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giovedì 31 maggio 2018

AfricaLand informa i lettori





Ai lettori,
AfricaLand e la redazione informano quanti frequentano queste pagine virtuali che per 'assoluta mancanza di tempo' le terza&quarta parte dell'inchiesta sulle motivazioni che portarono alla "morte violenta" di Martin Luther King verranno pubblicate nel mese di Giugno

sabato 26 maggio 2018

Were is Wael Abbas (Dov'è Wael Abbas)? #FreeWaelAbbas





La disumana dittatura di Al Sisi non abbassa mai la guardia. Anzi.
Nelle ultime settimane la stretta sugli attivisti e sui dissidenti è sempre più stringente come da ordine del Rais del Cairo. 

Si erano appena accesi i riflettori dell'occidente - e con eco più o meno forte anche in Italia - dell'arresto di Amal Fathy, l'attivista e moglie di Mohamed Lofty, ossia, il consulente legale della famiglia di Giulio Regeni che, nella notte di martedì scorso, è andato in onda l'arresto (direttamente nella sua abitazione) del blogger egiziano Wael Abbas.












-Il drammatico grido di denuncia del blogger egiziano






Martedì, 22 maggio 2018, Egitto, Africa

"Mi stanno arrestando" : con questo post su Facebook, Wael Abbas informa l'opinione pubblica egiziana del suo arresto.

Il blogger egiziano è uno dei più noti dell'intero mondo arabo, seguitissimo anche in Egitto e nel resto dell'Africa. Vincitore di innumerevoli e prestigiosi premi e collaboratore di testate internazionali. Nel grande paese africano questo è sufficiente per essere "attenzionato" dal Rais del Cairo e, nel caso di Abbas, si tratta come di un marchio impresso sulla pelle del blogger.

Perché Wael Abbas è da anni nel mirino della dittatura militare cairota (non esiste differenza tra un prima e un dopo 'Piazza Tahrir'; un prima e un dopo del 'Regime Mubarak' ; un prima e  un ... durante del 'Regime Al Sisi)?

Abbas è nel mirino (da anni) dei regimi cairoti in quanto testimone diretto della #Rivoluzione2011 quella che in occidente i media ribattezzarono (sbagliando) come #primaverearabe.
In realtà il blogger-giornalista da anni denuncia e rilancia la brutalità della zelante polizia, la repressione delle proteste, la corruzione di Stato sia al tempo di Mubarak sia al tempo di Al Sisi.




-Arrestato e bendato nell'abitazione del Cairo

Sono le 4 di un mattino africano quando, i poliziotti del Cairo fanno irruzione in casa del blogger come riporta l'Arab Network for Human Rights Information che aggiunge anche altri particolari dell'arresto: Abbas viene bendato, ammanettato e portato via con indosso ancora il pigiama in nun luogo sconosciuto.
Le forze dell'ordine provvedono a confiscare computer e telefono dal momento che, in passato i suoi visitatissimi profili Twitter e YouTube erano stati sospesi e, da molto tempo riceveva minacce esplicite e dirette.
Tuttavia i famigerati servizi egiziani non confermano l'arresto e, in questo modo le autorità, non rilasciano alcun dettaglio sulle accuse.








-Fonte anonima

Se le autorità hanno le bocche cucite, una fonte anonima conferma tutto sulle motivazioni che hanno portato all'arresto di Wael Abbas: diffusione di notizie false e appartenenza a gruppo fuorilegge. Si apprende anche della mancata autorizzazione a contattare un legale e, quindi, l'arresto di Wael Abbas è di fatto una sparizione forzata.




-Dov'è Wael Abbas?

Non appena si è sparsa la notizia di questo drammatico arresto-rapimento il resto del mondo si è mobilitato: sui social in migliaia hanno iniziato a chiedere il rilascio, con l'hashtag in arabo 'Dov'è Wael Abbas".



(Fonte.:arabnetworkforhumanrightsinformation;jeuneafrique;ilmanifesto;monde-diplomatique;internazionale;thenewyorkreviewofbooks)
Bob Fabiani
Link
-monde-diplomatique.fr;
-www.jeuneafrique.com
  

martedì 22 maggio 2018

#DAKART2018, l'Africa che cambia in nome dell'Arte e della Cultura






Ha aperto i battenti lo scorso 3 maggio la nuova, attesissima Biennale di Arte Contemporanea africana, in Senegal nella magnifica capitale, Dakar: l'appuntamento andrà avanti fino al 2 giugno.

Si tratta dell'appuntamento più importante del Continente Nero, arrivata alla 13/esima edizione conosciuta anche come: #DAKART.



Nella pulsante, stimolante capitale senegalese per rendere unica questa 13/esima edizione si sono dati appuntamento 75 artisti provenienti da 33 paesi di tutto il mondo.





"L'ora rossa" sarà il tema artistico dell'evento: in questo modo, l'edizione 2018 si svolgerà nello spirito, scultore, senegalese, Ousmane Sow scomparso dopo l'edizione 2017.




Il vento del cambiamento è sempre più visibile in tutta l'Africa seppure procede a passi lenti ma, costante (anche se nel cosiddetto "mondo civilizzato") seppure ignorato (per troppo tempo) in occidente.
Al di là di quanto non faccia 'notizia' l'Africa, in queste settimane a Dakar si respira una nuova consapevolezza tra tutti gli artisti africani che hanno portato le loro magnifiche performance di scultori, pittori, cantori della millenaria, antichissima cultura africana: i giovani artisti - e tra questi sopratutto le giovani artiste donne - sono sempre più convinti che le battaglie, le conquiste, i cambiamenti urgenti non possono essere raggiunti se, la 'migliore gioventù africana' continua a emigrare in Europa e in America. 





Il potente messaggio che arriva dalla capitale senegalese si basa sulla spinta dell'arte e della cultura africana ed è strettamente legata a una 'nuova consapevolezza' , la stessa contenuta nel Panafricanismo.

(Fonte.:biennaledakar;jeuneafrique;afrique.lepoint)
Bob Fabiani
Link
-biennaledakar.org;
-www.jeuneafrique.com/dakart-2018;
-afrique.lepoint.fr   

giovedì 17 maggio 2018

#MadagascarCrisis, L'opposizione radicale malgascia indebolisce il presidente





Nell'era in cui sembra inevitabilmente compromessa la democrazia come strumento di equità sociale e automaticamente "strumento di meritocrazia" per il cambiamento sempre più invocato da milioni di cittadini, il Madagascar a pochi mesi dalla tornata elettorale - l'elezione presidenziale e legislativa - il potere che detiene il destino del popolo malgascio per non lasciare la poltrona, lancia un pericoloso "guanto di sfida".

Se si getta un attento sguardo a ciò che sta accadendo in tutta l'Africa si assiste a un preoccupante "passo di lato" della qualità della democrazia in tutto il Continente.

La lista è lunga (e per motivi di spazio non è possibile elencarla qui in questa sede).

Il Madagascar si aggiunge a questa lista infinita: una sfilza di paesi africani in cui presunti leader - come abbiamo più volte riportato su questa pagine virtuali - si credono i padroni onnipotenti degli Stati che hanno l'onore e l'onere di guidare con discutibili equilibrismi che altro non sono se non "vulgate anti-democratiche" che rischiano di incendiare tutto il Continente nero, al Nord come al Centro-Africa come nell'Africa sub-sahariana.




Queste decisione scellerate portano alla reazione degli attivisti africani e dei cittadini come è accaduto nello scorso mese di aprile per le strade della capitale malgascia, Antananarivo.




Quando le autorità malgasce - tra queste anche il governo - hanno deciso di forzare le mani per introdurre le riforme delle regole elettorali (di fatto escludendo alcuni autorevoli esponenti dell'opposizione dalla corsa presidenziale), l'opinione pubblica malgascia si è data appuntamento per le strade della capitale per mandare un preciso messaggio alle stesse autorità: non è di questo che i malgasci hanno bisogno.
Paradossalmente, dalle parti di Antananarivo questa domanda pressante di cambiamento e di rafforzamento della qualità della democrazia è mal digerito. La qualità della democrazia significa mettere in campo più risorse per i diritti sociali in un contesto e in un paese dove, milioni di persone sono costrette a vivere di stenti.




Lo scorso 21 aprile 2018 la capitale malgascia è stata il teatro di alcune azioni delle forze armate della Grande Isola che hanno fatto sobbalzare sulla sedia molti osservatori (e forse la stessa Francia) : l'attuale presidente malgascio d'accordo con le altre autorità, ha deciso di mettere in campo una reazione muscolare che, non ha risparmiato neanche i militari.

A chi fa paura questa richiesta legittima del popolo malgascio sul fronte del cambiamento, un cambiamento che deve avvenire in tutti i settori della vita sociale dell'isola?

In quei giorni è così nato un nuovo movimento di protesta che, insieme alle opposizioni invoca le dimissioni del presidente che, imprudentemente, ha avallato queste pseudo-riforme costituzionali che non garantiscono la tenuta democratica del Madagascar.




Alcune settimane dopo quei cruenti scontri di aprile la situazione non è cambiata di molto. Seppure gli scontri tra manifestanti e agenti sono cessati, le posizioni restano distanti. Si è tentato di far partire una trattativa tra oppositori e leader governativi ma si è rivelata inconcludente.
In virtù di quest'impasse, l'opposizione malgascia non ha nessuna intenzione di sospendere le proteste anzi, quasi quotidianamente si ritrova in Place du 13 Mai, Antananarivo per rilanciare la proposta di dimissioni del presidente Hery Rajaonamampianina.




L'esponente dell'ONU, presente da diversi giorni sull'Isola dalla Terra Rossa boccia questa soluzione, bollandola come "posizione insostenibile".
Di fatto, in questo modo questa crisi politica ogni giorno che passa si avvita su stessa, rischiando di diventare esplosiva non più tardi delle prossime settimane.



Il Madagascar è sull'orlo del precipizio: pur di non accogliere le istanze di cambiamento di tutti i malgasci e, si preferisce avventurarsi in una "crisi al buio" che può favorire solo le élite e le varie istituzioni internazionali quali FMI - Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale, le solite istituzioni schierate al fianco di quel "Capitalismo morente" che, per praticare politiche d'austerità e inique ha bisogno, in Africa come altrove di "svolte autoritarie".


  


Quando mancano pochi mesi alle elezioni presidenziali e legislative anche in Madagascar chi detiene il potere decide di cambiare le "regole del gioco" preparando il terreno per una "morte certa della democrazia".

(Fonte.:jeueneafrique)
Bob Fabiani
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-www.jeuneafrique.com/madagascar

mercoledì 16 maggio 2018

Burundi, il referendum costituzionale che incoronerà Nkurunziza come 'presidente onnipotente'





Il referendum costituzionale che si terrà domani, 17 maggio 2018 in Burundi è, uno di quei appuntamenti-trappola. Apparentemente somigliano al tipico consolidamento democratico che, nella pratica però di democratico non hanno nulla.

Il popolo burundese è chiamato a esprimersi sull'approvazione di alcuni emendamenti costituzionali che estendono il mandato presidenziale da 5 a 7 anni eliminando il limite dei due mandati per il capo dello stato e, ridurre il numero dei vicepresidenti della Repubblica da due a uno, reintroducendo la figura del Primo ministro.




-Un referendum inquietante

La lunga stagione che ha fatto precipitare il Burundi nel caos e nella spirale delle violenze (sopratutto della zelante polizia devota del presidente Nkurunziza) è la conseguenza diretta delle eccessive forzature anti-democratiche di Pierre Nkurunziza.
Il presidente ha messo in atto la riforma costituzionale plasmata, ideata e, alla fine imposta (a tutti i costi) al popolo burundese nel tentativo di "restare per sempre al potere".
Un attimo dopo l'annuncio del presidente il popolo del paese africano insieme ai partiti dell'opposizione hanno iniziato una resistenza, nel tentativo di fermare la folle decisione del presidente.

Seppure apparentemente non hanno riscosso i risultati prefissi sono stati, comunque in grado di denunciare al mondo intero la pericolosità che si nasconde dietro alla riforma.




Immediatamente divamparono scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. Il tentativo di Nkurunziza era chiarissimo: esasperare l'opinione pubblica e gli attivisti per poi imporre una vulgata anti-democratica. A quel punto serviva uno strumento, una scappatoia per ottenere lo stesso obiettivo senza però  arrivare a mettere in campo un colpo di stato (nel senso classico del termine).
Maturò così l'idea di giocare la carta referendaria. Tuttavia, la posta in gioco è altissima. Se tre anni fa, la discutibile decisione di Nkurunziza condannava il Burundi nell'incubo di ritrovarsi impigliato nella guerra civile che negli anni Novanta del Novecento aveva stremato i cittadini e ridotto ai minimi termini le casse del paese.






L'appuntamento del referendum costituzionale di domani 17 maggio 2018 si terrà senza alcuna presenza degli osservatori internazionali. Il motivo è alquanto inquietante: la comunità internazionale crede che l'esito del voto sia del tutto scontato. La Commissione elettorale conferma di non aver ricevuto alcuna richiesta.

Se questa riforma dovesse passare attraverso il "Sì" il capo di stato burundese diverrà un "presidente a vita", un "presidente onnipotente". Nkurunziza non ha mai nascosto l'obiettivo di restare sulla poltrona presidenziale fino al 2034.





A poche ore dal voto referendario, un gruppo armato ha ucciso 26 persone e almeno 7 feriti - scrive Jeune afrique - nel Burundi Nordoccidentale: la notizia è stata confermata anche dal ministro della sicurezza, il quale poi, nell'occasione parla apertamente di "atto terroristico" .
Il clima è tesissimo nel paese africano proprio a causa di questo referendum costituzionale. Il governo (e non da oggi) ha schierato i militari nelle zone di confine con il Congo mentre, nella capitale, Bujumbura e nelle altre città, i burundesi sono costretti a convivere con uno "Stato di polizia" che non promette nulla di buono, a partire dal giorno dopo la tornata referendaria.
Le dinamiche dell'attentato hanno ricordato, in modo impressionante quelle dei miliziani di Boko Haram in Nigeria.
Venerdì scorso, per ore, un villaggio nella provincia di Cibitoke, al confine con la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il Ruanda è stato messo a ferro e fuoco. In verità certe esecuzioni (per la brutalità) hanno fatto riaffiorare il dramma del genocidio ruandese.

(Fonte.:jeuneafrique;afp)
Bob Fabiani
Link
-www.jeuneafrique.com/burundi;
-www.afp.com
      

martedì 15 maggio 2018

SPIKE LEE VS TRUMP (No #AmeriKKKa great again)








Presentando in concorso qui a #Cannes71 'BkacKKKlansman' - "blaxploitation movie" -  ossia, la vera storia del detective afroamericano che si infiltrò nel Ku Klux Klan in realtà, Spike Lee, ha optato nel frame finale di denunciare, esplicitamente, l'orribile, irrespirabile aria che si respira in tutta l'#AmeriKKKa al tempo di #TheDonald.
Il film termina con le drammatiche immagini delle violenze di Charlottesville quando, un Suv, guidato da un suprematista bianco ha investito, travolto e ucciso una manifestante antirazzista.




L'atto d'accusa di Spike Lee è diretto e durissimo contro Trump.


-La conferenza stampa

A #Cannes71, arriva uno Spike Lee deciso, calmo (nell'intercedere della parlata quasi da dare l'impressione di essere distaccata ... ma poi così non sarà) ma, al tempo stesso arrabbiato, di una rabbia che in fondo è sempre la stessa per uno come lui che, prima di tutto è stato e, continua a essere un attivista per i diritti degli afroamericani.





-Spike Lee speech

"Non è vero che gli Stati Uniti sono un paese fondato sulla democrazia, sono un paese fondato sulla schiavitù e sul genocidio. Ma vi chiedo un favore: non guardate a questo film come una storia che riguarda solo l'America, è un problema globale che coinvolge tutti i paesi. Pensate a come vengono trattati i musulmani, i migranti.".


Sono passati 29 anni da 'Fà la cosa giusta' e, Spike Lee ha ricevuto la standing ovation alla proiezione ufficiale al Grand Theatre Lumière di 'BalcKKKlansman' ed è stato accolto calorosamente alla conferenza stampa del festival.










Le prime parole che il grande cineasta sono state per il finale del film, che mostra le immagini di #Charlottesville dell'estate scorsa, quando una giovane donna venne travolta e uccisa dall'auto di un suprematista bianco che aveva travolto la manifestazione antirazzista.


-Spike Lee speech/2

"Quella tragedia è avvenuta dopo che noi avevamo finito le riprese e appena ho visto cosa era successo ho capito che doveva essere il finale del nostro film - spiega Lee - solo dopo aver avuto l'autorizzazione della madre di Heather Heyer (la ragazza uccisa) mi sono detto affanculo a tutto, mostrerò sul grande schermo quello che è stato: un assassinio, una vergognosa per l'America intera.".

Il regista afroamericano mostra anche Trump mentre interviene senza condannare le azioni dei militanti neonazisti e l'inquietante discorso dell'ex 'Mago Imperiale' (come viene chiamato il leader dell'organizzazione) David Duke.





-Spike Lee Vs Trump
(Spike Lee speech/3)


Il grande regista-attivista parla in questo tono (senza mai citare #TheDonald) : "C'è un tipo alla Casa Bianca, non dirò il suo nome, che nel momento della tragedia non ha saputo dire una parola nella giusta direzione, non ha ricordato che l'amore può battere l'odio. Guardiamo ai nostri leader per avere una guida, per prendere decisioni morali e invece ecco cosa accade, ma non soltanto negli USA. Siamo circondati da raccontaballe e dobbiamo svegliarci. Non possiamo più stare zitti, non è una questione di bianchi e neri, è questione di dire Time's Up (il tempo è finito) per l'odio.".





-BlacKKKlansman (The movie)

Il nuovo film di Spike Lee sarà nelle sale italiane a ottobre e in quelle americane il 10 agosto, per l'anniversario della tragedia di #Charlottesville, racconta la storia vera del detective afroamericano sottocopertura Ron Stallworth (nella nuova pellicola è interpretato da John David Washington, figlio di Denzel), che nel 1979 riuscì, con l'aiuto del suo partner ebreo come controfigura Flip Zimmerman (Adam Driver), a infilarsi in una cellula del Ku Klux Klan e dall'interno stanarne i propositi violenti.




Seppure si tratta del cosiddetto 'film in costume', con la colonna sonora dell'epoca (con tanto di copertine dei dischi) e quindi con effetto vintage, nella realtà la pellicola non blocca questa storia nel passato, i razzisti parlano con gli orribili slogan di #TheDonald da "make the America great again" a "american first" e ci ricorda che "quello che succede ora ha radici in quell'epoca, quando il Ku Klux Klan trovò nuova forza per contrastare i movimenti dei diritti civili" - chiosa Spike Lee - e, in fondo, con queste poche parole riesce a descrivere come meglio non si potrebbe tutta la tragedia rappresentata dall'amministrazione Trump e dello stesso 'Trumpismo' : un inquietante mix di restaurazione, xenofobia, razzismo che potrebbe coinvolgere l'intero occidente.

(Fonte.:liberation;larepubblica)
Bob Fabiani
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-www.liberation.fr;
-www.repubblica.it   

lunedì 14 maggio 2018

Il #BlackPower accende e conquista #Cannes71, il "festival della Rivoluzione delle donne"






La kermesse cinematografica a Cannes - arrivata alla 71/esima edizione - sta riscrivendo la recente storia della cosiddetta "settima arte".
Una serie di cose sono accadute in queste giornate e si registra una splendida aria nuova, una voglia di cambiamento che investe tutti i settori del mondo del cinema. In questo contesto non può sorprendere il ritorno alla ribalta del cinema afroamericano che, lancia un ponte sempre più diretto e preciso in direzione Africa.

E' proprio il rinnovato interesse verso il #BlackPower una delle note più positive di questa edizione. Si registra una centralità in questo festival che segna un prima e un dopo della causa dei neri, degli afroamericani con una serie di nuovi cineasti per un ideale abbraccio del #BlackPower degli anni '70 e quello dei giorni nostri.




Se di #BlackPower e di #BlackMovies si parla allora l'ideale abbraccio tra la nuova e vecchia generazione non può che partire da Spike Lee che, qui, a Cannes ribadisce la sua storica militanza dentro il movimento afroamericano.
Il 61enne Spike Lee è arrivato a #Cannes71 (è già alla terza volta in concorso) con una pellicola intitolata BlacKKKlansman. (...)





Ma il #BlackPower che illumina Cannes e questo festival ha anche altri volti e storie.
A cominciare dalla giurata, la cineasta Ava DuVernay passando per l'eleganza e lo charme dell'attrice Lupita Nyong'o fino alla coppia di "Black Panther" Coogler-Jordan.

 


A testimonianza che questo è il festival caratterizzato dalle donne c'è anche un'altro volto, un'altra storia che segna un ideale filo conduttore tra gli artisti, cineasti, attori afroamericani e l'Africa: si tratta della cantante KhadjaNin voluta in giuria dalla regista Ava DuVernay.




La pellicola che segna - in tutto e per tutto - la rinascita del #BlackPower è "Black Panther" e, come ha spiegato lo stesso Spike Lee : "Questo film cambia tutto. E' una nuova presa di posizione per quanto riguarda gli attori e il cinema afroamericano. Nulla sarà più come prima". 

I fatti sembrerebbero avvalorare la tesi del grande cineasta che, nella sua vita come nella sua carriera, non ha mai nascosto la sua militanza per le istanze della comunità afroamericana anche in questa #AmeriKKKa a guida Trump.




Un prima e un dopo dunque per riaffermare tutta la validità e l'arte del #BlackPower che qui a Cannes ha anche e sopratutto il volto (e la presenza, magnifica...) di Lupita Nyong'o. Nessuno più di questa attrice può rappresentare al meglio questa rinascita che, in un colpo solo pone un'ideale ponte tra la comunità afroamericana e l'Africa.
La stessa Lupita Nyong'o è stata capace di aggiudicarsi l'Oscar per "12 anni schiavo".




-Le donne in Marcia su Cannes

Sulla Montee des Marches hanno sfilato tutte le donne del cinema  mentre si proiettava "Les filles du soleil".

Non si è trattato di un gesto simbolico ma, di un vero "atto rivoluzionario".

Erano 82 donne, 82 artiste e rappresentavano gli 82 film di registe passati in concorso dalla prima edizione a oggi. Questa 71/a edizione del festival di Cannes è quella della svolta, la prima rassegna dopo il divampare dello #ScandaloWeinstein.




E' in atto una Rivoluzione e a guidarla sono le donne: rivendicano la "gender equality", l'uguaglianza sociale, l'abolizione della discriminazione nella paga, lo stesso accesso ai progetti in termini di finanziamento, regia, scrittura, produzione senza che essere uomo o donna faccia la differenza.
La giornata dell'11 maggio è stata caratterizzata dalla presenza, nello spazio Cnc, alla Plage del Gray d'Albion di tutto il movimento che dal #MeToo ha dato origine a molti altri movimenti in tutto il mondo.
Per la prima volta in assoluto tutti uniti hanno dato vita a un confronto "de visu" delle esperienze di lotta (e proposta) che le donne intendono rilanciare, senza mollare di un centimetro. Intorno al tavolo si sono ritrovati il collettivo francese 50/50 per il 2020 in parità tra uomini e donne, il Time's Up americano e quello inglese, l'italiano Dissenso comune e il greco Greek Women's Wave oltre allo spagnolo CIMA.

La Rivoluzione è appena iniziata e già ha stravolto tutto, ora, non resta che tentare di rimettere le cose nel giusto binario e, per far questo bisogna mettere in campo una lotta radicale che abbracci tutti gli esseri umani. In Africa come in Europa. In America come in Asia.

(Fonte.:lemonde.fr)
Bob Fabiani
Link
-www.lemonde.fr   

venerdì 11 maggio 2018

Le zone d'ombra e i segreti del #GenocidioRuanda





Il 6 aprile 2018 è la data che segna il "ventiquattresimo anniversario" di una delle tragedie più grandi della recente storia africana: si tratta del triste anniversario del "GENOCIDIO DEL RUANDA".

Su questa amara pagina esistono molte zone d'ombra e, altrettanti segreti che, chiamano, in prima persona, il cosiddetto "mondo civilizzato", quell'occidente del tutto privo di ogni remora nel disinteressarsi di ciò che stava avvenendo in questa parte di Africa.

Iniziamo dal principio.


-LE DATE

Iniziò tutto il 6 Aprile 1994 e durò 100 giorni: fino alla metà di Luglio 1994.

-IL MASSACRO

Durante la cruenta guerra civile vennero massacrati tra gli 800 MILA e 1 MILIONE tra i TUTSI e gli HUTU moderati.


-IL RUOLO DELL'ONU

Una delle pagine più controverse e nere mai ascritte all'ONU che fu accusata di disinteresse nei confronti della "TRAGEDIA RUANDESE": il Consiglio di sicurezza a lungo ignorò le molte richieste di intervento.





-LE FAZIONI

Riepiloghiamo tutti i gruppi (fazioni) presenti in quei 100 giorni scatenando il "MASSACRO'94":
-Interahamwe (Hutu)
-Impuzamugambi (Hutu)
-Fronte Patriottico (Tutsi)
-Unamir (Nazioni Unite)
-Rtlm e Kangura



Addentriamoci nelle "zona d'ombra" di questa tragedia partendo dall'analisi del comportamento del resto del mondo sui fatti di questa cruenta guerra civile.


-L'ATTEGGIAMENTO DEL MONDO

La storia del GENOCIDIO RUANDESE è anche la storia dell'indifferenza dell'occidente di fronte ad eventi percepiti come distanti dai propri interessi.
Emblematico fu l'atteggiamento dell'ONU che si disinteressò del tutto delle tempestive richieste d'intervento inviategli dal maggiore generale canadese Roméo Dallaire, comandante delle forze armate (2.500 uomini, ridotti a 500 un mese dopo l'inizio del genocidio) dell'ONU.

-Quel fax che inchioda l'ONU

Il generale Dallaire invia all'ONU un fax in cui denuncia il rischio dell'imminente genocidio, scrivendo: "dal momento dell'arrivo della MINUAR, l'informatore ha ricevuto l'ordine di compilare l'elenco di tutti i Tutsi di Kigali. Egli sospetta che sia in vista della loro eliminazione. Dice che, per fare un esempio, le sue truppe in 20 minuti potrebbero ammazzare fino a mille Tutsi. (...) L'informatore è disposto a fornire l'indicazione di un grande deposito che ospita almeno 135 armi ... Era pronto a condurli sul posto questa notte". 

A rileggere il contenuto di questo messaggio via fax si resta senza parole ancora oggi, a distanza di 24 anni: perché nessuno - all'interno delle Nazioni Unite - si accorse della gravità della situazione e dell'immane tragedia che si stava per abbattere sul Ruanda?


-LA POSIZIONE USA

Dopo 2 mesi, a genocidio avvenuto, il 10 giugno 1994, gli Stati Uniti parlano di "atti di genocidio": un atteggiamento che si può spiegare solo con i FATTI DI MOGADISCIO.
Cinque mesi prima del drammatico MASSACRO RUANDESE, i soldati americani furono impegnati nella "BATTAGLIA DI MOGADISCIO".
Era il 3 Ottobre 1993 e i soldati a stelle e strisce subiscono una dura lezione finendo per essere letteralmente annientati nell'"inferno somalo".


-LE RESPONSABILITA' DELLA FRANCIA

Quando si esamina il GENOCIDIO DEL RUANDA spesso si tralascia la posizione di Mitterrand e della Francia.
In un primo momento la Francia appoggiò i Tutsi, ma subito dopo, fece in modo di spingere gli Hutu alla rivolta (è un dato incontrovertibile che il comando più cruento del genocidio ruandese, gli Interahamwe, voluto dal clan Habyarimana, era addestrato dall'esercito ruandese e anche dai soldati francesi).

-I SEGRETI DI PARIGI

A 24 anni dal Massacro che causò il GENOCIDIO IN RUANDA esistono delle zone d'ombra sulle responsabilità della Francia, lo sostiene Le Monde. Lo scorso mese di marzo, il quotidiano francese, con una serie d'inchieste, ha cercato di far luce sulle posizioni di Parigi all'epoca dei fatti.

Che cosa ne è venuto fuori?

Fino al Genocidio del 1994 - che si stima abbia causato almeno mezzo milione di morti, in prevalenza tutsi, la Francia aveva saldamente appoggiato il regime hutu di Juvénal Habyarimana nella guerra contro i ribelli tutsi del Fronte Patriottico (Fpr), capeggiato da Paul Kagame.

"Nella mente di alcuni alti dirigenti francesi l'operazione militare Turquoise doveva servire, dietro la copertura dell'intervento umanitario, a rimettere in sella il regime hutu", scrive Le Monde.
"L'esercito ruandese, troppo occupato a massacrare civili, stava infatti perdendo la guerra contro l'Fpr. Ma quando i soldati francesi dell'operazione Turquoise sono arrivati in Africa era - per fortuna - troppo tardi per riprendere il controllo di Kigali".

Anche se questa tesi fosse quella più vicina alla realtà, rimangono altri punti da chiarire (lo ammette lo stesso quotidiano transalpino scrivendolo senza mezzi termini).

"Com'è stato possibile che, sotto gli occhi dei soldati francesi e l'embargo ONU, l'esercito ruandese abbia ricevuto nuove armi? Cosa sapevano i militari francesi del genocidio in preparazione? Perché sono stati ignorati tutti i segnali della catastrofe che stava per accadere?".

La risposta a tutti questi interrogativi - che non sono solo francesi - è contenuta negli archivi di stato.

Non sarebbe sbagliato dare la parola e far parlare quegli archivi.

(Fonte.:lemonde;nyt;internazionale)
Bob Fabiani
Link
-www.lemonde.fr/afrique/massacre-ruanda;
-www.nytimes.com;
-www.internazionale.it 
  




mercoledì 9 maggio 2018

Il Cinema africano a #Cannes71







Anche quest'anno la kermess di Cannes ha aperto i battenti: siamo all'edizione 71 e, come spesso accade, la presenza del Cinema d'Africa è minoritaria.
Eppure si tratta di una presenza importante quella di cineasti / cineaste africani o "afrodiscendenti".

Scopriamole.

L'Africa è presente a #Cannes71 con una pattuglia di esordienti ma anche con presenze autorevoli, a cominciare dai classici restaurati per l'occasione.


-FILM CLASSICI DEL CINEMA D'AFRICA (RESTAURATI)

Sono in tutto tre e rappresentano la "punta di diamante" del cinema africano.

IL DESTINO di : Youssef Chahine (Egitto)

E' stato Palma d'oro (alla carriera) nel 1997 : la pellicola in questione ancora oggi risulta essere attuale. Il film parla delle avventure del pensiero da contrapporre al fondamentalismo di Averroè.


FAD'JAL (1979)

Film della pioniera Safi Faye (fu distribuito anche in Italia). 
E' la prima regista africana a raggiungere la fama internazionale con questa pellicola in cui racconta, spaccati di vita vissuta degli abitanti del villaggio senegalese - Fad'Jal - da cui ha origine la sua famiglia. Il film sviluppa la storia di questo villaggio e le difficoltà dei lavori agricoli.

Safi Faye viene incoraggiata all'arte cinematografica da Jean Rouch.


Conclude questo trittico il 3 classico del senegalese Djibril Diop Mambety


LES HYE'NES (1992)

Il cineasta Mambety nato in Senegal è senz'altro il più sperimentale tra i registi subsahariani, purtroppo scomparso nel 1998 ha lasciato una eredità di immagini e idee cinematografiche che fanno ancora scuola.
Djibril Diop Mambety è stato anche attore del teatro nazionale. 
A #Cannes vinse il premio speciale della critica con TOUKI BOUKI nel 1973. 







-L'AFRICA A #CANNES71


Prima di allargare il nostro orizzonte visivo all'edizione in corso bisogna aggiungere che il Cinema africano ha partecipato raramente con pellicole in concorso al festival: un'eccezione è rappresentata da Abderramane Sissako. 
La pellicola - di grande emozione - era TIMBUCTU  nel 2014.


Nell'edizione 2018 l'Africa è presente in concorso con un film che arriva dall'Egitto (in coproduzione con l'Austria) : YOMMEDINE di Abu Bakr Shawky.
Si tratta di una storia di un uomo che lascia il lebbrosario dove era stato abbandonato da piccolo e si mette alla ricerca della sua famiglia.

Per trovare altri film africani si deve puntare il "Certain Regard". In questa sezione del festival troviamo un esordio dal Maghreb.
Si tratta della piccola intitolata SOFIA della cineasta marocchina Meryem Benm' Barek. Il film ha una produzione belga.
La storia racconta degli sforzi di una donna  mentre cerca di rintracciare il padre di suo figlio nel tentativo di scongiurare il rischio di essere denunciata come ragazza madre.

A #Cannes71 è presente il Kenya.
Si tratta di un debutto: il grande paese africano è qui con un film dal titolo RAFIKI. La pellicola racconta di un amore tra due donne ostacolato da famiglie e società, secondo lungometraggio della cineasta Wanuri Kahiu.
Questo film è tratto dal romanzo della scrittrice congolese Monica Arac de Nyeko.
(Fonte.:ilmanifesto;cinemaafrica)
Bob Fabiani
Link
-www.ilmanifesto.it;
-www.cinemaafrica.org;
-www.centrostudidonati.org/cinemaafrica.html   

domenica 6 maggio 2018

Tunisia al voto!






Questa domenica #6M2018 è una data importante per la Tunisia. Oggi, infatti, a Tunisi e nel resto del paese Nordafricano, si terranno le prime elezioni municipali dopo la "Rivoluzione 2011".
Tuttavia, sarà un voto che si terrà in un clima di indifferenza e, con l'incubo dell'astensione.
A conferma di questa previsione c'è il precedente del 29 aprile scorso. Quella è stata la data in cui, soldati e agenti delle forze di sicurezza hanno partecipato alle prime elezioni amministrative dalla "Rivoluzione 2011" - la stessa che diede il via alle cosiddette "Rivolte arabe" divampate in Africa come nel Medio Oriente e, che in Tunisia permise la caduta del dittatore Ben Ali.




Prima dell'approvazione della nuova legge elettorale militari e poliziotti non avevano il diritto di votare perché si pensava che dovessero tenersi lontani dalla politica.
Domenica scorsa, 29 aprile, ha votato solo il 12% degli aventi diritto, un dato che in parte conferma i timori di un forte astensionismo per oggi #6M.


L'incognita delle donne tunisine

Il pericolo astensione è dato in percentuali altissime - il 61% secondo un sondaggio di gennaio di Sigma - ha mobilitato l'Isie - Istituto superiore indipendente per le elezioni - che invita al voto tramite Sms : "La crisi economica, finanziaria e sociale, la perdita dei nostri valori, i piani di rigore inefficaci, la collusione tra uomini politici, centri di affari e baroni del contrabbando, hanno minato le speranze di un paese" scrive Hédi Chaker lanciando un messaggio esplicito "S.O.S. astensione, pericolo.

Questo susseguirsi di appelli-messaggi è stato indirizzato anche e sopratutto verso le donne tunisine - importantissime durante le giornate storiche del 2011 - ma che poi, per una serie di ragioni, hanno visto una certa marginalità delle donne almeno, in quelle parti  rurali della  Tunisia dove, volenti e nolenti sono tenute ai margini della vita sociale.

"Votare è un diritto ma anche un dovere" è l'appello-messaggio di Myriam Belkhadi presentatrice del popolare programma tv Hiwar Tounsi.

Impegnata contro l'astensione è la Lega delle tunisine elettrici - tra l'altro il 48% degli iscritti elettorali sono donne - dato che gli ostacoli non mancano di certo: "Alcune donne non hanno nemmeno la carta d'identità, altre lamentano la lontananza del seggio e la mentalità tradizionale che vuole le donne a casa" spiega, Sana Rahali, coordinatrice della stessa associazione.

Dipenderà dunque anche dal comportamento delle donne tunisine se l'affluenza non risulterà troppo bassa.

Ma ci sono anche altri fattori.

La richiesta del cambiamento del popolo tunisino: porre fine al "carovita"

Il risultato elettorale di questo #6M inciderà anche sul governo. A spingere sull'acceleratore del cambiamento è l'Ugtt - Unione generale dei lavoratori tunisini - che all'inizio appoggiò la nomina a premier di Youssef Chahed ai tempi del varo del governo di coalizione tra laici e islamisti ossia quello tra Nidaa Tounes e Ennahdha - in virtù della promessa di mettere in campo una lotta serrata e senza quartiere contro la corruzione. La mobilitazione del sindacato va avanti da mesi e punta l'indice contro l'adozione da parte del governo tunisino dei diktat imposti da FMI e Banca mondiale che hanno peggiorato le condizioni di vita del popolo tunisino.
Nelle mobilitazioni e nelle giornate di scioperi generali si è puntato l'indice nelle richieste di un cambiamento radicale chiedendo di realizzare la giustizia sociale, difendere i servizi pubblici, in particolare scuola, sanità e trasporti pubblici contro le mire e i progetti di privatizzazione. 

Richieste contenute anche nella "Rivoluzione 2011" e del tutto disattese.

Conclusioni

La campagna elettorale è stata spregiudicata sopratutto da parte del partito degli islamisti che, grazie al loro leader, Ghannouchi hanno pensato e provato ad aggirare l'incubo astensione con trovate "pirotecniche". In questa ottica sono state prese alcune decisioni tutte in chiave elettorale: nelle liste ci sono presenti molte donne addirittura capoliste senza velo e, con jeans strappati.
Il tentativo è quello di mandare un messaggio chiaro agli elettori: il partito islamista Ennahdha è moderno, aperto, per certi versi addirittura progressista.
Ma si tratta solo di trovate spregiudicate e da campagna elettorale ma, tuttavia, hanno portato anche un altra decisione del tutto imprevedibile. Il partito islamista sceglie a Monastir, Simon Slama, un ebreo il quale, difende la sua decisione argomentando il presunto cambiamento della compagine: "Ora non sono più un partito religioso" .

Cosa nasconde questa campagna pirotecnica degli islamisti?

Il leader Ghannouchi si è ispirato al modello del suo amico turco il "Sultano del Bosforo", Erdogan certo, quello dei primi tempi quello aperto, quasi progressista, moderno ma poi sappiamo quale tipo di cambiamento è stato capace di mettere in campo, negli ultimi tempi.
Inquieta dunque questa "finta" modernità degli islamisti - che certo in questa fase è tutta rivolta ad aggirare l'ostacolo astensionismo - ma che, a lungo andare, mira a ben altro.
Se, bisogna procedere dunque oltre il problema dell'astensionismo, il partito guidato da Ghannouchi ha deciso di procedere su due fronti: accreditarsi a livello internazionale, laddove è stato funzionale il viaggio a Davos - la "mecca del capitalismo" in modo, da tranquillizzare gli organi che contano, ossia l'FMI e la stessa Banca mondiale; e ancor più nella direzione tutta interna: dopo il dato del 12% del voto di poliziotti e militari, dalle parti di Ennahdha hanno iniziato a lanciare messaggi-appelli (alla parte moderata dei suoi elettori e non solo) per spronare la gente a votare, a recarsi ai seggi anche perché dicono dal partito: "Il voto amministrativo sarà determinante e decisivo".
Perché questo messaggio?
A questo punto Ghannouchi paventa (in modo molto sfumato...) una soluzione di tipo turco ossia, lascia capire che in Tunisia possa verificarsi un: "Colpo di stato da parte dei militari".

Proprio a causa di questo il partito ha imbarcato tutti (in queste elezioni amministrative). Nelle liste ci sono tutti: dai "moderati" passando per i salafiti che propongono, senza mezzi termini il califfato, del candidato ebreo vi abbiamo già informati ma, in queste liste, ci sono anche ex seguaci del dittatore Ben Ali.

Non sappiamo cosa accadrà oggi in queste prime elezioni municipali (c'è tempo fino alle 18 ore locali) ma, sappiamo che la vera sfida, il vero obiettivo sono le #Elezioni2019 quando si voterà per le legislative e per le #ElezioniPresidenziali per quella data, la Tunisia dovrà già stare "ben allineata" nel "fronte capitalista", lo stesso che sta condannando i tunisini al cappio del "carovita". Non è un caso se il leader islamista ha subito cercato di accreditarsi a Davos, la "mecca del capitalismo" quel "capitalismo morente" che in Africa, in Usa e in Europa e nel resto del mondo disattende, sistematicamente le domande e le richieste di cambiamento dei cittadini.

(Fonte.:al sabah; jeuneafrique;internazionale;left;monde-diplomatique)  
Bob Fabiani
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-https://www.assabah.com.tn
-www.jenueafrique.com;
-www.internazionale.it;
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-www.monde-diplomatique.fr