnolo. Per 25 anni è stato corrispondente del quotidiano catalano La Vanguardia. Oggi scrive sopratutto di temi sociali per vari giornali spagnoli. Il suo ultimo libro è Solo pido un poco de belleza (Ediciones B 2016).

(Fonte.:elpais)
Bob Fabiani
Link
-www.elpais.com/elpais/esp 



domenica 9 agosto 2020

Madagascar tra sogno e realtà








Dopo rinvii su rinvii arrivò il momento della partenza: finalmente avrei posato i miei piedi sulla Terra d'Africa. Il mio progetto di scrivere una storia africana e malgascia stava entrando nella cosiddetta "fase operativa".
Mano a mano che si avvicinava l'ora della partenza, le emozioni invadevano i miei sensi: presto avrei visto con i miei occhi la Grande Isola dalla Terra Rossa.

-L'isola-continente

Nell'immaginario collettivo il Madagascar evoca avventure e luoghi esotici, profumi di spezie, atmosfere e ambienti diversi da quelli familiari.
Che idea abbiamo oggi, noi occidentali ed europei in particolare di quest'isola dell'Oceano Indiano; qui dove è andato in scena il teatro di un'evoluzione straordinaria e definita dal botanico e naturalista francese Philibert Commerson che nel 1771 la ribattezzò "terra promessa dei nauturalisti"?

Queste nozioni "generali" avrebbero fatto da sfondo al mio romanzo ma, in qualche modo era cosciente che la storia "non poteva solo ridursi a questo".
Sarei stato ben attento di non scrivere il "solito libro", l'ennesimo romanzo in cui l'Africa sarebbe stata "solo un puzzle accessorio"... avevo altre idee. Sopratutto sentivo di dover scrivere una storia che fosse vista e narrata partendo da un altro punto di vista.
Nelle settimane precedenti alla mia partenza avevo già riempito i fogli del Moleskine con appunti di "quel che non avrei scritto" nel rimanzo.





I primi europei che visitarono il Madagascar nei secoli scorsi riferirono sopratutto della sua natura insolita, ma allo stesso tempo affascinante, essendosi imbattuti in animali e piante mai visti sino ad allora. Quella natura unica è la stessa che ancora oggi spinge tante persone a visitare il paese antistante la costa orientale dell'Africa anche se, i guasti dei cambiamenti climatici si vedono anche qui.




-Tra Africa e Asia


Quasi tutti coloro che si recano in Madagascar raggiungono l'isola in aereo: naturalmente è stato anche il mio caso. Atterrano nella capitale Antananarivo. La città si estende su numerose colline e le sue strade sono contornate da case in mattoni rossi con balconi. Sulle pendici delle colline continua ancora oggi la coltivazione del riso.
E' una vera e propria metropoli con milioni di abitanti, Antananarivo si distingue nettamente da altre capitali africane: nelle stradine e nei vicoli del centro si affollano individui con radici africane e asiatiche.
La città è un crogiolo in cui si mescolano i vari gruppi etnici dell'isola: nel corso dei secoli il Madagascar è stato abitato da molte etnie. Oggi si riconoscono ufficialmente 18 etnie ma, tuttavia, ve ne sono altri, perlopiù, si tratta di gruppi minori, ciascuno caratterizzato da una cultura propria.

Da Antananarivo partono gli itinerari in un paese che funge da anello di congiunzione tra Africa e Asia. Con le sue innumerevoli terrazze coltivate a risaie e la popolazione principalmente asiatica, la regione degli altipiani catapulta i turisti che raggiungono il centro del Madagascar; in un posto vagamente simile all'Indonesia.




Non appena si lasciano queste zone, l'ambiente torna immediatamente africano, sia per l'aspetto della gente che per lo stile di vita. Si possono incontrare agricoltori che attraversano le verdi distese con le loro greggi, altri si dedicano alla coltivazione di frutta e verdura. Dalle coste le barche a bilanciere si inoltrano verso il mare aperto alla pesca quotidiana, mentre su fiumi e canali si utilizzano le caratteristiche piroghe.

-Intense emozioni malgasce

Il Madagascar è in grado di offrire ai visitatori mete così affascinanti e interessanti che forse un solo viaggio non basterà a cogliere tutte le sfumature di quest'isola, la quarta al mondo per grandezza. Ci sarà chi porterà con sé le emozioni delle spiagge tropicali che si estendono su gran parte dei 4828 km di costa, a volte costeggiati da palme di cocco, a volte solitari e deserti, popolati da pescatori oppure, qua e là rallegrati da alberghetti romantici.
Le città del Madagascar sono molto diverse tra loro. Oltre alla pulsante capitale Antananarivo (Tana per i suoi abitanti), dai ristoranti (ne avrei parlato nelle pagine del mio romanzo...) e negozi eleganti, si rimane estasiati visitando le città degli altipiani e gli idilliaci paesini delle zone montane. Tuttavia, mentre gli abitanti della parte centrale della Grande Isola dalla Terra Rossa dormono da un po', nelle grandi città costiere Toamasina e Toliara la vita notturna è già cominciata.

-Una natura unica






Le foreste pluviali della zona Est del Madagascar ospitano innumerevoli specie di animali e vegetali: lemuri e camaleonti circondati da una vegetazione di palme a vite, alberi di felci e orchidee. Nella parte Ovest dell'isola la natura stupisce con i suoi giganteschi baobab, alberi sacri e secolari tuttavia, oggi, messi a rischio dai cambiamenti climatici. Ma è verso la parte Sudoccidentale che lo scenario cambia nuovamente: ecco arrivare improvvisa, la zona arida e semidesertica che, tuttavia, vanta una flora altrettanto incantevole, nonché bizzarra e unica al mondo. Già prima della stagione delle piogge, le piante spinose di questa regione regalano una meravigliosa fioritura, seguita da un verde rigoglioso che spunta dai rami apparentemente secchi dopo le prime gocce. Originarie della zona sono anche piante oggi presenti in molti paesi, come ad esempio l'albero della fiamma, dagli incredibili fiori rossi.
Viaggiare in Madagascar significa essere immersi in intense emozioni malgasce: mi riferisco alle misteriose grida degli indri nella foresta di Andasibe oppure i lemuri  catta mentre prendono il sole sui monti dell'Isalo e per questa ragione porterà quest'isola nel cuore per tutta la vita.


-Appunti di viaggio per un romanzo malgascio (Al mercato Nosy Be di Antananarivo)*





-Introduzione

 Eccomi di nuovo in Madagascar. Stavolta non è più la "meta delle vacanze per eccellenza" (nel mio primo viaggio malgascio ero al seguito di una band Reggae di Lione come blogger-percussionista n.d.t) ma, la capitale Antananarivo.
Quella che si prospetta davanti ai miei occhi è la tipica metropoli africana: a parte la zona esclusiva (quella dei ricchi) - ossia il piccolo roseto ai piedi della scalinata che porta alla città alta (in Place de l'Indépendance dove appena vi posai i miei piedi decisi di ambientare gran parte degli avvenimenti della mia storia - , non mostra "veri segni di sviluppo". Di valorizzazione. Di progettualità.
Il primo impatto con la città avvenne con un volo serale. 
Subito ebbi l'impressione di essermi catapultato in una sorte di "cose sospese". Come se, qualcuno (evidentemente il volere del potere governativo) avesse deciso di lasciare che la città si espandesse pur rimanendo inespressa. Naturalmente sto parlando della parte di città che si prospetta ai miei occhi; nel tragitto che va dall'aeroporto di Ivato alla destinazione prefissata dai miei amici malgasci.


-Capire l'Africa osservando i "mercati popolari"

L'Africa di nuovo davanti al mio sguardo. E' stordente. E' aggressiva, invadente, remissiva. Caoticamente organizzata: non esiste metodo migliore (per osservare) per cercare di individuare come si sviluppa la vita cittadina che guardare (attentamente! in un esercizio di memoria che possa fissare nei miei ricordi ... queste scene di vita cittadina malgascia) due orizzonti visivi:


  • i "mercati popolari" e,
  • l'infernale traffico africano 

una novità assoluta per me. Tuttavia, sono disposto ad ammettere l'errore commesso di frequente da viaggiatori occasionali e non: la presunzione occidentale, del tutto arbitraria, di voler - per forza o per ragione - rapportare tutto al "sistema di vita" del cosiddetto primo mondo, europeo e, sopratutto nordamericano.

Retaggio coloniale, non c'è modo di sfuggire ad esso...






Non c'è nulla da fare: la reazione o se preferite, il "metro di giudizio" rimanda sempre al medesimo punto. Sarà forse questa la ragione per cui, inevitabilmente tutti, a turno, di coloro che si sono spinti fin quaggiù, in Africa, hanno avuto, la presunzione di volerla plasmare, a uso e consumo, degli stati che - a torto o a ragione - si considerano avanzati, civilizzati, in una parola: moderni.
Del resto, se si pensa al cosiddetto "lascito coloniale", non può che ricondurre a questo; il drammatico "prezzo salato" pagato dall'Africa. Mancanza di sviluppo (sociale e politico), totale disorganizzazione per continuare  - sotto altre spoglie - il "giogo del colonialismo".
Si badi bene, ora sono le multinazionali, a dettare legge. E' un capitolo nuovo che ha origine con la "globalizzazione": passaggio primario della "dittatura neoliberista"  che ora, adesso e qui, rischia di ricondurre il Continente Nero - meglio noto cl nome di Africa - esattamente al punto di partenza.

Si potrebbe chiamare "colonialismo di ritorno". E in effetti di questo si tratta. I paesi colonialisti di ieri sono tornati e sono pronti anche a fare la guerra (commerciale). Certo - dicono a parole, nelle conferenze-stampa - , è una "guerra contro il terrorismo jihadista" ma, intanto sta incendiando tutta l'Africa Occidentale. Laddove, il "giogo si fa più sottile", i paesi colonialisti si limitano a sostenere il "despota di turno" che, seppure inizialmente, in modo democratico si è guadagnato la poltrona presidenziale, ora, per non lasciarla più; è disposto a mettere in atto drammatici strappi democratici (è l'eclatante "Caso Burundi", di attualità nei giorni in cui mi trovava sull'isola ... ma non il solo ...) ne il Madagascar?
Più o meno (dal 2009) è in atto una dittatura molto poco invasiva: gli agenti e i militari sono un po' ovunque ma si limitano ad osservare senza intervenire.
Tuttavia si tratta pur sempre di uno "Stato di polizia" destinato, nei prossimi mesi e forse anni; a diventare sempre più asfissiante - causa dell'emergenza internazionale - nell'Isola.

-Al mercato "Nosy Be" di Antananarivo

La Grande Isola dalla Terra Rossa possiede (nel senso che le autorità permettono di possedere ...) alcuni "mercati popolari" dove la cittadinanza (sopratutto quella più povera) arriva per vendere e compare, piccole mercanzie.
Esistono - per quel che ho potuto constatare anche attraverso testimonianze locali, con l'aiuto decisivo dei miei amici malgasci - due tipi di questi cosiddetti "mercati popolari" (come ce ne sono in tutto il mondo; a Parigi si chiama delle "Pulci"; a Roma semplicemente "Porta Portese" ... anche se poi, proliferano un po' ovunque nei quartieri della città e vale anche per Antananarivo e nel resto dell'Africa ...).
"67 Isuchi". Questo è un mercato da evitare. Pericoloso: qui, evidentemente, si danno appuntamento le bande criminali per "mercanteggiare", indirizzare, veicolare tutti gli "affari clandestini". Della droga e delle armi senza escludere quello della prostituzione. Il numero indica una strada: Rue 67 - quasi a replicare il verso della mitica "Rue 66" statunitense . Qui però, non esiste nulla di romantico e di avventuroso. Casomai, è l'esatto contrario.
Il mercato sorge nel quartiere povero della città. Certo, non è del tutto agevole "cogliere" le sfumature di questo "posto più infernale dell'infernale Antananarivo" perché, i miei amici malgasci, mi consigliano di osservarlo da lontano, per pochissimi istanti.
Quello che intendo dire è che se "Rue 67" è uno dei quartieri più poveri - non ho elementi sufficienti per poter fare una "sorte di censimento oral-visivo" che, tuttavia, risulterebbe pretenziosa, superficiale e facilmente opinabile - non deve a questo specifico tema, la sua fama.
La fama di "mercato pericoloso" la deve anche e sopratutto alla triste piaga della "sparizione" di minori, un triste primato che pone il Madagascar tra i paesi africani più attivi, in uno dei commerci più disumani. 
Qui, in questa parte di Africa, i bambini e le bambine non spariscono - come per esempio nell'Africa Occidentale - per diventare "soldati bambini" ma, come avviene in America Latina, per il contrabbando degli organi.
Il mercato di Nosy Be è molto istruttivo per la mia ricerca sugli usi e costumi della vita sociale malgascia: i miei amici della capitale mi accompagnano di primo mattino davanti al mercato, in modo che io possa osservare uno spaccato della cittadinanza: donne, uomini, bambini si muovono freneticamente dando il via alle contrattazioni. A metà giornata, le donne rientrano: tutto quello che potevano comprare (o vendere) è stato piazzato oppure acquistato. Ora rientrano verso le loro abitazioni. Volti stanchi eppure mi colpisce la vitalità dei loro occhi. E l'incidere dei passi regolari. Sicuri. Decisi.



-Due isole, due concetti








Molti viaggiatori scelgono le isole di Nosy Be, antistante la costa Nordoccidentale, e Nosy Sainte Marie, lungo la costa orientale.

La maggiore delle isole antistante la costa Nordovest del Madagascar è una meta classica del turismo individuale e organizzato fin dagli anni '60. Dopo aver catturato europei affamati di spiagge e di sole, la crisi economica del periodo comunista sotto la dittatura di Ratsiraka alla fine degli anni '70 e nel decennio successivo ha purtroppo progressivamente interrotto il sogno di un turismo fiorente.
Negli ultimi mesi degli anni '90, con l'arrivo degli investitori italiani si registrò un cambiamento radicale. Era fondamentale capire che solo un collegamento aereo diretto con l'Europa avrebbe garantito un impiego ottimale e continuo degli hotel posizionati sul mare. Puntare solo sui vacanzieri di ritorno dal tour non avrebbe giustificato gli investimenti. Di conseguenza, l'aeroporto di Nosy Be venne modernizzato e ampliato, così da poter accogliere voli charter dall'Europa.
Nosy Be ha parecchio da offrire: zone per lo snorkeling e scuole di immersione, una riserva naturale (Lokobe) con lemuri e rettili, una riserva marina (Nosy Tanikely) ed escursioni di più giorni in altri arcipelaghi.
       
-Nosy Sainte Marie

Minuscole baie, bianche spiagge e una vegetazione rigogliosa fanno di Nosy Sainte Marie un vero e proprio paradiso tropicale. Lo sapevano anche i pirati dei secoli scorsi, che decisero di stabilirsi su quest'isola dalla posizione strategica.
Assetati di ricchi bottini, nel XVII-XVIII secolo si appostarono qui in attesa di mercantili provenienti dall'Asia.

-Guida alle foto


  • Penisola Masoala (Est Madagascar)
  • Giardino zoologico-botanico di Tsimbazaza (Tana)
  • Foresta pluviale e spinosa, Parco Nazionale Andohahela
  • Parco Nazionale Isalo, il Canyon Des Makis
  • Ambositra cittadina degli altipiani
  • Baia Antongil, isola di Nosy Mangabe
  • Nosy Iranja
  • Nosy Sainte Marie
  • Nosy Be market Antananarivo
 


*Appunti di viaggio tra Novembre-Dicembre 2015, Antananarivo
(Fonte.:africalandilmionuovoblog)
Bob Fabiani
Link
-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com/al-di-là-di-ogni-ragionevole-dubbio-il-romanzo     
     

sabato 8 agosto 2020

L'Africa supera 1 milione di contagi da Covid-19, e il picco è lontano














L'impennata costante di queste ultime settimane in Africa ha raggiunto 1 milione di casi da coronavirus, in tutti i 54 paesi africani.A preoccupare, secondo l'Otganizzazione mondiale della sanità (OMS) è il picco non ancora raggiunto visto che nel continente, in questo momento c'è l'inverno australe.

La metà dei casi si registra in Sudafrica dove, sta dilagando la corruzione anche e sopratutto sfruttando la pandemia.

Un disastro, intanto, il presidente sudafricano Ramaphosa spiega ai cittadini che il suo governo è al lavoro per arginare la corruzione (anche se con risultati nulli almeno, fino a questo momento).

La pandemia in Africa, è stata sfruttata da diversi governi per mettere in atto svolte repressive. E' l'altro dato negativo e preoccupante: in Zimbabwe, sono calpestati significativamente i diritti umani con Mnangagwa - il presidente sempre più tentato di cancellare, ad ogni costo, anche per "vie di fatto" ossia, fisicamente; - che lancia la soppressione dei suoi avversari dell'opposizione; in Tanzania, la pandemia è stata la spinta per procedere al bavaglio della libera informazione anche su temi strettamente legati alle informazioni sul virus. Ma non è stato risparmiata neanche la libera informazione online.
In Ghana le autorità si sono concentrate a mettere in atto un "controllo asfissiante sulle università". Qua e là nel continente, le autorità oltre a decidere un lockdown - che ha messo in ginocchio milioni di persone - hanno dato mandato per ordinare coprifuoco e repressione delle forze dell'ordine affiancandogli i militari: è il caso del Kenya e della Nigeria sopratutto negli slum. Anche il Sudafrica ha dato mandato alla polizia e all'esercito di usare il pugno di ferro nelle township.

Un discorso a parte lo merita il Madagascar.

La Grande Isola dalla Terra Rossa in queste ultime settimane ha visto una preoccupante impennata dei casi di contagio. Il presidente malgascio, Andry Rajoelina, è indubbiamente in difficoltà dopo il passo falso del CVO - ossia una sorta di sciroppo a base di artemisia - che in un primo momento doveva essere la panacea con la quale si sarebbe debellato il virus nell'isola. Non è stato così. Anzi, la situazione è progressivamente peggiorata anche a causa del collasso degli ospedali della capitale, Antananarivo.
Da qualche giorno il presidente, ha delegato ai militari la gestione della pandemia sull'intero territorio dell'isola: una svolta preoccupante anche se, in queste ultime ore da Antananarivo e dintorni arriva una buona notizia dall'Istituto Pasteur dedl Madagascar. Sono stati circoscritti i primi 2 genomi completi dei virus SARS-CoV-2 rilevati sull'isola nel marzo scorso.
(Fonte.:aljazeera;africasacountry;mg.co.za;lexpress)
Bob Fabiani
Link
-www.aljazeera.com
-www.africasacountry.com
-www.mg.co.za
-www.lexpress.mg 

venerdì 7 agosto 2020

Viaggio in Mauritania tra deserto e mare Pt.2








Percorrendo la strada lungo la costa della Mauritania s'incontrano saline, dune e spiagge sconfinate. E popolazioni dal passato nomade che vanno incontro a un futuro ancora incerto.

AfricaLand Storie e Culture africane pubblica la seconda parte del viaggio in Mauritania tra deserto e mare.



Proseguiamo il nostro viaggio decisi a raggiungere Chami prima del tramonto.
Lo specchietto retrovisore cattura l'immagine di Salima che ci saluta, completamente sola. Chami è l'El Dorado della Mauritania. Quando passarono di qui i cooperanti catalani della Carovana solidaria, nel novembre del 2009 - poco  prima che tre di loro fossero rapiti da Al Qaeda nel Maghreb islamico al chilometro 170, superata la stazione di servizio Gare du Nord - a Chami c'erano a malapena quattro baracche e qualche negozietto per attirare i viaggiatori di passaggio.

Oggi Chami fa impressione. Il brulicare di persone, la frenesia edilizia e il caos di veicoli, animali, officine e negozi sono tali che non si può far altro che fermarsi, mettersi a sedere, respirare a fondo e aspettare che tutto ciò che si sta osservando piano piano si metta in ordine.

Compriamo banane e acqua. Ci sediamo alla stazione di servizio, dove si radunano i veicoli carichi di cercatori d'oro in partenza verso il deserto. Sono lavoratori irregolari. Paria. Molti sono migranti. Di solito un piccolo imprenditore - uno che ha la macchina, ha comprato un generatore, un metal detector, pale, picconi e corde - carica tre o quattro ragazzi sul pick-up e si addentra nel deserto per avvicinarsi alla grande miniera d'oro. Lì i giovani manovali scavano piccoli pozzi dove si cala un uomo sorretto da corde, il quale fruga nel buio quasi senza ossigeno e riempe di pietre e terra un secchio che i suoi compagni riportano su con una carrucola e la forza delle braccia. Più di 15 mila persone lavorano in questo modo. Gli incidenti mortali sono all'ordine del giorno. Invece i dipendenti della grande miniera gestita dai canadesi con tecnologie d'avanguardia, recintata, ben controllata e inaccessibile ai curiosi sono circa 5 mila.
Sono gli operai d'élite della Kinross Gold Corporation, che ha già raddoppiato la produzione, e viaggiano su pulmini con l'aria condizionata.

All'uscita della città, in un enorme spazio aperto, si ammassano i laboratori artigianali dove i minatori informali spaccano le pietre, le triturano con grandi macine, poi versano la polvere in vasche piene d'acqua per setacciarla e cercano di separare l'oro buttando del mercurio nell'acqua. La maggior parte di loro dorme in baracche  e casette di cemento di tre o quattro metri quadrati dove possono stiparsi fino a dieci persone. Le baracche sono sparse disordinatamente tra le dune, e i residui di questa febbre dell'oro - bombole di gas vuote, compressori, generatori, pneumatici, motori guastati, bidoni bucherellati - si accumulano sulla sabbia. C'è anche un cinema che proietta partite di calcio e serie televisive, annunciando chissà, futuri quartieri residenziali, mentre nel centro di Chami si vedono già i segni di una città moderna: lampioni nuovi e villette a schiera destinate agli ingegneri della miniera, alle autorità locali e ai militari; un piccolo albergo per i visitatori illustri; una caserma sulle cui pareti il vento del deserto ha creato un'immensa duna che arriva fino alle garitte di sorveglianza, come per ricordare che perfino nella città d'oro il deserto detta legge.





Ci fermiamo a dormire in una khaima in uno spiazzo che si presenta come un campeggio. Troviamo una coppia di spagnoli. Viaggiano su un camper attrezzato per il deserto. Hanno trovato "orribile" quello che hanno visto finora del paese.
La tempesta di sabbia che li ha accompagnati dalla frontiera settentrionale è stata un incubo. Cercano inutilmente i bagni, l'elettricità, il wifi. La donna è contrariata. Ha comprato dei frutti di mare a Nouadhibou "a un prezzo" e non ha ancora avuto tempo di preparare la paella.

"Qui la potrà preparare tranquillamente", cerchiamo di incoraggiarla.

"Già, ma noi la paella la mangiamo sempre di domenica e ormai è lunedì".


-Due attività

"Benvenuti! Accomodatevi", dice Lamin mentre toglie la sabbia dai cuscini sparsi sul pavimento e ci riceve nel suo negozio di alimentari. Lamin el Kanane Mohamed parla uno spagnolo eccellente. E' uno dei tanti sahrawi che si trasferirono a vivere da queste parti dopo la ritirata spagnola dal Sahara Occidentale e la successiva guerra con il Marocco li costrinsero ad abbandonare le loro terre. Siamo nel paesino di El Mhaijrat. Lo potremmo chiamare El Mhaijrat di sopra, perché la parte più antica è vicina alla spiaggia, a circa due chilometri di distanza. Quando fu costruita la strada, gli abitanti della zona vicino al mare, in gran parte pescatori, cominciarono a spostarsi verso la striscia d'asfalto per vendere ai viaggiatori la bottarga (uova di muggine) e il pesce essiccato, ottimo peri diabetici. Nella zona ce ne sono parecchi per via del tè troppo zuccherato. Così nacque un nuovo paese, che continua a crescere grazie al commercio. Ancora non è ben chiaro se per gli abitanti di El Mhaijrat la strada è più redditizia della spiaggia, e se il commercio sostituirà la pesca. Oggi nsi dividono tra le due attività.

Il negozio di Lamin è uno dei quei posti dove tutto quello che è in vendita rispecchia l'austerità a cui è costretta la maggior parte della popolazione. Solo l'acqua si vende in grandi bidoni. Il resto - tè, caffè, tabacco, zucchero, riso, uova - si vende a unità o in minuscoli sacchetti di plastica adatti a un'economia familiare dove ogni pasto è un giorno guadagnato.

"Quindi arrivate da Nouadhibou?", sorride Lamin, che ha voglia di chiacchierare e ci sta già raccontando la sua vita.
Ricorda il giorno in cui, quando ancora era un bambino, scoppiò la guerra e la sua famiglia fu costretta a scappare dalla guerra dalla Guera, il quartiere spagnolo di Nouadhibou. E di come, in mezzo al caos, la famiglia si dovette dividere e lui non rivide più i genitori fino a cinque anni dopo, nel campo profughi di Tindouf, in Algeria.

"Mia nonna fu uccisa da un aereo. Ci attaccavano i marocchini, i mauritani, i francesi. E gli spagnoli ci abbandonarono. Certo, ora mi vedete in questa desolazione. Magari un altro giorno mi ritroverete alle Canarie, a lavorare nel settore alberghiero. La vita può cambiare", dice Lamin.
Ci racconta di quando a Tindouf fu imbarcato con altri 35 bambini su un aereo diretto a Cuba, dove rimase poi per cinque anni ospite nella Isla de la Juventud.

Lemin parla dell'esilio, di famiglie sparse per il mondo, della lotta del Fronte Polisario. Storie tramandate oralmente, come quelle di tanti altri popoli dimenticati. Ci vorrebbero tante Svetlana Aleksievic per raccoglierle prima che vengano dimenticate man mano che i loro protagonisti scompaiono.

"Vedremo mai nascere la Repubblica sahrawi?".

"Dopo tante sofferenze, sarebbe giusto", dice Lamin con sguardo sognante.

Uno dei militari della caserma del paese entra a salutare ed evita di parlare di cosa è giusto o no. Lamin manda il ragazzo che lo aiuta in negozio  - il negozietto, la "tiendita", dice con il suo dolce accento delle Canarie - a prendere dei sacchi di sabbia della duna. Il ragazzo torna con la sabbia, la stende sul tappeto dandole una forma quadrata. Il militare apre la borsa di stoffa che ha con sé. Tira fuori alcune palline nere, fatte con escrementi di cammello e qualche bastoncino ricavato da rametti di acacia.
Distribuisce i pezzi.
Lamin sceglie i bastoncini. Se la prendono con calma.

"Si gioca come a dama".

La partita può durare anche tre ore.

Ci lasciamo alle spalle il parco nazionale di Arguin, il territorio degli imraguen, una comunità d'origine berbera che da secoli si dedica alla pesca.
La loro tecnica ancestrale consiste in un canto che invoca la complicità tra l'uomo e la natura. Gli imraguen usavano addentrarsi in mare formando un cerchio, camminando in zone poco profonde, ed erano i delfini a spingere verso le loro reti spiegate i banchi di pesce. Oggi questa pratica è scomparsa e gli imraguen pescano su barche tipiche delle Canarie, a vela latina.
Fare il bagno in queste acque, dormire in una khaima cullati dal vento e dalle onde, svegliarsi con centinaia di migliaia di uccelli che volano imbiancando il cielo, l'acqua e la sabbia, mangiare un pesce capitaine o un'aragosta alla brace... Cosa si può chiedere di più?

Arriviamo a Nouakchott verso sera.







L'illuminazione dei lampioni che comincia 30 chilometri prima della città, le pale eoliche che si susseguono accanto a gruppi di cammelli, capre e pecore, le file di alberelli che cercano di sopravvivere in vasetti di plastica che un camion innaffia a uno a uno con una pompa: sono la testimonianza più evidente della capacità di costruire  dell'essere umano, della sua testardaggine quando si trova ad affrontare un progetto inverosimile, come la creazione di una città in mezzo a nulla.
-Fine seconda parte-
*Bru Rovira è un giornalista spagnolo. Per 25 anni è stato corrispondente del quotidiano catalano La Vanguardia. Oggi scrive sopratutto di temi sociali per vari giornali spagnoli. Il suo ultimo libro è Solo pido un poco de beleza (Ediciones B 2016)
(Fonte.:elpais)
Bob Fabiani
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-www.elpais.com/elpais/esp 
 
   

giovedì 6 agosto 2020

Dogon, il popolo della Falesia








Esiste una muraglia di roccia giallastra che spezza la monotonia della savana del Sahel, finendo col gettare un'ombra sbiadita sulla sabbia della pianura. Una muraglia lunga circa 200 chilometri e alta fino a 500 metri, che fa da scenario al mondo dei Dogon.


-Dogon, i misteri del popolo delle stelle

I Dogon sono una popolazione del Mali. Questo popolo, di circa 240.000 individui, occupa la regione della Falesia di Bandiagara (importante formazione rocciosa localizzata nel Mali e costituita da una falesia di roccia sedimentata che si eleva  a circa 500 metri sul livello sabbioso sottostante. Si estende da Sud verso Nordovest per circa 200 chilometri, sino al massiccio Grandamia; n.d.t) a Sud del fiume Niger, e alcuni gruppi sono stanziati nei territori attigui al Burkina Faso. Sono prevalentemente coltivatori di miglio, caffè e tabacco e hanno una particolare abilità come fabbri e scultori.
La lingua Dogon presenta caratteristiche particolari, con molte varianti e dialetti. Ogni membro di questa popolazione ha quattro nomi: un nome proibito e segreto, un altro che è corrente, uno che si riferisce alla madre e uno che è il nome della classe di età. Per evitare problemi con le altre parole di uso comune, questi nomi sono presi da dialetti di altre tribù Dogon.
Ogni nome ha un significato linguistico.


-Falesia di Bandiagara









Percorrere la falesia di Bandiagara è come passare davanti a un enorme quadro monocromatico. La terra delle abitazioni si confonde con lo sfondo della roccia.
I villaggi sembrano camaleonti, che si nascondono all'occhio dello straniero. Solo le piogge estive, quando il cielo è generoso, pennellano qua e là di verde questa terra.
Allora la falesia cambia volto. Le rocce bagnate si fanno più scure, alberi e arbusti segnano l'orizzonte e dall'alto della scarpata cascate d'acqua precipitano sulla piana, riempiendo i torrenti stagionali.

Visti dalla piana arida, che un tempo era verdissima, i villaggi dogon, con le loro capanne dal tettuccio di paglia, sembrano presepi aggrappati alle rocce giallastre.
In alto, sopra i tetti appuntiti delle capanne, occhieggiano le grotte dove vivevano i Tellem, popolazione di pigmei che abitavano la regione prima dell'arrivo dei Dogon.
L'intera muraglia è costellata da queste cavità nella roccia. I Tellem le avevano occupate, per difendersi dalle razzie dei popoli delle pianure. Con un complicato ma quanto mai efficace sistema di corde e non poca agilità, riuscivano a raggiungere rapidamente i loro ripari e ritirare le funi, per impedire ai nemici di raggiungerli.

-Brevi cenni storici (e leggende)

Attorno al quattordicesimo secolo arrivò in questa regione una popolazione proveniente da Sud, forse per sfuggire all'espansione degli imperi islamici, che stavano occupando il Sahel. Erano i Dogon.
Narra la leggenda che gli antenati dei Dogon, cercando di sfuggire ai loro persecutori, arrivarono nella terra dove oggi vivono e che Amarubu, uno dei tre capostipiti, inseguendo un facocero trovò una sorgente nascosta. Nangabulu, un altro antenato, mentre inseguiva un coccodrillo scoprì una grande palude, dove venne fondata Bandiagara. Da allora il facocero e il coccodrillo divennero animali sacri e vengono ancora oggi adorati dai Dogon come antenati.
I Dogon si stabilirono ai piedi della falesia e diedero vita a una civiltà tra le più note di quelle dell'Africa occidentale, grazie anche al lavoro di Marcel Griaule, il celebre etnologo francese che a partire dagli anni '30 del secolo scorso dedicò la sua vita a studiare questo popolo.

La falesia getta una lunga ombra sulla piana sottostante, la cui vita è quanto mai aleatoria e legata alle piogge, che nel Sahel sono sempre più scarse.
A partire dagli anni '70 si sono succedute diverse stagioni di siccità, col risultato di mettere in ginocchio questo popolo di contadini, che cerca di strappare ogni giorno a quella terra arida e a quelle rocce un po' di sopravvivenza.
La vita qui è sempre tra il troppo poco e l'appena abbastanza.





Per comprendere questa terra e questa gente bisogna percorrere la falesia a piedi, per poi infilarsi nelle spaccature della roccia e risalire sull'altopiano roccioso, dove i campi sono pozze di terra, lasciate libere dalla crosta dura e violacea della pietra. Roccia e sabbia: i Dogon vivono tra questi due elementi. Il piede calpesta lame taglienti o sprofonda. Qui, sullo sfondo di questa grande quinta naturale, si intrecciano due storie.
Un visitatore di un altro pianeta che attraversasse questa terra vedrebbe campi spesso sbriciolati dalla siccità, magari steli di miglio, donne che percorrono chilometri per approvvigionarsi d'acqua e molte case abbandonate. Ma se cercasse nei libri informazioni sui Dogon, leggerebbe di un mondo fatto di simboli cosmici, di misteriose astronomie, di gente che trascorre il tempo a riordinare l'universo secondo mappe ancestrali armoniche e virtuose.
Per gli occidentali i Dogon sono quelli di Marcel Griaule. Nel suo libro più celebre, Dio d'acqua, uscito nel 1948, Griaule offrì un'immagine dei Dogon e del loro ricco e complesso universo cosmogonico che vive ancora oggi, alimentata e corroborata da operatori turistici, guide di viaggio e riviste del settore, per i quali il Dogon mistico e incontaminato è un prodotto che si vende bene. Un'immagine proiettata su uno schermo di sogno, buona per appagare la nostra carenza di miti e misticismo.
L'immagine resta congelata, immutabile, senza storia: i Dogon erano così e saranno sempre così . Si sprecano espressioni come "ancestrali", "immutati", "tradizionali" e si nega così a questa gente la capacità di fare storia.

Tuttavia, il nostro viaggiatore alieno, passeggiando qui e là, vedrà una miriade di orti coltivati a cipolle. Perché, se per gli occidentali i Dogon sono i misteriosi astronomi che conoscono il segreto della stella Sirio B, in Africa occidentale la loro fama è legata alle cipolle. E le cipolle portano, talvolta, all'Islam.

Le reti commerciali del Mali e dei paesi limitrofi sono gestite in gran parte da mercanti islamici ed è più facile entrarvi se si condivide questa fede. Così, ai piedi della falesia  - che nel 1989 è stata dichiarata Patrimonio Mondiale dell'Umanità Unesco in quanto "culla dell'animismo" - si vedono nascere sempre più di frequente piccole moschee dalla classica architettura saheliana.






Nelle fotografie che si trovano su guide e cataloghi non vediamo mai i motorini che percorrono ansimando le piste, il traliccio del telefono che domina la piazza di Sanga davanti all'ufficio postale, né le bancarelle dei mercati con oggetti in plastica e magliette dei Chicago Bulls o di Ronaldo. Eppure i Dogon sono anche questo. La società dogon, spessa definita "tradizionale" da una certa etnologia, cela dentro di sé i germi della flessibilità straordinaria, che le permette di conservare l'essenziale, unendo il suo apparente conservatorismo alla sua caratteristica dinamica di fondo.
Se ci si reca in Mali non si fa parte di un turismo di massa e neppure uno sprovveduto, tuttavia, questo turista, non è disposto a condividere tutto con i Dogon, solo la parte che più lo affascina. Magari rischiando di proiettare su quella gente valori che ha o crede di avere perduto. Ed è questo che gli propongono le guide locali, spostandosi su quella zona franca che è in fondo il terreno del turismo. L'autenticità ricercata dal turista "etnico" è proporzionale alla distanza dalla modernità che ciò che accade davanti ai suoi occhi mantiene.
Il turista fa come se ciò fosse autentico, pur essendo conscio della rappresentazione in atto. In fondo la questione non è se il turista viva o meno un'esperienza autentica, ma se egli ne percepisca una certa autenticità basata sulla distanza dalla sua esperienza quotidiana che sulla reale conformità alla tradizione locale. I Dogon lo sanno ed è proprio questa dimensione che offrono al turista. Molti di loro hanno letto Dio d'acqua e narrano ai visitatori ciò che Griaule ha scritto dei Dogon. I turisti vedono così appagata la loro ricerca di autenticità.
"Autentico" sembra dovere coincidere con immutabile, a dispetto dei diversi e profondi mutamenti che attraversano questa terra: l'avanzata dell'Islam, l'azione delle Ong che operano sul terreno, l'introduzione di colture commerciali come le cipolle.

Anni fa a Sanga si poteva incrociare Youssuf Tata Cissé, etnologo maliano che insegnava alla Sorbona.

"Tutti i simboli che hanno scoperto qui li ritrovi a Bambara, tra i Minyanka e in un sacco di altri posti qui attorno", e aggiunge "Non è mica una cultura unica al mondo! Fa parte di un continuum che percorre quasi tutta l'Africa occidentale". 

A fronte di queste dichiarazioni ci si chiede: "Perché allora i Dogon sono diventati così famosi?" .

"Perché su di loro hanno scritto più libri", afferma Cissé e chiosa: "O perché questo è un gran posto e tutto diventa più bello".

A pensarci bene Youssuf Tata Cissé aveva ragione.

I turisti però oggi non arrivano più. Anche all'ombra della falesia è arrivata l'onda strisciante del jihadismo, ed è arrivata con il volto dei Peul, i tradizionali allevatori della savana. Tra loro e le popolazioni sedentarie locali non è mai corso buon sangue, ma in qualche modo si era stabilita una forma di convenienza: dopo il raccolto, i bovini potevano pascolare sui campi, fornendo letame, assai ambito dai contadini.
I Peul ricevevano in cambio miglio, altri prodotti alimentari e talvolta anche piccole somme di denaro. Di tanto in tanto nasceva qualche lite, perché i bovini invadevano i campi prima della fine del raccolto. Gli scontri talvolta degeneravano e venivano sequestrate alcune vacche.







Negli ultimi anni però qualcosa è cambiato: l'ondata fondamentalista, iniziata nel 2011 con l'occupazione del Mali settentrionale, dopo una prima fase militare si è trasformata in una penetrazione silenziosa di elementi islamisti nei villaggi del Mali, tra cui quelli dogon. Questo ha provocato numerosi scontri, anche a fuoco, con molti morti, al punto che i Dogon hanno formato una sorta di milizia etnica, a metà tra un'associazione di cacciatori e un corpo paramilitare, che nel marzo 2019 con un assalto armato ha raso al suolo il villaggio di Ogossagou, tra Mopti e le frontiera con il Burkina Faso, lasciando a terra oltre 150 vittime, tutti civili di etnia peul trucidati a colpi di machete e armi da fuoco mentre veniva appiccato il fuoco all'intero villaggio. L'eccidio è stato motivato dagli assalti jihadisti condotti dai miliziani guidati dal predicatore peul Amadou Koufa e inquadrati nella principale coalizione jihadista del Sahel, il "Gruppo di sostegno all'islam e ai musulmani", di fede qaedista e sospinto dalle sempre maggiori pressioni dell'ondata islamista. Il tutto sotto lo sguardo indifferente dell'esercito maliano, rimasto inerte di fronte a questi violenti episodi.

I Peul vengono considerati oggi dai Dogon, nel migliore dei casi, dei collaborazionisti.
Il mosaico etnico del Mali è andato drammaticamente in frantumi per effetto combinato dalla disgregazione della Libia e della diffusione tossica del radicalismo religioso di stampo wahabita, che un tempo era marginale in questi luoghi.
Difficile dire quale sarà il futuro di quello che fu un pacifico popolo di coltivatori. Nere nubi si affacciano all'orizzonte.
(Fonte.:nationalgeographic)
Bob Fabiani
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-www.nationalgeographic.com/africa



  

mercoledì 5 agosto 2020

FOTO DEL GIORNO - Nouadhibou (Mauritania)







Nouadhibou è il principale porto di pesca della costa: prospera grazie alla flotta di piroghe, al commercio, alle miniere di Zouérat e alla pesca in alto mare dei grandi pescherecci industriali dei paesi ricchi.

Nouadhibou, conosciuta un tempo col nome di Port-Etienne. Si trova nel Nord della Mauritania: è la seconda città del paese e polo commerciale.
E' situata al confino col Sahara Occidentale e al mare. E' la capitale della regione di Dakhlet-Nouadhibou, regione prevalentemente desertica di circa 87.000 abitanti.
Oltre alla pesca, favorita da una delle acque più pescose dell'atlantico, l'industria maggiore è la lavorazione del ferro, che viene trasportato via treno dalle città minerarie dell'interno Zouérat e F'Derick. Il cosiddetto "treno del ferro" trasporta anche passeggeri e auto e può essere considerato una delle attrazioni della città: è il "treno più lungo del mondo" e può raggiungere i 2,5 Km di lunghezza.
Il città è presente un grande centro di detenzione dei migranti.
(Fonte.:africalandilmionuovoblog)
Bob Fabiani
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-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com/foto-del-giorno
  

Viaggio in Mauritania tra deserto e mare Pt.1










Percorrendo la strada lungo la costa della Mauritania s'incontrano saline, dune e spiagge sconfinate. E popolazioni dal passato nomade  che vanno incontro a un futuro ancora incerto.
AfricaLand Storie e Culture africane vi porta in viaggio nel paese africano per tutto il mese di agosto.





-Tra deserto e mare*








Chike ci pensa su per un po', ma alla fine inizia a parlare: "Allora", dice, attaccando con voce amichevole "mettiamo che io arrivo nel tuo paese. Diventa buio. Non so dove andare. Mi presento alla porta di una casa. Mi daranno un posto per dormire?".

"Una porta qualsiasi?".
"Di una casa, sì".
"Be', no".
"Ah, ecco".
"E' anche possibile che se ti vedono
piantato davanti alla porta" - mi sta per scappare "con quell'aria lì", ma non lo dico - "qualcuno chiami la polizia" .

Chike abbassa lo sguardo e scuote la testa contrariato.

Sono le prime battute del viaggio che vogliamo fare: attraversare la Mauritania da Nord a Sud, dalla frontiera con il Sahara Occidentale (il territorio occupato dal Marocco, ma rivendicato dal popolo sahrawi) fino alla foce del fiume Senegal.
Viaggiamo lungo la strada che attraversa il paese da un capo all'altro, dal Sahara al Sahel, con l'Oceano Atlantico da una parte e il deserto dall'altra.




Quello che troviamo lungo la strada, quello che lì si vive e si racconta, è la storia di un paese giovane, in costruzione. Un paese che ha appena sessant'anni, dove la vita che è andata avanti per secoli - il nomadismo, la dipendenza dal deserto, il ciclo annuale delle piogge, l'agricoltura lungo il fiume, l'appartenenza tribale - sta cambiando rapidamente, a un ritmo incredibile.
Ci fermiamo a riposare all'ombra di una khaima, la tipica tenda beduina, vicino alla strada. Mangiamo pane con sardine del Maracco e formaggio francesi, beviamo latte in lattina confezionato nei Paesi Bassi. Finiamo il pasto con delle mele rosse e lucide con l'etichetta "Girona". Le mele che provengono da Sant Pere Pescador, sulla costa spagnola a Nord di Barcellona.

Lungo il percorso s'incrociano numerosi migranti - burkinabé, maliani, guineani - che cercano un posto su qualche cayuco (piccole imbarcazioni simili a canoe) diretto alle isole Canarie e una volta lì, chissà, magari in Spagna. Vedendoli, non è impresa impossibile immaginarli  - inshallah!- mentre si dirigono in bici verso i campi dove si coltivano le mele che poi, milioni e milioni di persone mangeranno, compresi noi. Mele che si muovono con incredibile facilità, se pensiamo a tutti gli ostacoli e alle difficoltà che devono affrontare le persone costrette a scavalcare i muri: l'orrore.

Dopo mangiato, Chike prepara un tè.

Sta per buttare dentro alla teiera mezzo pacchetto di zucchero e le nostre proteste non bastano a fermarlo. Il tè è affare suo: il più bel momento della giornata. Ne beviamo anche cinque al giorno, quanti sono i tempi delle preghiere. E ogni volta tre bicchieri. L'ultimo ha un sapore amaro che resta in bocca per ore, come se avessi masticato una radice.

Chike è il nostro autista.

Fino a pochi anni fa portava i cammelli al pascolo nella provincia di Trarza, nel Sudovest del paese. A guidarlo erano le stelle e le piogge. A delimitare casa sua solo l'orizzonte. L'appartenenza, la famiglia. Il paese, le altre persone in movimento. Ha abbandonato la vita nomade e i cammelli quando gli animali sono morti o li ha dovuti sacrificare per via della siccità, dei cambiamenti climatici che affliggono la regione.

Chike torna alla questione che lo preoccupa: "Mettiamo che arrivo a casa tua. Cosa fai?" .

"Tu cosa faresti se io arrivassi a casa tua?".
"Uccido un agnello!".
"Io preparo una paella".
"Già, ma posso fermarmi a dormire?".
"Quante notti?".

Chike si ferma a pensare. Discute un po' con l'uomo che ci ha aperto la khaima dove ci stiamo proteggendo dalla tempesta di sabbia.

"Sai una cosa?", dice guardandomi fisso negli occhi. "Quando cammino nei quartieri di Nouakchott, lontano da casa mia, se ho bisogno di andare in bagno busso a una porta qualsiasi, entro, faccio quello che devo fare, mi lavo, ci beviamo un tè insieme. E' così che la vedo io".

L'uomo della khaima annuisce.


-Bassa marea

Prima che venisse costruita la strada, nel 2004, il viaggio da Nouadhibou alla capitale Nouakchott avveniva su strade sterrate e, una volta superato capo Timiris, si approfittava della bassa marea per passare sulla spiaggia. Era un viaggio bellissimo e molto pericoloso. Non solo perché ci sono degli scogli lungo la costa - una grande spiaggia che si estende per 360 chilometri fino alla foce del fiume Senegal - ma anche perché questo territorio fragile, ventoso, chiuso tra il mare e il deserto, questa terra di nessuno, lo sbar (le dune costiere), può essere ingannevole, e non ci si deve mai fidare delle apparenze.

"Quanto alle vecchie saline, che sembrano rigide come l'asfalto, (...) a volte cedono sotto il peso delle ruote. La bianca crosta di sale sui squarcia allora sul miasma di un acquitrino nero", scrisse Antoine de Saint-Exupéry in Terra degli uomini. Saint-Exupéry, uno dei piloti che aprirono la linea aerea tra Tolosa e Dakar, conosceva bene questa regione, dove trascorse lunghi periodi e dove dovette fare diversi atterraggi d'emergenza. Uno di questi ispirò Il piccolo principe. Quando il suo aereo aveva un problema, Saint-Exupéry cercava di farlo atterrare su un terreno elevato, un "tappetto di conchiglie", di certo per questioni di sicurezza, ma forse anche per passione filosofica e spirito d'avventura.
Lo scrittore racconta che in una di queste occasioni riuscì ad atterrare su un terreno "infinitamente vergine" che "mai nessuno, animale o uomo, aveva sciupato". Raccolse la sabbia con la mano. La lasciò cadere come pioggia dorata.
Sentì di non essere altro che un granello di polvere nell'immensità dell'universo. Il primo uomo a turbare quella banchisa minerale. La prima testimonianza di vita. Nessuno. Tutto.






Lasciamo Nouadhibou alle prime luci dell'alba. All'uscita dalla città ci aspettano Salima e un gruppo di donne del quartiere della Charca. Salgano su un pick-up, lasciamo la strada, aggiriamo una serie di dune e raggiungiamo le saline in riva al mare.
Le piscine di sale sulla sabbia danno vita a un paesaggio all'orizzonte della muraglia blu scuro dell'oceano.
Ho conosciuto Salima qualche anno fa, quando insieme ad altre donne aveva appena creato una cooperativa per sfruttare il sale  della baia. La cooperativa è nata dalla volontà - e dall'entusiasmo - di Nedwa Nech, una donna di una famiglia ricca che un giorno è andata a visitare la Charca e si è vergognata dell'estrema povertà in cui vivevano le donne. Senz'acqua corrente nelle case. Circondate dal fango e dalla spazzatura. Molte di loro non erano sposate e dovevano occuparsi da sole dei figli.

Nouadhibou è il principale porto di pesca della costa: prospera grazie alla flotta di piroghe, al commercio, alle miniere di Zouérat e alla pesca in alto mare dei grandi pescherecci industriali dei paesi ricchi.
Ma questa abbondanza non è ripartita equamente, e per le persone povere può essere una condanna. Le donne hanno raccontato a Nedwa che si guadagnavano da vivere preparando da mangiare e il tè per i pescatori.

"Bastava osservare i volti di quei bambini, avevano tratti asiatici, europei, neri, arabi... Eh!", esclama Nedwa. Si è messa in contatto con alcune ong ed è riuscita a ottenere finanziamenti dall'Unione europea per portare avanti il progetto delle saline.

Salima conserva in casa un ritaglio di quei primi tempi gloriosi: una pagina ormai ingiallita del giornale Ouest France su cui compaiono lei e altre tre donne in posa insieme ai produttori di sale marino di Guérande, sulla costa atlantica della Francia, dove avevano seguito un breve corso di formazione. L'articolo parla della calorosa accoglienza della popolazione locale, della solidarietà dei donatori che appoggiavano l'iniziativa di Nouadhibou, delle belle parole, del desiderio che gli africani potessero gestire le loro risorse, esercitando la propria sovranità.

Durante quel viaggio, Salima e le sue amiche hanno imparato a estrarre dal mare sale purissimo. Scavano piccoli pozzi, ne raccolgono l'acqua con i secchi e riempiono delle piscine foderate con teli di plastica, da cui l'acqua evapora lasciando il sale. Nell'arco di tre giorni, una sola piscina può produrre fino a 25 chili di sale, sufficiente a far vivere decentemente un'intera famiglia. Ma oggi qui regna un'atmosfera desolata: come spesso succede nel mondo della cooperazione, il progetto è stato abbandonato dai finanziatori prima che potesse consolidarsi, diventasse qualcosa in grado di trasformare la vita delle persone. Oggi queste donne non hanno neanche un mezzo di trasporto per arrivare alle saline.
-Fine prima parte -
*Bru Rovira è un giornalista spagnolo. Per venticinque anni è stato corrispondente del quotidiano catalano La Vanguardia. Oggi scrive sopratutto di temi sociali per vari giornali spagnoli. Il suo ultimo libro è Solo pido un poco de belleza (Ediciones B 2016).
(Fonte.:elpais)
Bob Fabiani
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-www.elpais.com/elpais/esp

martedì 4 agosto 2020

FOTO DEL GIORNO - Beirut Explosion












Una violenta esplosione di nitrato di ammonio distrugge Beirut. Il rimpallo delle responsabilità: la dogana libanese incolpa il Porto di Beirut per lo stoccaggio del nitrato di ammonio e accusa il manager generale del porto Hassan Koraytem.
Secondo il centro GFZ l'esplosione avrebbe creato un terremoto di magnitudo 3.2.

Intanto, mentre scriviamo, la Croce Rossa libanese parla di almeno 100 decessi e oltre 4 mila feriti.

Il primo ministro del Libano ha dichiarato che a causare 2,750 tonnellate di nitrato d'ammonio, abbandonate per 6 anni in un magazzino senza sistemi di sicurezza.
L'esplosione ha superato la potenza di una testata nucleare di un kilotone.
L'onda d'urto dell'esplosione è arrivato fino a Cipro.

Tuttavia, non si può escludere a priori l'attentato terroristico.

Le persone a Beirut hanno dormito in case distrutte, durante una mortale pandemia, con un'economia in rovina guidata da politici corrotti, circondata da paesi che li hanno attaccati e minacciati e un mondo che ha abbandonato loro e i loro rifugiati.
Al sorgere del sole, Beirut non esiste più.
(Fonte.:afp)
Bob Fabiani
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-www.afp.fr/lebanon

#ZimbaweanLivesMatter








Le notizie che arrivano dallo Zimbabwe certificano una situazione preoccupante su vari fronti, a cominciare da quello dei diritti umani sistematicamente calpestati.
Le autorità di Harare hanno preso a spunto - come del resto in altre parti dell'Africa - la pandemia per mettere in atto una spietata repressione.
Ne abbiamo già parlato su queste pagine virtuali di questo blog ma, preoccupano gli arresti arbitrari, gli abusi delle forze dell'ordine spalleggiate dai militari con le quali il governo sta tentando di imbavagliare le proteste delle opposizioni che denunciano una delle facce della crisi: la corruzione.

In questo #focus AfricaLand Storie africane racconta le ultime drammatiche ore vissute dalla cittadinanza che tenta disperatamente di far sentire la propria voce contro gli abusi di potere dei politici e le durissime conseguenze del lockdown causa Covid-19.


-Arresti per imbavagliare il dissenso






L'attuale crisi che colpisce lo Zimbabwe viene da lontano. I cittadini e la società civile sogna (da molto tempo) un radicale cambiamento per rendere il paese africano più moderno, equo e solidale, nonché rispettoso dei diritti umani.
Tuttavia, l'attuale presidente dello Zimbabwe non è mai stato un sostenitore della democrazia e del dissenso politico. Piuttosto, quando era alle dipendenze del vecchio "Compagno Bob" - eroe dell'Indipendenza dalla Gran Bretagna quando ancora si chiamava Rhodesia, indipendenza avvenuta nel 1980 -, al secolo Robert Mugabe, si era macchiato di una di quelle "purghe" per non far cadere il regime della "Famiglia Mugabe" e dell'egemonia delle forze armate. Da allora il suo soprannome è "Coccodrillo".
Salito al potere per sostituire il "vecchio Compagno Bob", Emmerson Mnangagwa si presentò alla cittadinanza promettendo un cambiamento radicale contro la corruzione. Nulla di tutto questo è avvenuto e ora, lo Zimbabwe, si trova in una crisi irreversibile resa disperata anche dalla tragedia del Covid-19.






Da quel giorno (24 novembre) del 2017 le cose sono peggiorate ancor di più: tre anni dopo, lo Zimbabwe è attraversato e quasi colpito a morte, da una corruzione galoppante che ha spinto la cittadinanza (e le opposizioni) a scendere in piazza per denunciare lo stato della situazione.
Mnangagwa però non tollera di essere contraddetto. Odia il dissenso e così, a più riprese, nei tre anni in cui si ritrova al timone dell'ex Rhodesia, ha tentato di "silenziare" oppositori politici, avvocati, giornalisti, artisti, attivisti e scrittori.

La situazione è definitivamente deragliata quando, lo scorso 31 luglio, le opposizioni avevano indetto una marcia per denunciare la corruzione. Il governo - che dipende da Mnangagwa - aveva dichiarato fuorilegge la manifestazione.
In questi giorni però, la società civile, le opposizioni e intellettuali hanno voluto creare una hashtag su Twitter per denunciare quello che sta avvenendo: del resto il governo ha effettuato migliaia e migliaia di arresti con la scusa della pandemia ma l'obiettivo dichiarato è quello di sempre: imbavagliare il dissenso.
#ZimbaweanLivesMatter vuole essere un richiamo sui diritti civili sistematicamente cancellati dal potere e da Mnangagwa.


-Arresti eccellenti

     




La repressione "manu militari" non risparmia nessuno in Zimbabwe. A farne le spese anche grandi scrittori come Tsitsi Dangarembga.

Era finita in manette anche la scrittrice zimbabwese Tsitsi Dangarembga, con in tasca una nomination per il prestigioso premio letterario Booker Prize edizione 2020, uno dei più ambiti riconoscimenti internazionali.






E' stata rilasciata ieri sera insieme ad altri 11 dimostranti, ma dovranno presentarsi davanti al giudice il 18 settembre, perché accusata di istigazione e violazione delle norme sanitarie volte ad arginare il Covid-19.
La sessantunenne scrittrice era stata caricata su un camioncino delle forze dell'ordine insieme a altri manifestanti e portata in un commissariato di polizia di Harare, la capitale dello Zimbabwe.

Ma non è la sola.

Sono finiti dietro le sbarre anche l'avvocato Fadzayi Mahere e Jacob Ngarivhume e, ancora prima, il giornalista d'investigazione Hopewell Chin'ono che aveva scritto articoli per denunciare la corruzione dilagante dei politici e del governo.

Il governo aveva annunciato giorni prima: "La marcia di protesta annunciata per venerdì 31 luglio è un grave atto di insurrezione".
I partiti di opposizione  e le organizzazioni della società civile avevano chiesto alla popolazione di scendere nelle piazze  e nelle strade per protestare contro la galoppante corruzione e l'inflazione che ha raggiunto il 700 per cento.

I poliziotti e i militari erano ovunque, impossibile sfilare in massa: gli organizzatori però non demordono e hanno portato avanti la loro protesta pacifica nelle periferie mentre il centro di Harare era praticamente deserto, altrettanto quello di Bulawayo, la seconda città dello Zimbabwe.
I più indossavano magliette o portavano cartelloni con la scritta #ZanuPFMustGo (il partito al potere, Zanu PF se ne deve andare).

Già nei giorni precedenti alla manifestazione alcuni sindacalisti e giornalisti sono stati arrestati. Altri oppositori sono fuggiti, perché ricercati dalla polizia. Insomma il presidente Emmerson Mnangagwa - detto "il Coccodrillo" -, al potere dal 24 novembre 2017, dopo la caduta del suo storico predecessore ormai deceduto, Robert Mugabe, non tollera obiezioni. Chi lo contesta finisce in galera.
Tra gli arresti eccellenti c'era anche Fedzayi Mahere, avvocato e portavoce del maggiore partito all'opposizione, Movimento per il Cambiamento Democratico (MDC).
Le forze dell'ordine l'avevano fermata perché manifestava con un cartellone chiedendo giustizia per i giornalisti sbattuti in galera e l'apertura immediata di un'inchiesta per mettere fine agli scandali di corruzione (come aveva denunciato con i suoi articoli Hopewell Chin'ono n.d.t) : e la scrittrice conosciuta a livello internazionale Tsitsi Dangarembga, aveva fatto la stessa fine di Mahere e altri.

Ma gli organizzatori chiedevano di continuare la lotta durante tutto il fine settimana scorso.

-Le tante crisi dello Zimbabwe

Lo Zimbabwe si trova al centro di diverse crisi: oltre  a quella della cattiva qualità della democrazia con ripercussioni pesanti sul piano dei diritti umani, ve ne sono altre che vanno dalla pandemia ai cambiamenti climatici.

Entro fine anno, il 60% della popolazione avrà bisogno di assistenza alimentare: 8,6 milioni di persone si troveranno in stato di necessità a causa dei cambiamenti climatici - siccità e invasione delle cavallette - recessione e pandemia da Covid-19.
Il Programma Alimentare Mondiale (PAM) ha lanciato un appello il 30 luglio scorso e ha chiesto aiuti per 213 milioni di euro per poter far fronte a questa crisi senza precedenti.

Un discorso a parte merita il lockdown come conseguenza del coronavirus messo in atto per arginare la propagazione del temibile virus ha messo in ginocchio innumerevoli famiglie in città, dove sono rimaste senza lavoro e quindi senza entrate. Mentre nelle zone rurali la situazione è ancora più disperata.

Lunedì scorso, nell'ospedale centrale di Harare sono venuti al mondo 7 neonati morti in una sola notte. Le emergenze non riescono a essere eseguite nei tempi previsti per la mancanza cronica di personale. Gran parte delle infermiere  e dei paramedici sono in sciopero in tutto il paese, in quanto mancano protezioni contro le pandemie.

E sullo sfondo resta la drammatica situazione dei diritti umani ancor più calpestati da inizio crisi sanitaria, in Zimbabwe, si sono verificati arresti arbitrari, sparizioni extragiudiziali e torture: ricostruire il paese non sarà impresa facile a meno che non si riesca a far dimettere Mnangagwa.
(Fonte.:africa-express;bbcafrica;afp;jeuneafrique)
Bob Fabiani
Link
-www.africa-express.info
-www.bbc.com/africa
-www.jeuneafrique.com