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sabato 30 novembre 2019

Le gravi crisi che attanagliano la Repubblica Democratica del Congo








Una serie di crisi, una più grave dell'altra, stanno complicando la vita dei congolesi. Di quale crisi stiamo parlando?
Epidemia di ebola e morbillo, attentati islamisti quasi quotidiani, scontri tra popolazione e caschi blu delle Nazioni Unite.

Questo il quadro d'insieme: ora cerchiamo di scandagliare meglio queste crisi.


Inferno quotidiano

Nella Repubblica Democratica del Congo, oltre 100 morti (anche se molti media affermano che si tratti di 80 uccisioni) in un solo mese nella regione di Beni, il #ADF (Forze Democratiche Alleate) - Nalu moltiplica i massacri senza che MONUSCO - la Missione delle Nazioni Unite in Congo e le FARDC (Forze governative) riescano a fermarli.

Il testo che avete appena letto è quello che compare sui social network nella Repubblica Democratica del Congo e fotografa la situazione disastrosa sul fronte-sicurezza del grande paese africano.

Quotidianamente arrivano notizie di attentati e morti : benvenuti in Congo.

Nelle ultime settimane nel Nord-Est del paese sono state uccise 80 persone, quasi 100 secondo altri media (@jeuneafrique;afp).

Da quasi 20 anni in Congo - dove dal 1997 al 2003 si è combattuta una cruenta guerra civile durante la quale sono state uccise circa 5milioni di persone -  è presente il contingente militare delle Nazioni Unite MONUSCO, che ha l'obiettivo di proteggere i civili dai gruppi dei miliziani islamisti e ribelli attivi nel paese. Al momento però questa missione, non si può dire che stia funzionando, e la popolazione stesse mistra nei suoi confronti ormai un'aperta ostilità.






Le altre crisi


In tutto questo, in Congo, c'è una grave epidemia di ebola che dallo scorso agosto ha causato la morte di più di 2mila persone.
Altri 5mila congolesi, secondo le stime dell'Unicef, sono morte dall'inizio dell'anno per morbillo.





I giorni della mattanza



Lunedì 25 novembre e poi mercoledì 27, nella zona di Beni, nell'est del paese africano, ci sono stati due attacchi che hanno provocato - complessivamente - la morta di 27 persone. Entrambi sono stati attribuiti ai ribelli delle Forze Democratiche Alleate (ADF), un gruppo terrorista islamista nato negli anni Novanta.
ADF si muove tra Uganda e il Nord-Est della Repubblica Democratica del Congo, area che è da anni considerata politicamente molto instabile, data la presenza di vari gruppi che lottano per il potere (si stima siano crica 160; n.d.t).
Negli anni l'ADF si è ampliato reclutando miliziani di diverse nazionalità. Alcuni gruppi locali hanno accusato l'ADF di aver compiuto attacchi che hanno causato la morte di oltre 1.500 persone e 800 rapimenti negli ultimi 5 anni.
L'ADF, dal canto suo, non ha mai dichiarato un'alleanza con Daesh, ma quest'ultimo, aveva definito l'ADF il loro primo alleato nella "provincia centro-africana" del Califfato.

Dopo lunedì 25, esasperate dal fallimento delle forze di sicurezza nel fermare gli attentati, decine di persone hanno preso d'assalto la sede di Beni della missione dell'ONU. Accusando i "caschi blu" di aver assistito passivamente alle uccisioni, la protesta si è trasformata in un scontro.

Violento.

La dinamica di quello che è successo non è molto chiara, ma la maggior parte dei giornali locali scrive che inizialmente sono intervenute le forze governative che hanno cercato di difendere la folla, ma inutilmente; e che successivamente sono intervenute le forze delle Nazioni Unite che avrebbero cercato di "difendersi" e di impedire ai manifestanti di entrare nella struttura, che è stata parzialmente incendiata.


Il capo operazioni di pace #NazioniUnite visita Beni








Il segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite, Jean-Pierre Lacroix è arrivato oggi, sabato 30 novembre, qui a Beni dopo la mattanza di civili (100) massacrati da gruppi armati il 5 novembre.
La visita del vice segretario responsabile delle operazioni di mantenimento della pace a Beni, una base civile della Missione delle Nazioni Unite in Congo (MONUSCO), saccheggiata lunedì scorso dai manifestanti. Incontrerà anche personale dell'esercito congolese e le autorità locali, ha aggiunto il portavoce di Monusco.
(Fonte.:afp;jeuneafrique;ilpost;lejournalafrique)
Bob Fabiani
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-www.afp.fr/afrique;
-www.jeuneafrique.com;
-www.ilpost.it;
-https://information.tv5monde.com/le-journal-afrique

venerdì 29 novembre 2019

#FridayForFuture, 4° sciopero globale: dall'Africa all'Oceania








Dopo le disastrose piogge torrenziali che hanno sconvolto molti paesi in tutto il Continente nero, causando morti e sfollati, i giovani africani, nel  sciopero globale contro i #cambiamenticlimatici, sono tornati a far sentire la loro voce.

In Uganda, flaggellata da alluvioni e distruzioni, gli attivisti non si sono fermati davanti al disastro causato da queste calamità naturali e sono scesi in piazza per pungolare il governo ugandese nella lotta ai cambiamenti climatici.
(Fonte.:africalandilmionuovoblog)
Bob Fabiani
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-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com     

giovedì 28 novembre 2019

#Regenifiles - FOTO DEL GIORNO







Seguirono Giulio per diversi mesi, spiandolo, tradendolo, catturandolo, trascinandolo, umiliandolo e torturandolo prima di ucciderlo...e più mani si macchiarano di questa infamia...sotto gli occhi di molti osservatori.

Chi sa parli ora...
(Fonte.:africalandilmionuovoblog)
Bob Fabiani
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-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com/foto-del-giorno/regeni-files

mercoledì 27 novembre 2019

1619, 400 Anni dopo l'inizio della schiavitù in America. Pt.2







Seconda pubblicazione di AfricaLand Storie e Culture africane dedicato al "tema della schiavitù" negli USA.

Sono passati ben 400 anni da quando, negli Stati Uniti, hanno fatto la loro comparsa i primi schiavi che arrivavano dall'Africa : sono stati i neri, con le loro battaglie per l'uguaglianza e per i diritti universali, a difendere gli ideali della costituzione statunitense e a trasformare il paese in una vera democrazia.

Il reportage, di cui oggi pubblichiamo la parte è la summa di un lungo articolo, di uno speciale pubblicato dal New York Times Magazine sull'eredità della schiavitù negli Stati Uniti. Il titolo scelto è 1619, l'anno in cui i primi schiavi africani furono comprati dai coloni britannici della Virginia, in Nordamerica.
(Bob Fabiani)


Ereditabile e permanente*


"Nel giugno del 1776 Thomas Jefferson si sedette al suo scrittorio portatile in una stanza di Filadelfia e annotò queste parole : "Noi riteniamo che siano per se stesse evidenti queste verità : che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà, e il perseguimento della felicità". Da 243 anni questa fiera affermazione del diritto naturale e findamentale degli esseri umani alla libertà e all'autogoverno definisce la nostra fama nel mondo come terra della libertà. Ma mentre Jefferson scriveva quelle parole, un ragazzo che non avrebbe goduto di nessuno di quei diritti aspettava accanto a lui gli ordini del padrone. Si chiamava Robert Hemings, ed era il fratellastro di Martha Jefferson, la moglie del politico americano. Il padre di Martha Jefferson aveva avuto Hemings da una donna nera di sua proprietà. Succedeva spesso che i padroni bianchi tenessero come schiavi i loro figli mulatti. Jefferson aveva scelto Hemings, uno dei circa 130 schiavi impiegati nel campo di lavoro forzato che chiamava Monticello, perché lo accompagnasse a Filadelfia e gli garantisse tutte le comodità mentre stilava il testo che segnava la nascita di una nuova repubblica democratica.
All'epoca un quinto della popolazione delle 13 colonie era vittima del più brutale sistema di schiavismo che fosse mai esistito. La schiavitù era legata esclusivamente all'appartenenza razziale. Non era temporanea ma ereditabile e permanente, nel senso che generazioni di neri nascevano schiavi e trasmettevano questa condizione ai loro discendenti. Gli schiavi non erano considerati esseri umani ma proprietà che potevano essere ipotecate, scambiate, comprate e vendute, usate come garanzia, regalate ed eliminate in modo violento.

Gli schiavi non potevano sposarsi legalmente. Non potevano imparare a leggere né riunirsi in privato. Non avevano nessun diritto sui loro figli, che potevano essere comprati e venduti alle aste insieme ai mobili e al bestiame o nei negozi con la scritta 'negri in vendita'. Gli schiavisti e i tribunali non riconoscevano i legami di parentela di madri, fratelli, cugini. Nella maggior parte dei tribunali gli schiavi non godevano di nessun diritto.  I padroni potevano violentare o assassinare le loro proprietà senza subire conseguenze. Gli schiavi non potevano possedere né ereditare niente.

La tortura era legalizzata, anche nella tenuta di Jefferson. Spesso gli schiavi morivano per troppo lavoro, per garantire il massimo profitto ai padroni".

*Nikole Hannah-Jones giornalista d'inchiesta statunitense. Per il New York Times segue i temi che riguardano le discriminazioni razziali, in particolare nel sistema scolastico

**Fine 2° Parte
(Fonte.:nytimes)
Bob Fabiani
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-www.nytimes.com

martedì 26 novembre 2019

Langston Hughes, versi poetici e d'identità 'black'










Langston Hughes (Joplin, Missouri, 1 febbraio 1901 - New York, 22 maggio 1967), poeta afroamericano.
E' stato poeta, scrittore, drammaturgo tra i maggiori della letteratura negro-americana. E' stato anche giornalista.

Nelle sue opere vibrano una profonda religiosità e un intenso impegno sociale. Esponente di punta dell'Harlem Renaissance, movimento artistico - culturale afroamericano verso l'inizio degli anni'20 del Novecento negli Stati Uniti


Versi di Giustizia*

Che Giustizia sia una dea cieca
E' una cosa che noi neri ormai sappiamo:
La sua benda cela due piaghe suppuranti
Che un tempo, forse, son state occhi.


*Justice, da The Panther and the lash, Knopf, New York 1967

(Fonte.:nytimes)
Bob Fabiani
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-www.nytimes.com


lunedì 25 novembre 2019

L'Africa orientale flagellata dalle alluvioni, centinaia di morti e migliaia di sfollati in #Kenya e #RDC








Pioggia battente non ha concesso alcuna tregua - nelle ultime settimane - in alcuni paesi dell'Africa orientale, continuando a mietere vittime e provocando ingenti danni.

In Kenya, una frana nella contea di West Poket, nell'ovest del paese, ha provocato almeno 52 morti e centinaia di sfollati. Ma il bilancio delle vittime potrebbero crescere ancora : infatti, le autorità keniote temono che altre vittime potrebbero essere ancora sepolte dal fango che ha spazzato via un intero villaggio.

I soccorsi sono resi estremamente difficili dagli smottamenti provocati dalla pioggia battente degli ultimi giorni che hanno gravemente danneggiato diverse strade, isolando la zona del disastro. Già a maggio le piogge avevano causato 47 morti per il cedimento della diga nella contea di Nakuru.

Ingentissimi danni e molte vittime anche nella Repubblica Democratica del Congo - scrivono reporter del @guardian. I media locali parlano di 25 morti nella provincia dell'Equatore. Altre 10 vengono segnalate dalla Caritas - Congo nella provincia del Nord Ubangi dove, dopo settimane di pioggia battente, almeno 180mila persone necessitano di aiuti umanitari urgenti. Altre decine di migliaia sono in condizioni critiche nella provincia del Sud Oubangi, che scorre verso la Repubblica Centrafricana gonfio di acqua.
Una dozzina di morti si segnalano nella provincia del Kesai.

Ci sono 50mila persone colpite dall'esondazione del fiume Congo nel Congo Brezzaville. I media locali parlano di alcune vittime.

Intanto il governo ha dichiarato lo stato d'emergenza.

Danni ingenti anche in Tanzania, dove almeno 10 persone sarebbero annegate in un fiume in piena.

Situazione d'emergenza anche in alcune zone dell'Etiopia, mentre in Somalia dove decine di migliaia di persone sono sfollate a causa di estesi allagamenti.
Anche il Sud Sudan continua l'ondata di piogge torrenziali che ha provocato estese alluvioni. Le organizzazioni umanitarie calcolano che almeno 1 milione di persone necessitano di aiuto urgente in diverse regioni, alcune, risultano isolate da diverse settimane.

Situazione grave anche in Sudan, dove il maltempo dura addirittura dal mese di settembre.
(Fonte.:theguardian)
Bob Fabiani
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-https://www.theguardian.com.uk/africa

domenica 24 novembre 2019

FOTO DEL GIORNO - Sorrisi d'infanzia malgascia








Ci sono sempre più bambini in Africa, in Madagascar, nel mondo e nella stessa Europa a cui è negato il diritto all'infanzia. Al sorriso. A una vita dignitosa : senza violenzasfruttamento, schiavitù.

Pubblichiamo questi sorrisi di bambini malgasci nella speraza che, al più presto questo stesso sorriso possa tornare sui volti dei bambini reclusi nella prigione di Antalaha.
(Fonte.:africalandilmionuovoblog)
Bob Fabiani
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-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com/foto-del-giorno

sabato 23 novembre 2019

Bambini malgasci in prigione accusati di aver rubato baccelli di vaniglia in Madagascar






Antalaha è una città di 30mila abitanti sorge al centro delle coltivazioni di vaniglia. Il prezioso nero baccello dal dolce profumo che ha trasformato questa parte del Madagascar - il Nordovest - come la più grande regione di coltivazione della preziosa spezia.
Negli ultimi anni, il valore di questa spezia è aumentato  in modo esponenziale raggiungendo i 600 dollari al chilogrammo (contro i 20 dollari di solo 5 anni fa).








Inchiesta - video di Pumza Fihlani, reporter sudafricana della Bbc


I bambini accusati di aver rubato baccelli di vaniglia in Madagascar possono passare quasi 3 anni nella prigione di Antalaha senza processo  un avvocato.

L'isola è il più grande produttore al mondo di baccelli di vaniglia dove si registra un'industria in forte espanzione, producendo aumenti di furti.




Le condizioni di detenzione in cui sono costretti a sottostare questi bambini - nel penitenziario di Antalaha che, in verità, per come appare nel video denuncia della @bbcafrique somiglia più ai lager libici; ci sono detenuti 180 bambini accusati di aver rubato la vaniglia - sono inquietanti e alcuni ricevono solo un pasto al giorno.

La reporter che firma questa inchiesta - video è Pumza Fihlani e lavora per la Bbc in Sud Africa : è andata a visitare la prigione di Antalaha a Sava, una delle più grandi regioni produttrici di vaniglia del Madagascar all'inizio di ottobre 2019.

Tuttavia, questi bambini, qualunque sia il reato commesso, non dovrebbero vivire in queste condizioni disperate. Il problema è che nella Grande Isola dalla Terra Rossa, rubare la vaniglia - spiega la giornalista sudafricana nel video Bbc - è considerato un "reato gravissimo" dalle autorità malgasce.
(Fonte.:bbcnews)
Bob Fabiani
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-https://www.bbc.com/news/world-africa-49885904/the-children-in-prision-for-stealing-vanilla-in-madagascar    

venerdì 22 novembre 2019

Almaas Elman, attivista per la giustizia sociale uccisa a Mogadiscio












AfricaLand Storie e Culture africane rende omaggio a una grande donna africana, Almaas Elman di nazionalità somala - canadese, era impegnata, con tutta se stessa, senza fermarsi mai, di giorno e di notte; per la giustizia sociale, per la Pace, per i diritti delle Donne e per la riabilitazione dei bambini - soldato, vittime inncenti dell'infinita, cruenta guerra civile in Somalia.

Questo omaggio è necessario dal momento che il prossimo #25N sarà la giornata contro la violenza delle donne in Africa come nel resto del mondo.

Almaas Elman, 30 anni è stata uccisa a Mogadiscio, capitale della Somalia : si occupava della fondazione Elman Peace fondata dal padre Elman Ali Ahmed, assassinato sempre a Mogadiscio nel 1996.

L'agguato

Uccisa con un proiettile alla testa mentre stava recandosi in aeroporto della capitale somala. Paradossalmente, questa parte di Mogadiscio, la fortezza di Halane è considerata tra le più sicure per via della presenza delle forze militari dell'Unione africana (UA).
La giovane pacifista è stata uccisa per il suo lavoro mentre si trovava a bordo di una macchina che la stava portando allo scalo dei voli internazionali di Mogadiscio. Tra l'altro, Almaas Elman era incinta e aveva appena partecipato ad un incontro con la delegazione europea qui in Somalia sulla resilienza delle comunità rurale del paese africano.

Le autorità somale d'accordo con il governo di Mogadiscio ha aperto un'indagine che però non convince più di tanto : qui in Somalia nessuno si fa troppe illusioni.

La fondazione Elman Peace - diretta dalla sorella Ilwaad, candidata all'ultimo Nobel per la Pace - non era vista di buon occhio né a Mogadiscio né nel resto della Somalia.

La storie e l'impegno di Almaas Elman era l'esempio più concreto di quanto, le donne africane stanno provando a riscrivere il copione della storia nel continente : una storia che parla di emancipazione. Questa era la ragione per cui era un instancabile attivista che credeva nella Pace e nella riconciliazione : il suo motto resta ancora oggi scolpito sui muri e risuona nelle parole degli attivisti somali : "Deponete le armi e prendete in mano una penna".

E' una perdita dolorosa quella di Almaas Elman, amata da tutti, e faceva parte di quella parte di società somala, giovane, coraggiosa, che crede in un futuro di bellezza, di Pace, senza la piaga degli attentati.

Ma la strada è lunga e la lotta per la Pace in questo paese del Corno d'Africa necessità dell'impegno di tutti, del resto, qui, imperversa da tempo immemore una drammatica guerra civile e, in perenne ostaggio dei miliziani jihadisti di #AlShaabab (gli stessi che detengono Silvia Romano, la cooperante italiana, rapita in Kenya, un anno fa, il 20 novembre 2018; n.d.t) che detestevano il lavoro di Almaas Elman : per questi miliziani jihadisti non è minimamente tollerabile che una donna possa essere a capo di fondazione e che si occupi a tempo pieno di giustizia sociale.

Finché l'Africa sarà alle prese con questa ondata oscurantista e finché non sarà realmente compiuta una emancipazione completa delle donne africane, il Continente sarà sempre condannato a vivere nella paura, povertà e privo dello sviluppo che favorisca una Pace duratura.
(Fonte.:focusafrica;aljazeera)
Bob Fabiani
Link
-http://www.focusonafrica.info;
-www.aljazeera.com/english   

giovedì 21 novembre 2019

RDC, la piaga del lavoro minorile (dal #RapportoAnnualeAmnesty)







La Repubblica Democratica del Congo ha purtroppo una lunga tradizione inerente a una delle piaghe orribili che funestano l'intero continente : la piaga del lavoro minorile - ultima notizia in ordine di tempo arriva dal Madagascar, lì, nella Grande Isola dalla Terra Rossa i bambini, sono costretti a lavorare nelle miniere MICA (e nei prossimi giorni pubblicheremo un #reportage su questa drammatica realtà, sempre qui su questo blog), ubicate nel Sud del paese, proprio come in Congo.


Il Rapporto Amnesty






Le ultime stime, in possesso agli attivisti, ricercatori, volontari dell'associazione Amnesty International, emerge un dato agghiaccianto : in RDC, i bambini impiegati nelle miniere del Sud sono circa 40mila.

Sono impegnati nelle cave e nelle miniere per estrarre cobalto, il prezioso minerale usato e utilizzato (dalle multinazionali che fanno capo all'ex potenze colonialiste) per produrre batterie per cellulari e altri dispositivi elettronici.
Si tratta, per questi bambini, di lavori effettuati in condizioni estreme  - si legge nel rapporto di Amnesty - e, molti di loro sono costretti in turni di 12 ore al giorno, privi di protezioni. Anche le piu elementari percependo salari da fame.

La condizione di questi bambini è quella di schiavi.

Lavorando in queste condizioni rischiano incidenti e spesso, se si ribellano sono soggetti a violenze. Picchiati e maltrattati dalle guardie della sicurezza che agiscono in combutta con proprietari delle miniere.

Sono bambini condannati alla schiavitù.

Contesto e mancanza di diritti umani (#RapportoAmnesty)

Nella Repubblica Democratica del Congo il rispetto dei Diritti Umani è peggiorata in modo esponenziale. Le cause sono molteplici e di lunga data.
In primis : la cosiddetta "questione del Kasai". Qui, in questa regione, divampa una cruenta guerra civile. Ha causato migliaia di morti e, almeno 1milione di sfollati interni che, si aggiungono, all'avanzare della crisi dei cambiamenti climatici, come recentemente è accaduto in Sud Sudan, letteralmente inghiottito da disastrose piogge torrenziali.
A causa di questo conflitto, sono stati costretti  - scrive ancora Amnesty - alla fuga almeno 35mila persone, emigrate, nella vicina Angola.

Nell'Est della Repubblica Democratica del Congo, imperversano vari gruppi armati : sia delle forze governative (accade anche nel Mali, Nigeria e in altre parti del continente) che da gruppi autonomi di rivoluzionari jihadisti. A farne le spese sono i civili. E' saccheggiato impunemente il territorio, sfruttando così, illegalmente, le risorse naturali.

(Scenario simile alla Libia e alla Somalia, nota aggiunta da AfricaLand Storie e Culture africane n.d.t).

In questo quadro, oltre a saltare il rispetto dei Diritti Umani, vengono calpestati e disattesi i Diritti alla Libertà d'espressione, all'associazione e riunione pacifica. I difensori dei Diritti Umani e i giornalisti sono stati vittime di vessazioni, intimidazioni, arresti arbitrari e omicidi.

(Come accade in Eritrea e in Tanzania e nell'Egitto del presidente-dittatore Al Sisi, nota aggiunta da AfricaLand Storie e Culture africane, n.d.t).

Ultima questione : in RDC si è consumato anche il "conflitto del Kivu", iniziato nel 2004 e terminato nel 2008, ha lasciato ferite profonde mai risanate.
Nel 2004-2008, si aprì una grave crisi tra governo e i ribelli di Laurent Nkunda nel Nord e nel Sud del Kivu.

Il 25 novembre 2008, l'Osservatorio per i Diritti Umani accusava, l'ex presidente Joseph Kabila di aver soppresso più di 500 oppositori politici, in meno di due anni.

Tutte queste crisi, non fanno altro che alimentare e rafforzare il sistema neoliberista - vero volano - per la piaga del lavoro minorile in Congo.

L'appello Amnesty alle autorità del Congo

"Signor Presidente (dal 2018 è Felix Tshisekedi),
le scrivo come sostenitore di Amnesty International, l'organizzazione non governativa che dal 1961 lavora in difesa dei Diritti Umani. Il lavoro minorile e altre violazioni dei Diritti Umani hanno macchiato l'industria mineraria per troppo tempo. La invito a rimuovere i bambini dalle miniere artigianali e a mettere in atto misure per affrrontare la salute dei bambini, i loro bisogni fisici, educativi, economici e psicologici. 
Grazie per al'attenzione".

AfricaLand Storie e Culture africane invita tutti i lettori di questo blog a sottoscrivere, firmare (è possibile falo dal sito di Amnesty; n.d.t) questo appello al quale abbiamo aderito.

La buona notizia di Amnesty International

Il costante lavoro di ricercatori, attivisti, volontari di Amnesty ha prodotto una buona notizia : "Entro il 2025 niente più bambini nelle miniere RDC".
(Fonte.:amnesty;africalandilmionuovoblog)
Bob Fabiani
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-www.amnesty.it;
-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com
   

mercoledì 20 novembre 2019

Ingrid Jonker, versi poetici contro l'apartheid (in Sudafrica)








Ingrid Jonker (19 settembre 1933 - 19 luglio 1965), poetessa sudafricana, nata a Douglas, nel Capo Settentrionale. Ha iniziato a scrivere poesie all'età di 6 anni e, a 16 anni iniziò una corrispondenza con DJ Opperman, uno scrittore e poeta sudafricano che  influenzò moltissimo tutta la sua produzione.
Pur scrivendo in afrikaneer - la lingua degli oppressori boeri - ha saputo scrivere contro la dittatura della minoranza binca che ha tenuto sotto scacco e nel terrore il Sudafrica per decenni.

Durante gli anni bui del regime dell'apartheid assistette all'uccisione di un bambino nero - fu durante il massacro di Sharpeville - giustiziato dai militari bianchi morendo tra le braccia di sua madre.
Questo evento tragico la sconvolse e la indusse a scrivere versi di denuncia contro l'apartheid. Ma non si riprese e, la notte del 19 luglio 1965 - cinque anni dopo il massacro di Sharpeville - scese nella spiaggia di Three Anchor Bay a Cape Town, entrò in mare e si suicidò annegando.

"Il bambino non è morto,
il bambino solleva i pugni verso la madre
che grida Africa! (...)
Il bambino non è morto,
non a Langa e neanche a Nyanga
né a Orlando né a Sharpeville,
né al posto di polizia di Philippi
dove giace con una pallottola nel cervello. (...)

Il bambino è presente
a tutte le assemblee e alle udienze,
il bambino sbircia tra le finestre delle case
e nei cuori delle madri,
questo bambino che voleva soltanto
giocare nel sole a Nyanga è dovunque,
il bambino diventato uomo viaggia in tutta l'Africa,
il bambino diventato gigante viaggia in tutto il mondo

senza lasciapassare".








Nelson Mandela rende omaggio a Ingrid Jonker nel Discorso sullo stato della nazione, Palazzo del Parlamento, Cape Town, 24 maggio 1994







Quel 24 maggio 1994, Nelson Mandela parlando a tutto il Sudafrica dal Parlamento rese omaggio alla poetessa.

Ecco le parole di Madiba.

"Le certezze che arrivano con l'età mi dicono che tra questi troveremo una donna afrikaner che, trascendendo la sua vita individuale, è diventata sudafricana, un'africana e una cittadina del mondo. Il suo nome è Ingrid Jonker. Era una poetessa e una sudafricana. Era afrikaner e africana. Era un'artista e un essere umano. In mezzo alla disperazione, lei ha esaltato la speranza. Dinanzi alla morte, ha affermato la bellezza della vita. Nei giorni oscuri in cui tutto sembrava senza speranza in questo paese, quando nessuno volle ascoltare la sua voce vibrante, lei si tolse la vita.
Con lei e con altri come lei noi siamo in debito della vita stessa. A lei e ad altri come lei dobbiamo il nostro impegno verso i poveri, gli oppressi, i diseredati e i miserabili. All'indomani del massacro di Sharpeville, compiuto durante la manifestazione contro le Pass Law*, lei scrisse questi versi".

*Pass Law : era la legge odiosa secondo la quale i neri del Sudafrica per potersi muovere a Cape Town, a Soweto, a Orlando e nel resto del paese necessitavano di un "passi" che, naturalmente, il regime dell'apartheid non riconosceva alla maggioranza dei cittadini sudafricani neri.

**Bibliografia : Il passo dell'intervento di Nelson Mandela del 1994 è tratto da La sfida della Libertà. Come nasce una democrazia - Nelson Mndela e Mandla Langa; Feltrinelli

(Fonte.:jeuneafrique;africalandilmionuovoblog)
Bob Fabiani
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-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com/scrittori-d-africa     

martedì 19 novembre 2019

Tribunale USA ordina l'arresto di Haftar









La notizia è rimbalzata dall'altra parte dell'oceano a tarda ora nella serata di ieri : c'è un giudice negli Stati Uniti che vuole arrestare Khalifa Haftar, il "signore della guerra".

Cerchiamo di capire meglio questa notizia, per certi versi incredibile.

Il tribunale dello Stato della Virginia ha emesso un mandato d'arresto per il maresciallo Haftar, luomo forte della Cirenaica, ex ufficiale delle Forze armate libiche e capo della milizia che dall'aprile del 2019 assedia Tripoli, la capitale della Libia.

Scatenando di fatto l'ennesima guerra civile che ha già fatto migliaia di vittime civili.

Ma è possibile questo arresto? Gli Stati Uniti possono chiedere un mandato d'arresto internazionale?

Si possono farlo dal momento che Haftar ha la doppia nazionalità, libica e statunitense, ed è in base a questo che il tribunale USA è potuto intervenire direttamente, dopo un'indagine sui suoi crimini di guerra.
Le accuse sono relative all'uccisione indiscriminata di civili durante i bombardamenti della capitale Tripoli.
La denuncia contro il generale Haftar era stata presentata in Virginia da quattro famiglie di cittadini libici uccisi a Tripoli : nella denuncia, i libici sostengono di agire per alcuni dei 1000 civili uccisi durante una fase  dell'assedio alla capitale libica.

Il Congresso degli Stati Uniti aveva già evocato la possibilità di un'inchiesta giudiziaria se fossero emersi altri particolari su possibili crimini di guerra commessi a partire dal 2014.

Venerdì scorso invece il Dipartimento di Stato di Washington ha emesso il primo comunicato in cui chiede al generale di fermare i suoi attacchi militari in Tripolitania. Il comunicato è arrivato dopo mesi di sostegno ad Haftar direttamente dal presidente americano Donald Trump.

Mentre il Dipartimento di Stato e Pentagono avvertivano dei pericoli che arrivavano da Haftar per la stabilità della Libia, Trump ascoltava i suggerimenti del presidente - dittatore egiziano Al Sisi e degli sceicchi degli Emirati Arabi.

Cosa sta succedendo dunque sul campo nel pantano libico?

Normali riposizionamenti anche da parte dei due paesi che sono tra i maggiori sponsor di Haftar (anche e sopratutto nel far arrivare alla milizia del generale ogni genere di armi) contro il governo di Tripoli.
Il problema però sono le stragi di civili sempre più numerose che avvengono a intervalli regolari ma, sopratutto, la plateale presenza in Libia di mercenari russi.

L'embargo violato

All'inizio di ottobre duecento mercenari dell'azienda russa Wagner sono arrivati a Tripoli per affiancare le forze del comandante ribelle Khalifa Haftar, hanno rivelato fonti dell'intelligence statunitense al New York Times. Secondo quanto risulta al quotidiano della Grande Mela, la Russia starebbe aiutando Haftar a rilanciare l'offensiva sulla capitale libica, in fase di stallo, anche fornendogli artiglieria, fucili di precisioni e droni.

Bozza ONU

Il sito di Al Jazeera è riuscito a ottenere un rapporto scottante, a firma ONU, in cui si legge che alcuni paesi - tra questi Emirati Arabi, Sudan, Turchia e Giordania - starebbero violando l'embargo sulle armi in Libia.
A proposito del Sudan, nello scorso mese di luglio avrebbe inviato mille agenti del Forze di supporto rapido a sostegno di Haftar.

Ultimora

Il quotidiano in lingua inglese The Libya Observer rilancia la notizia di una ennesimo attacco delle milizie di Haftar : in questo attacco risultano 13 feriti civili avvenuta a Misurata.
(Fonte.:nytimes;aljazeera;libyaobserver)
Bob Fabiani
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-www.nytimes.com;
-www.aljazeera.com/english;
-www.libyaobserver.ly 

lunedì 18 novembre 2019

FOTO DEL GIORNO - #SudSudan travolto dalle piogge torrenziali





Le piogge torrenziali in Sud Sudan hanno letteralmente inghiottito interi villaggi conseguenza drammatica dei cambiamenti climatici, sempre più estremi in tutta l'Africa.

L'alluvione ha colpito circa 1 milione di persone che, da un momento all'altro si sono ritrovati senza più casa e in balia dell'acqua e, tra loro, ci sono circa 490 mila bambini.

Le autorità hanno decretato lo stato d'emergenza.
(Fonte.:afp)
Bob Fabiani
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-www.afp.fr    

domenica 17 novembre 2019

#GiletJaunes: Un anno di collera con la stessa rabbia







Un anno e 53 sabati dopo, la Francia scopre che, in questo autunno di declino e di problemi sociali ben marcati, i #GiletJaunes non scompariranno nel nulla. Nonostante l'anniversario di ieri, 16 novembre  - e replicato in questa domenica 17 novembre -  contraddistinto da 270 cortei in tutto il paese transalpino per ricordare l'inizio della protesta e, 39.500 manifestanti, la partecipazione è in netto calo rispetto a un anno fa, 17 novembre 2018 quando, i #GiletJaunes erano stati 282mila.

Eppure il movimento non è in ritirata e continua a essere temuto dalle autorità francesi se, anche ieri, si sono visti e registrati gravi abusi di potere nell'ambito di una repressione sistematica e violenta che, tuttavia, non è mai abbastanza sottolineata né condannata dai media francesi, europei senza tralasciare il colpevole e inquietante silenzio delle istituzioni di Bruxelles. Discorso diverso, ovviamente se, si deve sottolineare le azioni di rappresaglia che hanno visto coinvolti gli attivisti e manifestanti. E' accaduto anche ieri : del resto, il governo francese e lo stesso presidente Macron hanno tutto l'interesse a oscurare le motivazioni della protesta che, inevitabilmentesono state messe da parte e in secondo piano da episodi di violenza, in particolare in Place d'Italie, a Parigi (ma tensioni si sono registrate alla Bastiglia nel primo pomeriggio, alle Halles in serata, oltre a Lione, Nantes, Tolosa, Bordeaux n.d.t).

In tutto saranno stati cento violenti e a Place d'Italie hanno catturato l'attenzione per tutta la giornata.

Le giacche e i passamontagna neri erano molto più numerosi dei gilet gialli ma, a nostro avviso questo spiega anche con la dura repressione che è in atto in tutta la Francia e puntualmente denunciato da questo blog, ogni volta che ci siamo occupati di questo complesso e articolato movimento sociale, per altro il più importante degli ultimi decenni qui in Francia.

Il prefetto di Parigi vieta la manifestazione

Quello che è accaduto in questo anno in Francia dovrebbe inquietare tutti coloro che hanno a cuore lo stato di diritto e del dissenso - che a ben vedere sono il sale della democrazia ma che ormai è in crisi irreversibile qui come altrove nel Vecchio Continente -.

Prendendo a spunto degli scontri di Place d'Italie, il prefetto di Parigi, David Lallement, ha deciso la proibizione della manifestazione che avrebbe dovuto partire dal XIII arrondissement e arrivare nel X.
Il prefetto ha usato il pugno di ferro : "Nessuno resterà impunito". Peccato però che lo stesso prefetto non abbia mai speso simili parole quando a macchiarsi di violenze e abusi sono gli agenti francesi.

In un'altra epoca, tutto questo non sarebbe passato sotto silenzio. Al tempo della controinformazione, la repressione durissima messa in atto contro gli attivisi del movimento. Oggi, tutto è demandato ai social ma le denunce di questi abusi non sono riusciti a creare quell'interesse che servirebbe per fare in modo che, pre esempio, il presidente Macron rispondesse dell'operato delle forze dell'ordine.

Bilancio del 53esimo sabato consecutivo di proteste

I dati di fine pomeriggio annunciano 105 fermi e 1.497 controlli preventivi. La giornata di ieri, nel resto della Francia, a parte momenti di tensioni simili a Parigi, c'è stato un ritorno nei ronds-points, occupazione che era stata il punto di inizio del movimento un anno fa.

La Partecipazione

Il movimento ha registrato una partecipazione in calo, tra gli attivisti c'è scoramento e scoraggiamento, la violenza e la repressione fanno paura. Tuttavia, i motivi della protesta restano. Cambia solo lo slogan. Mentre un anno fa il più gettonato era "Macron dimissioni" ora, lo sguardo va oltre i confini : "Da Santiago a Hong Kong euguale lotta".

Non si tratta solo di slogan però.

La Francia resta in agitazione. Giovedì scorso c'è stata la grande manifestazione del personale degli ospedali pubblici ( a riguardo, nei prossimi giorni pubblicheremo un'inchiesta scottante : "La Francia vuole dismettere gli ospedali pubblici?" ). Gli studenti - malgrado siano stati tra i primi a subire la durissima repressione della polizia transalpina - sono a loro volta in agitazione in alcune università dopo il drmma dello studente che si è immolato con il fuoco di fronte al Crous (opera universitaria) a Lione 2.
Il 5 dicembre sarà sciopero nei trasporti (treni e metro) contro la riforma delle pensioni.

Al momento ogni categoria sta seguendo una strada autonoma mentre, nei #GiletJaunes coesistono motivazioni differenti. Eppure proprio la nascita, dodici mesi fa, del movimento, aveva veicolato la base comune del malessere diffuso tra i cittadini : un anno dopo è ancora attuale nella domanda di servizi pubblici che funzionino e la presenza dello Stato che però si ritira di fronte all'avanzata del mercato e delle sue leggi che finiscono per schiacciare i più deboli.

La risposta di Macron 

Il presidente ha cercato risposte tampone con le quali sperava di disarcionare il movimento. Qualcosa ha ottenuto : il calo dei partecipasnti nei sabati di lotta. Ma ha dovuto anche concedere qualcosa. Inizialmente, ha dovuto aprire i cordoni della borsa, 17 miliardi (in tre anni) per rispondere alla richiesta di un "maggiore potere d'acquisto", passando per una riduzione delle tasse.
Da subito aveva dovuto rinunciare alla carbon tax nonché la riduzione a 80 Km all'ora sulle strade provinciali, tra le gocce che avevano fatto traboccare il vaso e favorito la protesta di un anno fa.
Nei primi mesi del 2019, Macron, ha tirato fuori il classico jolly, ossia il gran débat, strumento con il quale intendeva spegnere il fuoco della protesta. Oggi è in corso la "convenzione sul clima", con 150 cittadini tirati a sorte, per dibattere e proporre soluzioni per la transizione climatica ( e la compatibilità con l'economia n.d.t). 

Intanto è stato nuovamente tirato in ballo il referendum popolare (è in atto la racvcolta di firme utili per bloccare la privatizzazione degli aeroporti di Parigi n.d.t).

Lo scontento resta, per molti francesi "nulla è cambiato" sul fronte sociale : le difficoltà per sostenere una vita dignitosa restano drammaticamente immutate.

Nel frattempo, restano i dati della repressione dell'"anno 1" dei #GiletJaunes : 3.100 condanne (600 al carcere), 2.448 feriti, dei mutilati (più di 20 persone hanno perso un occhio, 5 la mano). Forse varrebbe la pena di soffermarsi su questi numeri prima di censurare, a priori, la svolta autoritaria e da Stato di polizia voluta e ordinata da Macron.
(Fonte.:afp)
Bob Fabiani
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-www.afp.fr 

 



sabato 16 novembre 2019

#GiletJaunes, un anno di lotta interrotta






Il movimento dei #GiletJaunes, iniziato nel 2018  - per l'esattezza il 17 novembre  - , prosegue le sue azioni, nonostante una partecipazione variabile. Ma a parte questo, ci sono dei motivi precisi che spiegano il più longevo movimento sociale francese degli ultimi decenni.

E' sintomatico rilevare come i media si siano coalizzati  - a volte si ha l'impressione che questi media siano il 'megafono' dell'Eliseo  - nel raccontare il movimento, omettendo, censurando quanto di drammatico, è avvenuto in questo ultimo anno in Francia.

Perché dunque si fa a gara a ridimensionare i #GiletJaunes?

La spiegazione sta nelle rivendicazioni alle lotte degli attivisti : non si vuole ammettere che questo movimento, attraverso le proteste settimanali  (il sabato), da solo, ha messo in crisi le politiche di Macron e del capitalismo morente.

Inizialmente, i francesi, sull'esempio di quanto stava avvenendo già da qualche settimana a La Reunion - l'isola che si trova in territorio africano e situata non lontana dal Madagascar, e a tutti gli effetti territorio francese - erano decisi a difendere il potere d'acquisto, mano a mano, settimana dopo settimana, sabato dopo sabato, si sono aggiunte altre cause. Sono entrate a pieno titolo tra le rivendicazioni dei #GiletJaunes, l'ambiente, la lotta contro le violenze poliziesche - le stesse che i media, non solo francesi, fanno finta che non esistano e, finendo per raccontare una "narrazione a senso unico" come se, la violenza fosse solo quella prodotta dagli attivisti - , il referendum di iniziativa popolare.

In questo lungo anno, la Francia, ha più volte rischiato di finire nel baratro, visto la destabilizzazione del potere e la sbandata autoritaria dell'Eliseo.

Bisognerebbe avere il coraggio di analizzare i fatti in modo costruttivo e non invece, da posizioni reazionarie, azionando, il potente megafono negazionista. Ma questi sono i tempi : nessuno ha più voglia di analizzare il contesto ma, al contrario, si fa a gara per "parlare alla pancia" del resto dei cittadini.

In calo

Mano a mano che le manifestazioni si susseguivano era inevitabile che il numero di chi protesta sia sceso. Nessuno può negare che lo stesso movimento sia calato eppure, per i media sembra come se i #GiletJaunes stiano in piaxxa per caso.

L'#Act53

E invece, nonostante tutto, le manifestazioni sono arrivati alla 53esimo sabato di proteste e non accennano a fermarsi.
Il bilancio dell'#Act53 è pesante :. A metà giornata erano 105 coloro che hanno subito il 'fermo preventivo' da parte delle forze dell'ordine che, intanto, hanno usato nuovamente lo strumento della repressione.
(Fonte.:afp)
Bob Fabiani
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-www.afp.fr  

venerdì 15 novembre 2019

Donne malgasce in marcia - FOTO DEL GIORNO








La FOTO DEL GIORNO di AfricaLand Storie e Culture africane oggi è dedicata alle donne malgasce. Le nuove generazioni di ragazze e giovani donne, nella Grande Isola della Terra Rossa, sono sempre più decise a partecipare alla vita sociale e politica del Madagascar.
Tuttavia, la strada per il riconoscimento e il rispetto dei diritti umani in Madagascar è ancora lungo ma, come abbiamo scritto spesso sulle pagine di questo blog, il cambiamento di cui ha bisogno l'Africa passa inevitabilmento dall'emancipazione della donna malgascia.
(Fonte.:africalandilmionuovoblog)
Bob Fabiani
-https:africalandilmionuovoblog.blogspot.com

giovedì 14 novembre 2019

Madagascar, Putin e la Russia tentarono di "orientare le Presidenziali 2018 (#mada2018)?










La notizia aleggiva nell'aria della Grande Isola dalla Terra Rossa già da molti mesi. Si tratta di una quelle notizie destinate a produrre molto rumore. Vladimir Putin e, con lui, la Russia, ha tentato di influenzare l'esito delle elezioni presidenziali in Madagascar?

Per rispondere a questa domada esplosiva, ha provveduto il New York Times che, pare non avere dubbi al riguardo e, anzi, per avvalorare questa tesi, ha prodotto una serie di documenti e testimonianze.

Tuttavia, è bene chiarirlo subito, l'influenza russa non è riuscita nell'impresa dal momento che l'esito finale, non è quello desiderato da Mosca.

In un articolo datato 12 novembre, il NYT pubblica le rivelazioni sul ruolo svolto dalla Russia durante le ultime elezioni presidenziali in Madagascar tenutasi tra novembre e dicembre 2018 con tanto di ballottaggio.

Nell'articolo si parla, senza mezzi termini, del tentativo da parte di Mosca di influenzare le presidenziali, sostenendo dapprima la compagine del presidente in carica Hery Rajaonarimampianina, prima di tentare un riposizionamento a favore del suo successore, Andry Rajoelina.

Il NYT, scrive, che questa operazione di interferenza è stata decisa durante l'incontro a Mosca tra il presidente Putin e il suo omologo malgascio di allora, il presidente Hery Rajaonarimampianina, diversi mesi prima dell'appuntamento presidenziale. Anche Yeugeny Pzigozhin, uomo d'affari vicino a Vladimir Putin, ha partecipato alla riunione. Incriminato negli USA per sospetto di interferenza e manipolazione durante la campagna per le Presidenziali di #USA2016 (#RussiaGate), contro Hillary Clinton e in favore di #TheDonald, quest'ultimo (Yeugeny Pzigozhin) avrebbe focalizzato la "mission russa" - secondo il NYT - di orientare l'esito delle presidenziali malgasce.


Un "progetto riservato"


Il quotidiano della "Grande Mela" cita l'esistenza di una lettera scritta da Hery Rajaonarimampianina, indirizzata a un intermediario russo, Oleg Vasilyevich Zakhariyash.
La lettera aveva un titolo particolare : "progetto confidenziale", il presidente malgascio, ha chiesto alla Russia di aiutarlo a "resistere ai tentativi delle istituzioni internazionali di interferire" sulle elezioni in Madagascar.

L'UE, è stata tirata in ballo direttamente, dal momento che fu inviata da Bruxelles, una missione elettorale per osservare l'andamento delle elezioni malgasce.

L'inchiesta del New York Times riporta il tentativo dei russi di replicare la "gioiosa macchina da guerra", targata Mosca, all'ombra della capitale della Grande Isola dalla Terra Rossa, lanciando una massiccia campagna social, nel tentativo di spingere i candidati minori a dividere  l'opposizione.

Nel mese di agosto 2018, Pzigozhin e la sua famiglia avrebbero finanziato e organizzato un forum che riuniva i piccoli candidati al Carlton di Antananarivo (la capitale dell'isola) sul tema "Madagascar e paesi africani : l'immagine del futuro", dove, l'intento era quello del "patrimonio coloniale del Madagascar".

Il leader della setta Apokalipsy, scrive il NYT, il pastore Maihol, presente al forum, ammette candidamente di essere stato apertamente avvicinato dai russi.

"Se hai bisogno di soldi, pagheremo tutte le spese", dissero i russi.

Il pastore Maihol, il "migliore" dei piccoli candidati sostenuti dai russi, otterrà solamente un deludente 1,27% dei voti, senza incidere più di tanto sulla performance dell'opposizione malgascia, nel primo turno.
Durante lo svolgimento della campagna elettorale, Rajoelina, colui che vincerà le Presidenziali 2018, ha ripetutamente denunciato l'interferenza russa per influenzare le intenzioni di voto del popolo malgascio, sostenendo tra l'altro, di aver sempre rifiutato l'aiuto diretto di Mosca per conquistare la poltrona presidenziale di Antananarivo.

Facebook, lo scorso 30 ottobre, ha annunciato di aver smantellato un'importante operazione di disinformazione russa destinata a diversi paesi africani, tra cui il Madagascar. Vladimir Putin, ha sempre negato di aver tentato di influenzare i processi elettorali del continente : ma il NYT non sembra credergli più di tanto.
(Fonte.:nyt;jeuneafrique)
Bob Fabiani
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-www.nytimes.com;
-www.jeuneafrique.com 



mercoledì 13 novembre 2019

Quei fallimenti nella lotta contro i jihadisti nel #Sahel








Gli attacchi terroristici in #Mali alimentano l'ostilità verso i soldati stranieri presenti nel paese, accusati di non fare nulla per proteggere la popolazione.
La situazione è esplosiva in Mali, più passa il tempo e più dalle parti di Bamako - e nel resto del paese - si assiste,impotenti, all'offensiva stragista dei miliziani jihadisti di Daesh.

Gli attacchi terroristici in Mali del 1 e 2 novembre 2019 sono stati rivendicati da Daesh - che, in questa parte di Africa si fa chiamare gruppo Stato islamico nel grande Sahara (Isgs) - , "a differenza di tutti i precedenti attentati rimasti anonimi ai danni delle forze maliane e burkinabé", scrivono i reporter del quotidiano Aujourd'hui au Faso; l'Isgs è guidato da Adnan Abu Walid al Sahrawi, che nel 2015 dichiarò fedeltà al gruppo Stato islamico (Is) di Abu Bakr al Baghdadi.

Il gruppo inizialmente era attivo nell'ovest del Niger e nel nordest del Mali, ma ha condotto attacchi anche in Burkina Faso. "L'uccisione di Al Baghdadi il 26 ottobre 2019 non poteva non provocare ripercussioni in occidente, in America o in Africa.

Questo però era un disastro annunciato.

La Francia, non ha potuto fare granché contro i jihadisti e ora riportare ordine e democrazia, appare un'impresa disperata.

Il 30 settembre l'esercito maliano ha subito gravi perdite quando alcuni miliziani jihadisti hanno attaccato le basi militari di Boulkessy e Mondoro, vicino al confine con il Burkina Faso.

Sembrano inarrestabili e invincibili : con questo modo di agire stanno impartendo una dura lezione ai francesi che nonostante le ingenti quantità di soldati e armi, stanno condannando il Mali a un futuro incerto e di guerra civile.

A Parigi, cercano di avere un'atteggiamento dimesso, finendo col mostrare un certo cipiglio per assicurare e rassicurare l'opinione pubblica. Ma la realtà dei fatti è diversa : il Mali è costretto a convivere con i frequenti atacchi jihadisti.

Il fallimento è completo : la lotta contro i miliziani la stanno perdendo sia i francesi ma, sopratutto i civili.
(Fonte.:lemonde)
Bob Fabiani
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-www.lemonde.fr      

martedì 12 novembre 2019

1619, 400 Anni dopo l'inizio della schiavitù in America. Pt.1









AfricaLand Storie e Culture africane, con questo post inizia una serie di pubblicazioni dedicati al "tema della schiavitù" negli USA.

Sono passati ben 400 anni da quando, negli Stati Uniti, hanno fatto la loro comparsa i primi schiavi che arrivavano dall'Africa : sono stati i neri, con le loro battaglie per l'uguaglianza e per i diritti universali, a difendere gli ideali della costituzione statunitense e a trasformare il paese in una vera democrazia.

Il reportage che iniziamo a pubblicare oggi è la summa di un lungo articolo, di uno speciale pubblicato dal New York Times Magazine sull'eredità della schiavitù  negli Stati Uniti. Il titolo scelto è 1619, l'anno in cui i primi schiavi africani furono comprati dai coloni britannici della Virginia, in Nordamerica.
(Bob Fabiani)






La conquista dell'America*



"Mio padre faceva sempre sventolare una bandiera degli Stati Uniti nel nostro giardino. La vernice azzurra della casa a due piani era perennemente scrostata; la staccionata, la ringhiera delle scale e la porta d'ingresso, erano vecchie e rovinate, ma quella bandiera era sempre perfetta. Vivevamo in una casa isolata lungo il fiume, che nella nostra cittadina dell'Iowa divideva la zona dove vivevano i neri da quella dei bianchi. Sul bordo del prato, in cima a un'asta di alluminio, sventolava la bandiera, che mio padre sostituiva a ppena mostrava anche il minimo strappo.

Era nato da una famiglia di mezzadri in una piantagione bianca di Greenwood, nel Mississippi, dove i neri stavano piegati sulle piante di cotone dalle ore ancora buie del mattino alle ore già buie della sera, esattamente come avevano fatto i loro antenati schiavi fino a non molto tempo prima. Il Mississippi della giovinezza di mio padre era uno stato dove c'era la segregazione razziale e dove i neri, che erano quasi la maggioranza della popolazione, venivano sottomessi con incredibili atti di violenza. I bianchi del Mississippi linciavano più nerì di quelli di qualsiasi altro stato del paese, e i bianchi della contea di mio padre ne linciavano più di quelli di qualsiasi altra contea del Mississippi, spesso per "reati" come entrare in una stanza dove c'erano donne bianche, scontrarsi involontariamente con una ragazza bianca o cercare di fondare un sindacato.
La madre di mio padre, come tutte le persone nere di Greenwood, non poteva votare né entrare nella biblioteca pubblica. E non poteva fare un lavoro che non fosse nei campi di cotone o nelle case dei bianchi. Perciò negli anni quaranta prese i suoi pochi averi e i tre figli piccoli e si unì alla marea di neri del sud che fuggivano a nord. Scese dal treno delle ferrovie dell'Illinois a Waterloo, nell'Iowa, solo per rendersi conto che le speranze su una mitica terra promessa erano un'illusione e per accorgersi che la segregazione non finiva quando si usciva dal sud.

Trovò una casa in un quartiere della zona est della città abitato solo da neri. Trovò anche un lavoro, l'unico considerato adatto a una nera, come donna delle pulizie a casa di una famiglia di bianchi.
Anche mio padre cercò invano la terra promessa. Nel 1962, a 17 anni, si arruolò nell'esercito. Lo fece per sfuggire alla povertà ma anche per un altro motivo, comune a molti neri : sperava che, se lo avessero servito, forse un giorno il suo paese lo avrebbe trattato come un americano. Non andò così. Nell'esercito gli fu negata qualsiasi opportunità e le sue ambizioni furono soffocate. Fu congedato per motivi poco chiari e lavorò a servizio per il resto dei suoi giorni. Come tutti gli uomini e le donne della mia famiglia, credeva nel duro lavoro, ma come tutti gli uomini e le donne della mia famiglia non riuscì mai a fare carriera. Perciò da giovane pensavo che quella bandiera davanti a casa nostra non avesse senso. Come poteva quell'uomo, che aveva vissuto sulla sua pelle il razzismo contro i neri, essere fiero della bandiera statunitense? Non capivo il suo patriottismo. Anzi, mi metteva profondamente in imbarazzo.

A scuola avevo imparato che la bandiera non era veramente nostra, che la storia del nostro popolo era cominciata con la schiavitù e che noi afroamericani avevamo contribuito poco al successo di questa grande nazione. Sembrava che la cosa più vicina all'orgoglio culturale dei neri americani andasse cercata in un vago legame con l'Africa, un posto dove non eravamo mai stati. Che mio padre si sentisse onorato di essere americano mi sembrava un segno della sua umiliazione, della sua accettazione del fatto che eravamo subordinati.

Come molti giovani, pensavo di capire tutto, mentre in realtà capivo molto poco. Quando alzava la bandiera mio padre sapeva esattamente quello che faceva. Sapeva che il contributo del nostro popolo alla costruzione del paese più ricco e più potente del mondo era indelebile, che gli Stati Uniti senza di noi semplicemente non sarebbero esistiti.


Le fortune dei bianchi


Nell'agosto del 1619, appena dodici anni dopo che gli inglesi si erano insediati a Jamestown, in Virginia, un anno prima che i pellegrini puritani sbarcassero a Plymouth Rock e circa 157 anni prima che i coloni inglesi decidessero di fondare un loro paese rompendo i legami con la corona britannica, gli abitanti di Jamestown comprarono una trentina di schiavi africani dai pirati inglesi. I pirati li avevano rubati da una nave portoghese che li aveva trascinati via con la forza da quello che oggi è l'Angola. Gli uomini e le doinne che scesero a terra in quel mese di agosto segnarono l'inizio della schiavitù americana. Erano i primi dei 12,5 milioni di africani che furono rapiti e trasportati in catene dall'altra parte dell'oceano Atlantico nella più grande migrazione forzata di massa della storia prima della seconda guerra mondiale.
Quasi due milioni di persone morirono durante quel viaggio estenuante.

Gli africani venduti negli Stati Uniti prima dell'abolizione della tratta internazionale degli schiavi furono 400mila. Quelle persone e i loro discendenti trasformarono le terre su cui erano stati trascinati con la forza nelle colonie più ricche dell'impero britannico. Si spezzarono la schiena per disboscare tutta la regione del sudest. Insegnarono ai coloni a piantare il riso. Coltivarono e raccolsero il cotone che al culmine dello schiavismo era la merce più preziosa del paese, visto che in quel periodo gli Stati Uniti producevano il 66 per cento del cotone mondiale. Crearono le piantagioni dei padri fondatori degli Stati Uniti, tra cui George Washington, Thomas Jefferson e James Madison : enormi tenute che oggi attirano migliaia di visitatori affascinati dalla storia della più grande democrazia del mondo. Gettarono le fondamenta della Casa Bianca e del palazzo del congresso. Posarono le pesanti rotaie delle ferrovie che attraversano il sud e trasportavano il cotone fino alle fabbriche tessili del nord, alimentando la rivoluzione industriale. Costruirono vaste fortune per i bianchi del nord e del sud, tanto che a un certo punto il secondo uomo più ricco del paese era un mercante di schiavi del Rhode Island. I profitti del lavoro rubato ai neri aiutarono il paese appena nato a pagare i suoi debiti di guerra e finanziarono alcune delle sue università più prestigiose.
Lo schiavismo fece prosperare il settore bancario, assicurativo e commerciale di Wall street e trasformò New York nella capitale della finanza mondiale.
Ma sarebbe sbagliato parlare solo del contributo materiale dei neri per creare ricchezza. Gli americani neri sono stati, e continuano a essere, fondamentali per l'idea di libertà del paese. Più di qualsiasi altro gruppo  di persone, noi neri abbiamo svolto, generazionbe dopo generazione, un ruolo sottovalutato ma fondamentale : siamo stati noi a perfezionare la democrazia statunitense.
Gli Stati Uniti sono un paese fondato su un ideale e al tempo stesso su una menzogna. La dichiarazione d'indipendenza dalla corona britannica, ratificata il 4 luglio 1776, afferma che "tutti gli uomini sono creati uguali" e "dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili". Ma gli uomini bianchi che hanno scritto queste parole non credevano che valessero anche per centinaia di migliaia di neri che all'epoca costituivano un quinto della popolazione.
Eppure, anche se gli venivano negate libertà e giustizia, i neri avevano una fede cieca nel credo americano. Resistendo e protestando abbiamo aiutato il paese a essere all'altezza degli ideali su cui era fondato. E non lo abbiamo fatto solo per noi : le lotte per i diritti dei neri hanno aperto la strada alle lotte per altri diritti, compresi quelle delle donne, degli omosessuali, degli immigrati e dei disabili. Senza l'impegno coraggioso, idealistico e patriottico degli americani neri, molto probabilmente oggi gli Stati Uniti sarebbero una democrazia diversa, forse non sarebbero neanche una democrazia.
La prima persona a morire per questo paese durante la rivoluzione americana fu un nero che non era libero. Crispus Attucks era uno schiavo fuggiasco, ma diede la vita per una nazione che nel secolo seguente avrebbe negato la libertà al suo popolo. I neri sono stati in prima linea in tutte le guerre combattute dagli Stati Uniti, e oggi sono il gruppo più presente nell'esercito statunitense.

Mio padre, uno dei tanti neri che risposero alla chiamata del loro paese, sapeva una cosa che io avrei impiegato anni a capire : che per la storia americana il 1619 è importante quanto il 1776; che i neri americani sono i "padri fondatori" quanto lo sono gli uomini ritratti nelle statue a Washington. E che nessuno ha più diritto di noi a rivendicare quella bandiera".
*Nikole Hannah-Jones è una giornalista d'inchiesta statunitense. Per il New York Times segue i temi che riguardano le discriminazioni razziali, in particolare nel sistema scolastico.
**Fine Prima Parte
(Bob Fabiani)
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-www.nytimes.com





mercoledì 6 novembre 2019

L'appello di 11mila scienziati per combattere concretamente i #cambiamenticlimatici








All'indomani del ritiro ufficiale della Casa Bianca dalla #Cop21 (#AccordoParigi2015) voluto da #TheDonald e quando siamo in piena emergenza climatica del tutto ignorata, snobbada e irrisa dal presidente #USA, gli scienziati di tutto il mondo prendono carta e penna e scrivono un appello per ricordare ai politici, ai leader e, infine a tutti noi, cittadini che abitiamo questa Terra che, la situazione è davvero a un passo dal baratro. Il tempo è sempre più tiranno.

Vediamo un pò meglio cosa hanno scritto gli scienziati.


11Mila scienziati scrivono un appello sulla rivista BioScience



La Terra sta "affrontando un'emergenza climatica" così scrive la rivista Bioscience. La firma è di 11mila scienziati di 153 paesi, 260 dei quali italiani.

"Siamo scienziati e dobbiamo dire le cose come stanno : vanno incrementati i nostri sforzi pre preservare la vita del pianeta ed evitare indicibili sofferenze. Non si tratta solo dell'aumento delle temperature. I mali del pianeta mostrano almeno una trentina di segni vitali. Quando al vertice di Ginevra di 40 anni fa venne lanciato per la prima volta l'allarme sui cambiamenti climatici venne illustrato, per così dire, la genesi del clima si stava ammalando. Sono cresciuti i gas serra, la temperatura dei mari e gli eventi meteo estremi. E' diminuito il ghiaccio sia al Polo Nord che al Polo Sud. Mangiamo più carne, distruggiamo più alberi e viaggiamo spesso in aereo". E concludono "Nonostante 40 anni di discussioni e negoziati, abbiamo continuato con il nostro "business as usual", fallando nel mantenere ogni promessa. La crisi climatica è già qui e sta accelerando a un passo molto più rapido di quanto molti scienziati si aspettassero".
(Fonte.:nytimes)
Bob Fabiani
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-www.nytimes.com

martedì 5 novembre 2019

Trump annuncia l'uscita dall'#AccordoParigi2015 sul clima








La notizia era nell'aria da almeno un anno e, alla fine, #TheDonald, ha aspettato che si arrivasse a ridosso dell'inizio della campagna elettorale per le #Presidenziali2020 per presentare il documento d'uscita dall'accordo di Parigi 2015 sul clima.

Mentre 11mila scienziati scrivono un documento ufficiale, un vero e proprio appello rivolto ai leader della Terra per combattere i #cambiamenticlimatici, il presidente-razzista e più reazionario della storia degli USA, rilancia il suo mantra : la sua perenne ossessione, ossia, demolire tutte le leggi volute da Barack Obama.

Per #TheDonald non esiste nessun problema a causa dei #cambiamenticlimatici; non esiste nessuna emergenza climatica. Con questa mossa, #TheDonald fa capire che la sua campagna per la riconferma alla Casa Bianca sarà ancora più estremista della precedente e tutta incentrata contro il #ClimateChange.

Dopo la decisione di #TheDonald, gli USA sono l'unico grande paese - e tra l'atro uno di quelli che inquinano di più nel mondo dopo la Cina - ad essere fuori dagli accordi di Parigi.
(Fonte.:nytimes)
Bob Fabiani
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-www.nytimes.com   

lunedì 4 novembre 2019

#MemorandumItaliaLibia, le 6 domande senza risposta






Due giorni dopo la scadenza del "Memorandum Italia / Libia" che resterà in vigore per altri 3 anni iniziano a emergere una serie di quesiti che non hanno ricevuto risposta, né dal governo in carica né dagli esponenti che componevano l'esecutivo Gentiloni che firmò il Memorandum.

Prima di riportare i 6 quesiti ci concediamo una piccola riflessione : l'attuale governo italiano - detto "Conte bis" - era nato per porre rimedio alle derive reazionarie e dichiaratamente razziste del precedente ma, ha fallito su tutta la linea. La riprova si è avuta con il #MemorandumItaliaLibia : era chiaro che quell'accordo non doveva essere riconfermato se non altro perché, in questo modo, l'Italia si rende complice delle condizioni disumane dei lager libici che per altro contribuisce a sovvenzionare con soldi pubblici dei cittadini.
Il governo è andato dritto per la sua strada, non ha minimamente preso in considerazione gli appelli delle associazioni che si battono in favore dei diritti umani; si è limitato ad annunciare un laconico "cambiamento" dell'accordo senza per altro spiegare quali parti e sopratutto in che modo sarà cambiato.
Intanto la guardia costiera libica ha mandato un messaggio eloquente al governo di Roma : "L'accordo è nell'interesse dell'Italia tanto quanto della Libia, siamo le prime vittime delle migrazioni incontrollate nel Mediterraneo".

Quella stessa guardia costiera che è guidata, sostenuta dalle milizie che torturano, stuprano, schiavizzano i migranti.

Le 6 domande senza risposta


  1. Chi erano i membri della delegazione libica?
  2. Chi ha selezionato i componenti della delegazione?
  3. Chi ha fatto circolare la falsa notizia sui documenti di Bija?
  4. Qual è stato il programma della delegazione?
  5. Quali ministeri visitati. Quali funzionari ha incontrato? A che scopo?
  6. L'Italia potevanon sapere chi fosse Bija?



Brevi cenni di un trafficante a capo delle guardia costiera libica


Abdul Rahman Milan "Bija" è il classico "uomo dei misteri", 30 anni, è il cugino di Mohammed Koshalaf, capo della milizia Al Nasr, che gestisce i lager per migranti, i barconi ma sopratutto il petrolio.

Delegato del governo

A maggio 2017 mentre in occidente è già considerato un trafficante, Bija si presenta in Italia, con una dozzina di persone, a un vertice con le forze di polizia italiane in rappresentanza del governo lbico.

Comandante delle vedette


E' emerso chiaramente e in modo ufficiale che Bija è stato riconfermato Comandante della guardia costiera di Zawiya : in un primo momento è stato sospeso, era il 2018. Ma è durato poco, adesso, un anno dopo, è stato riconfermato nel suo incarico.
Per l'ONU e la comunità internazionale è un "pericoloso ricercato" ... e allora come è possibile che l'Italia abbia potuto rincofermare l'accordo con un simile personaggio?

L'unica spiegazione plausibile riconduce ai "superiori interessi nazionali", leggi il petrolio.
(Fonte.:avvenire)
Bob Fabiani
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-https://www.avvenire.it