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domenica 31 dicembre 2017

Auguri di Buon 2018 ai lettori.






La redazione di AfricaLand Storie e Culture Africane augura a tutti i lettori di questo blog, i migliori auguri per un sereno e felice 2018.

L'appuntamento è dunque al 2018 seguiteci perché ci saranno grandi novità che caratterizzeranno il blog.

Bob Fabiani

venerdì 22 dicembre 2017

Quel dilemma insormontabile che affligge gli scrittori africani.*






Prende il via oggi sulle pagine virtuali di Africaland - Storie e Culture africane una inchiesta-riflessione (in 2 puntate) a cura di Boubacar Boris Diop - scrittore e saggista senegalese - che punta la lente d'ingrandimento su un tema per nulla scontato: la difesa delle lingue (spesso antichissime) del continente nero, un patrimonio dell'umanità spesso dimenticate.

Africaland dedica questa inchiesta-riflessione allo scrittore, poeta e insegnante camerunense Patrice Nganang che si trova in stato detentivo in Camerun (andrà a processo il prossimo 19 gennaio 2018 n.d.r) con l'accusa di "oltraggio agli organi costituzionali" intese come minacce, soltanto perché, lo scrittore usando appunto uno dei tanti dialetti (che però in Africa spesso e volentieri sono da considerare delle vere e proprie lingue...), il "camfranglais" (sorta di miscela linguistica di inglese, francese e lingue locali n.d.r) ha denunciato la deficitaria gestione della cosiddetta "Questione anglofona" che sta spingendo nell'abisso il Camerun; da parte del presidente Paul Biya che non ha trovato nulla di meglio che mettere in campo una "risposta muscolare" per imporre una sorta di "Stato militare" con la quale vorrebbe scongiurare la secessione della regione "Ambazonia" dal Camerun.


   


Lo scrittore, Patrice Nganang lo aveva denunciato per primo e per questa ragione è stato arrestato, incarcerato e come abbiamo già riportato nella parte iniziale di questo articolo, il prossimo 19 gennaio subirà un processo dal verdetto già annunciato: in questo omento in Camerun, il diritto alla libertà d'espressione e d'opinione non è garantita sopratutto se, uno scrittore, si permette di sposare le ragioni e le cause di quanti vorrebbero che fosse accettata l'uso della lingua inglese nel paese africano.

In questo contesto acquista importanza e si rafforza il tema centrale di questa inchiesta: l'incerto uso delle lingue del continente nero: nel nostro caso - grazie alle riflessioni dello scrittore e saggista senegalese affronteremo il "caso dell'uso del wolof".


-Brevi accenni sulla lingua wolof

Il wolof (o uolof) è la lingua parlata in Senegal dall'omonima popolazione. La lingua wolof si articola in alcuni dialetti quali: baol, cayor, dyolof (djolof, jolof), lébou (lebu), jander.
Nel dialetto della regione di Dakar, la capitale del Senegal, in particolare, si notano forti contaminazioni francofone e la presenza di numerosi vocaboli derivati dal francese e dallo slang afroamericano.
Il wolof parlato in Gambia, a causa delle influenze anglofone, rende difficoltosa la sua comprensione da parte dei wolof francofoni.
Il wolof figura come prima o seconda lingua per una popolazione di almeno 7.000.000 di individui (la popolazione senegalese madrelingua è minimo 3.976.500, dati aggiornati al 2006).
E' parlato anche in Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Mali, Mauritania e nei paesi dove è molto presente la diaspora di questa parte dell'Africa, ossia Stati Uniti d'America, Francia, Italia.

(Bob Fabiani) 



 



-Il dilemma degli scrittori africani: "Chi ha paura del wolof"-Boubacar Boris Diop*


"In Senegal, la mia generazione è stata la prima a studiare, negli anni Sessanta - subito dopo l'indipendenza - quella che con un termine vago e quasi inafferrabile è chiamata "letturatura africana". Passando da Arthur Rimbaud e Honoré de Balzac a Léopold Sédar Senghor e Mongo Beti , avevamo l'impressione, per così dire, di lasciare finalmente l'ombra per la preda (ci si riferisce, capovolgendo il concetto, alla favola di Esopo Il cane e l'osso, ndt).
Anche se amavamo alcuni dei nostri nuovi autori molto più di altri, tutti in qualche modo hanno forgiato il nostro carattere. In quel tempo, i confini dell'Africa erano più mentali che geografici, non era necessario esservi nati per essere interamente accettati come suoi figli; non ricordo di aver sentito mai uno dei miei compagni interrogarsi, per esempio, sull'africanità di Aimé Césaire: sarebbe stato incongruo quanto chiedersi se Frantz Fanon (1) fosse algerino. Entrambi - il primo, sopratutto - erano onnipresenti nei corsi, con nostra grande soddisfazione. Brillavano invece per la loro assenza gli scrittori anglofoni, lusofoni e dell'Africa del Nord. Certo, era possibile imbattersi in una pagina di Mohamed Dib o di Kateb Yacine, Amos Tutuola e Chinua Achebe, ma temo che fosse solo un modo per compensare. Nel paese di Senghor, ci trovavamo già nel cuore di una francofonia letteraria della quale egli si fece, per tutta la vita, cantore e custode.

A Ibadan e all'università Makerere (Kampala) i giovani nigeriani e ugandesi della nostra età non avevano altra scelta che rassegnarsi, anch'essi, a questa confusione sistematica fra la parte e il tutto. Quando Jane Wilkinson mette insieme nel 1992 il suo celebre Talking with African Writers ("Conversazioni con scrittori africani") (2), è con gli anglofoni Tsitsi Dangarembga, Wole Soyinka, Essop Patel e Mongane Wally Serote che si intrattiene lungamente. Insomma, il sole delle indipendenze si era appena levato e già i suoi raggi voltavano le spalle. Quello che Cheikh Hamidou Kane  chiameràpiù tardi "il primo mattino dell'Occidente" in Africa era già vissuto come lo choc iniziale, l'evento all'infuori del quale niente meritava di essere preso in considerazione.

Nello spazio francofono, Forcebonté, del senegalese Bakary Diallo (3), nel 1926 pone la primissima pietra miliare di un campo letterario i cui contorni si preciseranno nei decenni successivi. Il Congresso degli artisti e scrittori neri del 1956 (Parigi) e del 1959 (Roma) ne sono stati due riferimenti importanti; Présence africaine - la rivista e la casa editrice - era nata dieci anni prima. E' un retaggio che bene o male si perpetua. A Dakar e a Yaoundé, la stampa continua a riferire della pubblicazione, quasi sempre a Parigi, di romanzi e saggi di autori africani, disserta sui potenziali vincitori africani di premi come il Renaudot o il Femina e, rilanciando le discussioni accademiche, si interroga con gravità: l'"amalgama", così riuscito in Amadou Kourouma, del francese e del malinké, non potrebbe essere in fin dei conti il futuro della nostra letteratura? Pensiamo al "realismo magico" in Pedro Pàramo del messicano Juan Rulfo e a Les Sept Solitudes de Lorsa Lopez del congolose Sony Labou Tansi.


Gli autori viventi non sono da meno.
Li vediamo in tante conferenze e sugli schemi televisivi, concentrati o disinvolti, ma sempre ben decisi a rimettere in piedi l'Africa. Ma forse è un modo di dire: nella "post-colonia", l'inquietudine per il futuro del continente non è più tanto condivisa, e certi autori, non è più tanto condivisa, e certi autori, non si sa bene perché, si mettono sul chi va là non appena sentono la parola "identità". Eppure sono gli stessi che si vantano di dar pepe e far delirare una lingua francese un po' troppo saggia e pallida per i loro gusti...

In realtà, avrebbero evitato  volentieri queste capriole stilistiche, ma è così difficile, per dirla con il poeta haitiano Léon Laleau, "dire con parole della Francia (un) cuore venuto dal Senegal"... Tutti gli scrittori hanno relazioni tempestose con le parole, ma nel caso dell'autore africano, è l'intera lingua di scrittura a essere problematica. Per anni mi hanno chiesto: "Perché scrive in francese?". E dopo la pubblicazione del mio romanzo Doomi Golo: "Perché scrive in wolof?".
Nessuno si sente in dovere di leggere i libri prima di fare queste domande, che veicolano tutte le frustrazioni di uno scambio umano abortito, agli antipodi del progetto letterario".

* Boubacar Boris Diop, Scrittore e saggista, visiting professor all'università statunitense della Nigeria. Autore di Murambi, il libro delle ossa (e/o, 2004) e di Doomi golo (Editions Papyrus, Dakar, 2003)

Note

(1) Si legga Salima Ghezali, "Rendez-vous avec Frantz Fanon", Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2012.
(2) Jane Wilkinson, Talkin with African Writers: Interviews with African Poets, Playwrights and Novelists, James Currey, Londra, 1992.
(Bakary Diallo (1892-1979) racconta in questo libro la sua esperienza di soldato proveniente dalle colonie (Senegal) nel 1914-1918.

-Fine Prima parte-

Bob Fabiani
Link
-www.monde-diplomatique.fr  



      

martedì 19 dicembre 2017

Madagascar , l'isola dalle intense emozioni (africane)









Il Madagascar è stato insulare situato nell'oceano Indiano, a largo della costa orientale dell'Africa, di fronte al Mozambico. L'isola principale anch'essa chiamata Madagascar, è la quarta più grande isola del mondo.

Arrivare in questa parte di Africa è un'esperienza unica. Magica. Non si tratta della solita "frase fatta" ma della pura e semplice verità che, naturalmente è facilmente riscontrabile in quanti si siano recati nella "Grande Isola", "l'Isola dalla Terra Rossa", almeno una volta nella loro vita (e magari per chi ancora non ha avuto questa possibilità, garantiamo che un viaggio in Madagascar può cambiare la vostra prospettiva, in tutti i sensi, non ultimo quello ecologico n.d.r).

Il Madagascar è un paese unico: qui troverete il 5% di tutte le specie animali e floreali conosciute dall'uomo e, per di più solo qui, li troverete tutti in unico paese. Fra gli esempi più noti di questa biodiversità eccezionale ci sono l'ordine dei lemuri, le numerose specie di camaleonti e la magia senza tempo e infinita dei baobab.













A questo straordinario patrimonio di flora e fauna corrispondono paesaggi spettacolari incredibilmente eterogenei: percorrendo appena 300 km si può passare dalla foresta pluviale al deserto. Sono pochi al mondo, i paesi che sanno offrire questo spettacolo assolutamente indimenticabile, laddove davanti ai vostri occhi di viaggiatori si manifesta superba e fiera, l'immensità dell'Africa.

Un discorso a parte lo merita il meraviglioso ed ospitale popolo del Madagascar : i malgasci.


Etnie del Madagascar 

In Madagascar si distinguono 18 gruppi etnici principali prevalentemente di origine mista asiatica e africana, con elementi arabi ed europei. Solo una minoranza, collocata principalmente sugli altopiani, ha tratti somatici e culturali spiccatamente asiatici.
Recenti ricerche inducono a pensare che l'isola sia stata inizialmente colonizzata da popolazioni di provenienza malese, giunti in questa parte d'Africa fra i 2.000 e 1.500 anni fa.
Studi approfonditi sul DNA delle popolazioni malgasce mostrano origini per metà circa, malesi e per metà africane, con alcune influenze arabe, indiane ed europee sopratutto sulle coste.

La lingua che si parla in Madagascar è il malgascio (oltre naturalmente al francese retaggio della colonizzazione della Francia) presenta un vocabolario sovrapponibile al 70% a quello Ma'anyan (lingua parlata nella zona del Kalimantan centrale, sull'isola del Borneo in Indonesia) e viene parlato nella regione del fiume Banito nel Borneo meridionale. I tratti orientali sono presenti sopratutto negli altopiani centrali, e corrispondono alle popolazioni Merina (3 milioni di malgasci, il più grande gruppo tribale del Madagascar) e Betsileo (2 milioni a rappresentare il gruppo etnico diffuso nella parte meridionale degli altopiani centrali del Madagascar e, rappresentano  il 12% della popolazione malgascia. Il nome Betsileo significa "i molti invincibili").
La gente della costa (detta cotiens) sono di origine più chiaramente africana (bantu). I più grandi gruppi tribali costieri sono rappresentati dai Betsimisaraka (1,6 milioni): questo popolo si è stabilito sulla costa orientale del Madagascar, il secondo più grande gruppo etnico della "Grande Isola" dopo i Merina e, rappresentano circa il 15% dell'intera popolazione malgascia.
Altro gruppo etnico è rappresentato dai Tsimihety che sono presenti nel Madagascar centrosettentrionale e sono circa 1 milione. Il nome Tsimihety, in malgascio significa "quelli che non si tagliano i capelli": questo popolo usa un particolare dialetto che si distingue in modo marcato dal malgascio ufficiale parlato nel resto dell'isola. Il dialetto parlato dai Tsimihety presenta un maggior numero di influenze arabe e francesi.
Un altro popolo malgascio è rappresentato dai Sakalava originari della regione di Isaka.



Appunti di viaggio dal "Taccuino personale" di Bob Fabiani*





 

                                                     Disordine organizzato
                                                   (gesti quotidiani malgasci)


A una prima superficiale vista - del tutto parziale -
non si può fare a meno di notare alcune cose che,
mi inducono a pensare che, questi gesti - non si sa quanto voluti ma,
certamente ripetitivi, in quanto quotidiani
possono essere "presi a prestito"
per "ricostruire" una o più "giornate della società africana e malgascia in particolare.

L'impressione che ne ricavo è la seguente:

  1. un infinita massa di persone che "vaga senza una meta";
  2. disorganizzata e disomogenea;
  3. sono rappresentate tutte le "fasce d'età senza distinzioni"... di sorta;
  4. questa enorme massa di persone è in perenne movimento.

Nel momento esatto in cui ho appena terminato di scrivere l'ultima frase sul taccuino mi rendo conto di quanto siano "parziali" - nel senso che sono tipiche di "certa mentalità occidentale" queste "note di viaggio".
Se,
viene appurato (come ho appurato) che questa enorme massa di persone  - dal primo mattino a sera inoltrata - si muove,
allora,
vuol dire che una meta esiste, è reale.

                                      ***


La "sete di informazione" mi assale lasciandomi senza via d'uscita: devo cercare di capire di più delle usanze e del sistema di vita di questo popolo meraviglioso che è quello malgascio.
D'istinto mi dirigo nella piazza (quella che presumo sia quella centrale) di questo posto chiamato: Nosy Be.
E' qui che questa enorme "fiumana di esseri umani" è diretta.

Scopro con molto interesse che proprio intorno a questa piazza che si svolge (per intero) la giornata.
Per una serie di ragioni:
  1. il mercato;
  2. una serie di esercizi commerciali (certo gli "standard" sono a un livello modesto se non del tutto insufficiente ma, qui, in questa Africa che si affaccia sull'oceano indiano e parla un dialetto africano affascinante che tutti chiamano "LINGUA MALGASCIA" con importanti venature di francese...retaggio della "stagione coloniale"; nessuno sembra farci caso, più di tanto. Questo è un lusso da occidentali e... da...bianchi in particolare mentre qui, nell'anno di grazia 2013 c'è tutta una comunità che deve inventarsi qualsiasi cosa, ogni "utile stratagemma" per sbarcare il lunario;
  3. davanti a questi esercizi commerciali nel limite ben marcato di marciapiedi e dedali di vicoli improvvisa alla mia vista si materializza un altro Sud.
  4. Sud a me familiare. Ecco le "Gran Mama africane" che espongono le loro mercanzie.

                                                ***


Per lo più
sono prodotti culinari e
cotti al momento.
Mi fermo per un istante e,
se chiudo gli occhi
potrebbe benissimo trattarsi di Napoli,
la "Napoli porosa"
dei Quartieri Spagnoli... la Napoli
di via Toledo
e delle "donne brune e zingare"
fermo immagine
di lontani anni Cinquanta.

                                  ***


Senza motivo si materializza sul mio volto un accenno di sorriso
che riesce a stabilire un contatto umano con queste donne che applaudono
il mio gesto...semplice e antico: in fondo - penso in quei frangenti - è lo stesso "battito del cuore del Sud",
di questo Sud che seppure lontano 14 mila chilometri, 
in realtà,
è più vicino, solidale di quel che posso pensare.
E' Africa ma può essere benissimo Napoli,
è Madagascar e sa regalarmi emozioni intense e uniche
proprio come la città di Partenope.

*Scritto a Nosy Be tra il 3 e il 7 settembre 2013
(Bob Fabiani)    

                                             

sabato 16 dicembre 2017

Storia di un Genocidio dimenticato: la Namibia e lo sterminio Herero. (Seconda Parte)







Nella seconda parte che pubblichiamo oggi  (dopo quello pubblicato il 10/11/17) dedicata al "Genocidio Namibia", un genocidio a lungo dimenticato, ci soffermeremo sulla brutalità messa in atto dalla Germania ai danni del popolo Herero e dei Nama. Per un lungo arco di tempo (qualcosa come 100 anni...), il mondo (intero) ha ignorato che le "Guerre herero" - come vennero ricordate le indicibili atrocità tedesche in questa parte di Africa dagli storici, principalmente occidentali - nella realtà si trattò di uno "sterminio scientificamente pianificato" da parte della "Germania imperiale" ai danni dei due popoli della Namibia.



Contesto storico

Gli Herero sono una tribù di allevatori di bestiame che abitano nel Damaraland - regione arida e montuosa della  Namibia centro-settentrionale, deve il suo nome al popolo Damara, che, abita in questa regione. Il Damaraland è situato fra l'Ovamboland, il deserto del Namib, e il deserto del Kalahari nell'Est Namibia -, questo popolo fieramente africano che cercò disperatamente di resistere allo sterminio a opera dei tedeschi occupano il Nord della Namibia.

Nel 1884, all'epoca della "spartizione dell'Africa" fra le potenze coloniali europee, l'odierna Namibia fu dichiarata  protettorato tedesco; all'epoca era l'unico territorio d'oltremare considerato adatto per lo stanziamento dei bianchi acquisito dalla Germania.
I tedeschi incontrarono la resistenza di diverse popolazioni locali alla loro occupazione, anche se nel 1894 venne siglato un accordo con i Khoikhoi (i Khoekhoen o khoikhoi, o semplicemente khoi, sono un gruppo etnico dell'Africa sudoccidentale).

In quello stesso anno, Theodor Leutwein divenne amministratore imperiale della colonia, che entrò in un periodo di rapido sviluppo, mentre la  Germania inviava le truppe imperiali chiamate "Schueztruppe" per "pacificare" la regione.
La politica coloniale tedesca, per questo migliore di quella francese o belga, era apertamente non egualitaria: i coloni furono incoraggiati a sottrarre la terra alle popolazioni locali, i nativi (compresi gli Herero) vennero adoperati come schiavi, e le risorse di rilievo (in particolare le miniere di diamanti) venivano sfruttate dai tedeschi.







Gli Herero giudicarono la situazione intollerabile; Samuel Maharero ( in foto), il loro condottiero, guidò il suo popolo in una grande rivolta contro i tedeschi; il 12 gennaio 1904 vennero sferrati i primi attacchi. La maggior parte delle fattorie dei coloni venne distrutta, e almeno 123 tedeschi furono uccisi, fra loro anche 7 boeri - letteralmente "contadini", dall'olandese "boer", sono una popolazione sudafricana di origine olandese - e 3 donne.
Leutwein fu costretto a richiedere al governo di Berlino rinforzi e un ufficiale d'esperienza per risolvere la crisi.
Il 3 maggio, il tenente generale Lothar von Trotha venne nominato comandante supremo ("Oberbeffehshaber") dell'Africa del Sud-Ovest, e l'11 giugno arrivò con un contingente di 14.000 soldati.



Il genocidio (dimenticato)


L'11-12 agosto 1904 le truppe guidate da von Trotha sconfissero un esercito 3.000-5.000 Herero nella "battaglia di Waterberg", presso l'altopiano omonimo, ma non furono in grado di circondare ed eliminare i sopravvissuti in ritirata.
Le forze tedesche li inseguirono e tennero sotto pressione, evitando che gruppi di Herero si allontanassero dal contingente in fuga e sospingendoli verso il deserto di Omaheke. Meno di 1.000 profughi, alla guida di Maharero, riuscirono ad attraversare il Kahahani e raggiunsero il territorio britannico del Bechuanaland, dove ricevettero asilo politico.


Il 2 ottobre von Trotha mandò agli Herero questo avvertimento.

"Il popolo  Herero deve lasciare il paese. Ogni Herero che sarà trovato all'interno dei confini tedeschi, con o senza un'arma, con o senza bestiame, verrà ucciso. Non accolgo più né donne né bambini: li ricaccerò alla loro gente o farò sparare loro addosso. Queste sono le mie parole per il popolo Herero".

Era ufficialmente iniziata "l'ora x" quella diede inizio al genocidio: la prova generale delle "pratiche naziste" tristemente note durante la seconda guerra mondiale.

Von Trotha, da quel momento mise in atto misure volte a sterminare per fame e per sete i nemici, facendo presidiare o avvelenare i loro pozzi (risorse preziose nel territorio arido della Namibia).
Le pattuglie tedesche trovarono in seguito scheletri intorno a buche profonde 13m, scavate nel tentativo di trovare acqua.
L'11 dicembre 1904 il Cancelliere del Reich, Bernhard von Bulow, ordinò a von Trotha di erigere dei Kenzentrationslager allo scopo di dare "sistemazione temporanee" a "ciò che rimaneva del popolo Herero".
Alcuni prigionieri furono impiegati come schiavi presso aziende pubbliche privati, altri usati come cavie umane in esperimenti medici.

-Fine Seconda Parte-

Bob Fabiani
Link
-www.bbc.com/news/august29,2001/a-bloody-history-namibia's-colonisation
-www.sciencespo.fr/mass-violencewar-massacre-resistance  
  

giovedì 14 dicembre 2017

Zimbabwe, un mese dopo la fine dell'era di Mugabe. A che punto è l'inizio di una "fine di un'epoca"?






Che cosa è cambiato in Zimbabwe dopo la rivoluzione epocale del "Golpe di velluto" voluto dai militari del paese africano? Quale prospettive ci sono per il popolo zimbabwano una volta terminata la lunga stagione del potere del "Compagno Bob"?
Sono alcuno degli interrogativi che ci siamo posti nel momento in cui abbiamo approntato questa inchiesta.
Uno degli enigmi da sciogliere riguarda la figura di Mnangagwa dato che è toccato a lui prendere le redini del comando dello Zimbabwe dopo la cacciata di Mugabe: e allora partiamo proprio dall'attuale nuovo presidente che avrà il compito di far ripartire il "nuovo Zimbabwe". Esattamente un mese fa di questi tempi arrivavano e iniziavano a circolare le prime notizie che da Harare - la capitale del paese africano - parlavano di un golpe militare a seguito dell'arresto del "vecchio leone", il protagonista che aveva saputo regalare allo Zimbabwe la possibilità di lasciarsi alle spalle l'oppressione colonialista britannica quando ancora, il paese si chiamava Rhodesia. Ma poi tutto era cambiato. Mugabe era cambiato e si era trasformato in un despota, un dittatore che aveva guidato il paese con una disumana dittatura lunga 37 anni.

Le perplessità però riguardano anche il suo successore perché, è bene ricordarlo che, Mnangagwa è stato il "braccio destro" di Mugabe  - come abbiamo scritto e documentato esattamente un mese fa nel pieno svolgimento degli avvenimenti che ci avevano lasciato tutti con il fiato sospeso quando ancora, non si capiva bene che tipo di colpo di stato stava andando in porto - e allora, terminavamo la presentazione di Mnangagwa ponendoci la domanda: sarà l'uomo giusto per Harare oppure il suo diventerà un regime ancora più cruento di quello di Mugabe?

Ripartiamo esattamente da dove avevamo lasciato la "storia in divenire" mentre, il popolo scendeva e invadeva le piazze e le strade della capitale, ebbro di gioia per la libertà raggiunta.
Come sta procedendo la ricostruzione del paese, nell'ora di Mnangagwa?






Mnangagwa, nuovo presidente dello Zimbabwe


Quella domanda che ci eravamo posti durante la giornata del giuramento come nuovo presidente del paese africano nel mese scorso è stata, la domanda che è rimbalzata in tutte le redazioni dei giornali, quotidiani, settimanali e delle riviste politiche africane perché, seppure da molte angolazioni si possa prendere in considerazione la salita alla plancia di comando dell'uomo politico - inviso alla potente moglie di Mugabe ma, al tempo stesso da sempre, l'uomo a cui andavano le simpatie dei generali e dei militari zimbabwaiani - e, dunque, in queste settimane abbiamo raccolto alcune posizioni apparse sui media africani per cercare di rispondere a quel quesito che, indubbiamente, non trova, una risposta facile ed esaustiva.
A sintetizzare bene la questione è quanto scrive, in poche righe il settimanale The East African quando ammette che: "Anche se la sua ascesa al potere è avvenuta in circostanze che non lasciano ben sperare e il suo nome è strettamente associato al regime, Emmerson Mnangagwa ha la possibilità di creare un nuovo Zimbabwe, smantellando la dittatura che ha contribuito a fondare".

Ci riuscirà? Avrà la volontà politica di farlo?

Intanto è utile scoprire cosa ha fatto nei primi giorni della sua presidenza e quali sono stati i primi atti ufficiali perché, anche dalle prime mosse è possibile individuare, intuire, scoprire che tipo di futuro e di presidenza sarà quella di Mnangagwa.

Procediamo con ordine.

Harare, 24 novembre 2017

E' la data e la giornata in cui, Emmerson Mnangagwa, 75 anni, è entrato ufficialmente in carica come presidente ad interim. In conseguenza del fatto di una giornata del tutto storica per lo Zimbabwe.

Harare, 21 novembre 2017

E' la data che aspettava il popolo zimbabwano da 37 lunghi anni. Infatti è questa la data in cui, Robert Mugabe, 93 anni, ha abbandonato l'incarico dopo giorni di negoziati con i militari responsabili del colpo di stato che ha messo fine al suo governo.
"L'arrivo al potere di Mnangagwa ha suscitato una grande euforia - scrive The Herald quotidiano di Harare - il suo primo compito sarà rilanciare l'economia, che è al collasso dopo anni di governo Mugabe".


Harare, 28 novembre 2017

E' la giornata dove Mnangagwa ha sciolto l'esecutivo, mantenendo due personalità chiave del partito al potere, lo Zanu-PF, come ministri degli esteri e delle finanze. Intanto, scrive ancora The
Herald, il compleanno di Mugabe - che si terrà il 21 febbraio - è stato scelto per celebrare la giornata nazionale della gioventù, a ricordo degli sforzi dell'ex leader a favore dei giovani.









Tutte le incognite per lo Zimbabwe



Tutti gli analisti del mondo sono stati concordi nel affermare che con la rimozione dal potere di Mugabe, per lo Zimbabwe era "la fine di un'era". Anche i media africani hanno concordato su questo punto e lo hanno scritto a chiare note, come nel caso del Mail & Guardian "E' la fine di un'era. Per lo Zimbabwe l'uscita di scena del presidente Robert Mugabe è un evento importante quanto la liberazione dal giogo coloniale".

Queste parole forti non sono state scelte a caso ma interpretando a fondo la sofferenza del popolo zimbabwano che ha sempre sperato che il "vecchio leone", eroe della "guerra d'Indipendenza" lasciasse il potere di sua spontanea volontà, un evento mai verificatosi in 37 lunghi anni di comando.

All'indomani delle dimissioni di Robert Mugabe avvenute il 21 novembre 2017 il settimanale sudafricano scrive : "Mugabe ha plasmato ogni aspetto della società e ha creato un paese a sua immagine, anche se era un'immagine distorta. E' stato il più influente e carismatico tra i leader delle lotte di liberazione che, con il passare del tempo, si sono trasformati in dittatori. Per molti ha mantenuto le promesse della decolonizzazione e ha tenuto testa all'avidità dei governi occidentali e della minoranza bianca. Con la sua uscita di scena possiamo sperare che per l'Africa sia finito il tempo degli autocrati e dei presidenti a vita.".

Non vi è alcun dubbio che quanto auspica il settimanale sudafricano sia finalmente ciò che i popoli d'Africa meritano per scrivere finalmente una pagina nuova ma, tuttavia, non si può far finta di nulla e, non notare che quanto ha caratterizzato le prime mosse di Mnangagwa sia improntato a non umiliare il "Compagno Bob" anche perché, se quel regime, negli anni si è trasformato in dittatura lo si deve anche all'operato del successore di Mugabe.

Allora non c'è speranza per lo Zimbabwe e per l'Africa?

La speranza ci sarebbe ed è quella indicata dal Mail & Guardian quando scrive che l'Africa "ha bisogno di presidenti che non siano despoti e non durino a vita". Ma proprio questa lettura inquieta circa la "storia politica" di Mnangagwa che, a sua volta è soprannominato "il coccodrillo" per la brutalità delle purghe che hanno contribuito ad alimentare la dittatura di Mugabe.

Preoccupazioni che la rivista settimanale sudafricana non nasconde affatto quando scrive: "Se da una parte festeggiamo la caduta di Mugabe, dobbiamo anche preoccuparci per il futuro dello Zimbabwe. I militari non sono certo dei guardiani della democrazia credibili. Per decenni i vertici dell'esercito hanno aiutato il regime di Mugabe a compiere i suoi gesti più sconsiderati. In alcuni casi - come in quello delle miniere di diamanti di Mugabe - gli ufficiali hanno approfittato dei loro stretti rapporti con l'élite per arricchirsi. I militari non sono intervenuti per il bene del paese ma per salvare uno dei loro, il vicepresidente Emmerson Mnangagwa, e per tutelare i propri interessi. I cittadini dello Zimbabwe non devono abbassare la guardia".


Conclusioni 

L'incognita di "cadere dalla padella alla brace" ci sono tutte e, non può essere sufficiente a scongiurarlo il fatto che, questo "cambio al vertice" è stato voluto con sollievo sia dalla Cina sia dalle potenze occidentali e, in primo luogo dalla Gran Bretagna dove Mugabe era il "nemico numero uno". Su Harare incombono molte incognite si spera solo di non dover raccontare un'altra dittatura disumana e cruenta.
(Fonte,:eastafrican;herald;mailandguardian)
Bob Fabiani
Link
-www.theeastafrican.co.ke;
-www.herald.co.zw;
-https://mg.co.za      

domenica 10 dicembre 2017

Madagascar, NosyBe e isole*










*Dal Taccuino personale del mio "Primo viaggio in Madagascar"...


- Più la "natura" in prossimità
del mare e delle isole si fa
intensa,
lussureggiante
nel verde luccicante che,
rasenta - e quasi lambisce -
l'azzurro del mare,
più invece,
quando si entra nel
"budello" di NosyBe tutto
cambia...
dedali di vicoli stretti
che a strapiombo
sembrano adagiarsi verso
il mare...

Vicoli di terra arida e amara
mi accolgono
e,
in un "violento" attimo
ecco che l'Africa
quella vera
si mostra ai miei occhi
di intruso
mal sopportato.
Lo vedo dalle espressioni
dei volti
   - bambini o adulti,
     donne o uomini,
     non fa alcuna differenza -
che mi "squadrano"
dal basso verso l'alto.
Sembrano volermi dire:
   "Che cosa ci fai qui?
     Questo non è posto
     per te... torna da
     dove sei venuto..."
E' un istante
eppure questa ostilità
sento che mi precura
un "sordo" dolore.
Non faccio nulla
ma continuo a osservare
questa Africa,
dolente,
emarginata,
disillusa e...
schiava
che,
ogni santo giorno che dio (o chi per esso)
ha creato su questa Terra
ingaggia un disperato,
sfibrante,
sconquassato "duello"
con la sopravvivenza.

Vedere, osservare con i miei occhi
è del tutto diverso
da quando lo si osserva
dall'altra parte del mondo
stando magari comodamente seduto
davanti a uno schermo
di un computer
o,
dalla redazione di un
qualsiasi giornale.

E' devastante!
Doloroso!
Umiliante!

Non per gli africani
ma per me,
intruso
in questa Africa
 - Madre Terra -
che pure amo
ma che tuttavia
sento
che non mi
apparterrà mai.





Bob Fabiani
*Notte tropicale, NosyBe tra il 5/6 settembre 2013   

#10D Giornata Mondiale per i #DirittiUmani: i conti non tornano.





Il #10D è la Giornata Mondiale per i diritti umani : si celebra quest'anno il 69° esima giornata che induce - o almeno dovrebbe -  sopratutto le classi dirigenti e i leader dei vari governi mondiali in un momento storico dove, si registrano nuovi rigurgiti razzisti perché, nel cosiddetto primo mondo tutto quello che ha che fare con le migrazioni e i migranti sprigiona, istinti cinici, all'insegna dell'odio alimentato dalle destre razziste in Europa come negli Stati Uniti.

La giornata di oggi deve far riflettere e in modo serio se, su scala mondiale si registrano nuove povertà - queste in realtà non riguardano solo i migranti ma vanno a colpire anche i cosiddetti cittadini ricchi che abitano l'occidente civilizzato e moderno - all'ombra dei guasti causati dalla crisi economica-finanziaria che ha colpito (prima gli Stati Uniti e poi l'Europa) ormai più di un decennio fa. E se queste nuove povertà sono diventate aggressive via via che la crisi costringeva i Paesi a cedere sul fronte delle politiche d'austerità pretese dai falchi del neoliberismo che non hanno minimamente pensato che, insistendo con queste politiche negative si prestava il fianco alla drastica riduzione delle libertà (individuali e collettive) finendo per essere negate anche a coloro che nel frattempo arrivavano qui, in Europa (compresa l'Italia) si trovavano alle prese e in balia di sfruttatori e imprenditori anch'essi sostenitori di quel "capitalismo d'assalto" favorendo i "nuovi schiavi" in un contesto di sostanziale "lavoro negato".

Quando ci si interroga da dove prendono linfa (e fiato) i vari populismi (spesso e volentieri infoltendo le fila delle peggiori destre suprematiste e sovraniste in chiavi anti-europea n.d.t) si deve riflettere su queste e altre emergenze ma non tanto per lasciare le cose così come sono ora ma, in realtà per cambiare. Radicalmente.


I diritti non bastano mai


Il bilancio tanto atteso è per il prossimo anno, il 2018 quando la Giornata Mondiale per i Diritti Umani raggiungerà il 70esimo anniversario della Dichiariazione Universale dei diritti umani. Ma anche oggi alla prevista conferenza ONU di Parigi - #10D - , nella Giornata mondiale dedicata a questo tema, emergeranno le minacce internazionali alla dignità degli individui.

Ma gli ultimi 365 giorni di questo 2017 segna una serie di soprusi a danno dei migranti e alle centinaia di omicidi di attivisti dei diritti umani denunciate a più riprese da Amnesty International; dai governi dittatoriali alla condanna dell'omosessualità in oltre 70 Paesi, fino all'accesso a istruzione, cibo e cure mediche che per molti resta  un miraggio.

"Un quadro disastroso", lo ha definito il Commissario ONU per i diritti umani, il giordano Zeid Ra'ad Al Hussein.







Tra le libertà negate, ce n'è una che è esplosa con la crisi economica globale: la libertà del bisogno. Quell'indigenza che, per il Relatore Speciale ONU su estrema povertà e diritti umani, Philip Alston, espone a troppe violazioni: stupri, prevaricazioni della polizia, fino alla manipolazione della politica.

Se è vero che  la miseria  s'è più che dimezzata dal 1900, oggi però continua ad affliggere 836 milioni di persone, sopratutto in Asia e Africa. Ma anche l'Europa ne soffre, con oltre 117 milioni di abitanti a rischio d'esclusione sociale. E in Italia, se nel 2005 le famiglie povere erano il 3,6%, oggi raggiungono il 6,3%: 4,7 milioni di individui che non riescono a pagare affitto, cibo, spese per i figli e altri beni e servizi necessari per una vita dignitosa. Con un nuovo allarme tra i giovani: "Per gli under 35, in 12 anni la povertà è quasi triplicata, dal 3,2% al 10,4%", spiega l'esperto Istat Federico Polidoro. "E tra i minorenni è passata dal 3,9% al 12,5%".

Ci sono poi i working poor: la miseria non è più tipica dei disoccupati, ma ormai riguarda il 12,6% degli operai (contro il 3,9% del 2005) e dei lavoratori autonomi (dal 2,3% al 6,/7%).
Inedite angustie post-crisi che, inasprendo gli animi, innescano un circolo vizioso di derive liberticide: secondo il centro studi Epicenter, se prima in Europa i partiti neofascisti erano appena all'1%, oggi superano il 12% dei consensi, con picchi oltre il 60% in Polonia e Ungheria. Presagi non certo confortanti per la cultura generale dei diritti umani.
(Fonte.:amnesty;un)
Bob Fabiani
Link
-https://www.amnesty.org;
-www.un.org/en  


sabato 9 dicembre 2017

"Questione Migranti": dopo #SummitAbidjan2017 tutti i leader UA-UE si dicono "Contro la schiavitù"







Il tema dell'emigrazione ha dominato il vertice tra l'Unione Africana (UA) e l'Unione Europea (UE) che si è svolto ad Abidjan, in Costa d'Avorio, lo scorso 29 e 30 novembre.

Era inevitabile - come scrive Jeune Afrique, dopo "lo scandalo internazionale scatenato dalla pubblicazione di un video che mostrava un mercato degli schiavi in Libia".





Sono tre le decisioni più importanti prese ad Abidjan dai rappresentanti di 80 paesi: la creazione di una forza d'intervento per smantellare il traffico degli esseri umani, che spesso ricalca le rotte africane del contrabbando di droghe e armi; l'evacuazione urgente dei campi (lager) in Libia dove sono rinchiusi i migranti africani; l'apertura di una commissione d'inchiesta dell'UA per affrontare i problemi legati alle migrazioni.
Moussa Faki Mahamat, il presidente della commissione dell'UA, ha parlato del rimpatrio urgente di 3.800 migranti, in gran parte originari dell'Africa occidentale, che vivono in condizioni "disumane" in un campo (lager) vicino a Tripoli. Ma il problema è molto più ampio: Faki ha detto che secondo il governo libico esistono altri 42 campi (lager), dove si stima che siano rinchiuse tra le 400 mila e le 700 mila persone.

Fin qui la cronaca legata al Summit di Abidjan che, complice l'inchiesta-denuncia della Cnn ha come squarciato la vergognosa coltre di "censura a mezzo stampa" messa in atto nel cosiddetto "mondo civilizzato e avanzato" permettendo in questo modo che, i vari governi europei - non ultimo quello italiano - stringessero accordi con gli stessi responsabili di questi "scempi umani".
Nelle scorse settimane, sulle pagine di questo blog abbiamo pubblicato una serie di approfondimenti al tema riportando anche le drammatiche testimonianze dei migranti scampati a naufragi, genocidi (tra le onde del Mediterraneo) e da indicibili torture che si praticano nel "lager libici". Ora che il vertice di Abidjan ha acceso i riflettori sul primario problema che investe i migranti - ossia l'odiosa pratica delle aste che (anche con il silenzio da parte di organismi più o meno autorevoli, con il silenzio-assenso dell'Unione Europea e dell'Italia che attraverso vari fondi di denaro pubblico ha consentito la nascita e il proliferare di questi lager dove sono totalmente assenti i più elementari diritti umani a danno dei migranti non ultimo donne e bambini) nel terzo millennio si permette di alimentare una vergognosa compravendita di quelli che sono stati ribattezzati - sopratutto sui nuovi social media - come #Slaver2017, un paese come l'Italia e la società civile (se ancora esiste) di stanza a Roma e dintorni non può far finta che il governo e l'attuale ministro degli Esteri, Marco Minniti devono prendere atto che gli accordi di questa estate tanto lodati e presi come "nuova formula per risolvere il problema degli sbarchi" non costituisca invece, uno dei punti più bassi del cinismo italico e della classe dirigente (compresa l'altra vergogna di un pseudo-governo a guida PD che non ha saputo e voluto fare una sacrosanta legge, lo #IusSoli per rendere a tutti gli effetti cittadini italiani tutti quei minori che sono nati in Italia per paura di essere travolti alle prossime imminenti elezioni politiche in programma nel 2018 cosa che avverrà comunque...).
(Bob Fabiani)


Lettera alle Ong : Appello per disertare il bando per "migliorare" i campi in Libia***


"Martedì 29 novembre scade il termine per partecipare al bando con cui il governo italiano finanzierà progetti di "primissima emergenza a favore della popolazione dei centri migranti e rifugiati" in Libia. Le Ong italiane possono accedere a un finanziamento totale di 2 milioni di euro, destinati a migliorare gestione e condizione di tre "centri migranti e rifugiati" dove "risiede parte della popolazione migrante mista in Libia".


                                                          ***
Si tratta a nostro avviso di un bando offensivo e vergognoso per almeno tre motivi:
  1. Quei centri non sono "centri migranti e rifugiati" ma sono veri e propri "campi di concentramento", come ampiamente documentato da ormai decine di media e organizzazioni di tutto il mondo. La definizione che il bando governativo ne dà (appunto "centri migranti e rifugiati") è talmente inesatta e ipocrita da usare il termine rifugiati in un Paese dove questa categoria non può esistere, perché non riconosce la Convenzione di Ginevra.
  2. L'intervento è previsto in "centri" dove (lo dice il bando stesso) la capacità di effettiva sorveglianza delle autorità ufficiali libiche è "in molti casi limitata", perché in realtà sono "gestiti da milizie locali". Le Ong italiane non hanno alcuna possibilità di agire in quei campi se non previo accordo con le milizie stesse, che ne gestiranno modalità di azione e relativo budget.
  3. Il tutto serve a un'operazione d'immagine per raddolcire o addirittura coprire le conseguenze disumane e raccapriccianti delle misure di blocco e respingimento dei migranti messe in atto da Italia e Europa a partire da agosto scorso, costate per altro 100 volte di più di queste misure di "primissima emergenza". 

Tutto ciò è inaccettabile.
Ci auguriamo che le Ong italiane sappiano non cedere a questo ricatto sin troppo evidente. Chiediamo alle persone, agli esseri umani che lavorano nelle Ong di avere la dignità di non partecipare a questo gioco e di unirsi a noi nel denunciare la scelta politica gravissima messa in atto dal governo italiano nell'attuare accordi con un Paese dove a governare sono milizie, violenza e razzismo.

                                             ***


La non partecipazione delle Ong al bando sarebbe un segnale importante per chiedere ai governi europei un'inversione di rotta necessaria: la chiusura dei campi di concentramento libici, la liberazione di uomini, donne e bambini e la garanzia di corridoi umanitari di fuga verso luoghi di reale accoglienza e sicurezza.".
***Alessandro Leogrande, Igiaba Scego, Andrea Segre e Dagmawi Yimer
*Questa lettera-appello è stata pubblicata sulle colonne de il manifesto di venerdì 24 novembre 2017 


Come avrete certamente notato il recente #SummitAbidjan2017 tra UA e UE ha in parte deciso di fare proprie alcune delle richieste contenute in questa lettera-appello lanciata circa una settimana prima del vertice in Costa d'Avorio.

Ma cosa hanno deciso di fare le Ong italiane : hanno aderito o meno a questo appello?
I grandi organi d'informazione italiani non hanno minimamente toccato l'argomento e a oggi non sappiamo ancora se qualcuna delle Ong italiane ha aderito sappiamo però - sempre grazie alle colonne de il manifesto - che qualcuna di queste ha deciso di boicottare il bando per "migliorare i campi in Libia" messa in atto in modo vergognoso dal governo italiano. 


Un Ponte per... dice no ai bandi per i campi in Libia*

"Un Ponte per... ha deciso da tempo di non partecipare a bandi della cooperazione italiana per la Libia e condivide i contenuti della lettera aperta pubblicata dal il manifesto - che chiede alle Ong di disertare il bando per "migliorare" i campi per migranti e rifugiati nel paese. L'invio di Ong sarebbe un'operazione d'immagine, una risposta ipocrita alle denunce che sempre più numerose giungono dalla Libia, dove migliaia di persone sono private della loro libertà e dignità e sono alla mercé di angherie e sopraffazioni di milizie private e di eserciti spesso implicati nella tratta di esseri umani e nella riduzione in schiavitù. Tali campi non diventeranno più umani se alle Ong sarà permesso, sotto il controllo di queste milizie, di entrarvi.
Abbiamo rifiutato di entrare nei campi profughi in Giordania quando erano prigioni a cielo aperto, e crediamo che il rifiuto delle Ong di lavorare in quelle condizioni sia necessario per produrne il cambiamento. Noi chiediamo una forte pressione politica da parte della comunità internazionale sulla Libia per garantire l'effettiva protezione dell'umanità oggi vergognosamente reclusa solo perché scappa da guerre, miserie e devastazioni ambientali. L'intera giurisdizione della prima accoglienza deve passare a Unhcr e Iom con l'allontanamento delle milizie e il riconoscimento implementazione da parte delle autorità libiche delle convenzioni internazionali di protezione di rifugiati e migranti.
Occorre inoltre un piano europeo più energico e coraggioso per i migranti, attraverso l'adozione di corridoi umanitari legali che consentano a chi ha diritto a forme di protezione di venire in Europa senza affrontare i viaggi della morte. Occorre cioè rovesciare l'attuale logica che sta dietro gli accordi firmati dal ministro Minniti con le autorità libiche, che hanno il solo obiettivo di respingere decine di migliaia di rifugiati e tenerli lontani, a qualsiasi costo - anche con campi di concentramento - dalle frontiere dei Paesi europei.
Auspichiamo che anche le altre Ong italiane disertino il bando sui campi in Libia, e non si prestino a coperture di vicende che con l'umanitario non hanno niente a che vedere.".
Martina Pignatti Morano*
                    Alfio Nicotra**
*Presidente e **Vicepresi-
    dente di Un Pnte Per...
*Questa lettera-risposta è apparsa sulle colonne de il manifesto  di sabato 25 novembre 2017 
(Fonte.:jeuneafrique;ilmanifesto;internazionale)
Bob Fabiani
Link
-www.jeuneafrique.com;
-www.ilmanifesto.it;
-www.internazionale.it




   

giovedì 7 dicembre 2017

#NoBanUnite4People (Se la Corte suprema Usa rilancia il #TravelBan).






Il 4 dicembre 2017 la Corte suprema degli Stati Uniti d'America ha rimesso in vigore il provvedimento voluto con tutte le forze dall'amministrazione Trump - di gran lunga la più reazionaria e razzista come non si vedeva a queste latitudini da molti anni, forse un centinaio - per impedire l'ingresso in Usa ai cittadini di Ciad, Libia, Somalia, Siria, Iran, Yemen Corea del Nord e Venezuela.
Si tratta dunque della terza versione del famoso e (vergognoso) #MuslimBan subito ribattezzato #TravelBan.
Ma cosa significa?
Il nuovo vergognoso editto di #TheDonald - appunto detto #TravelBan - significa (e si differenzia da quello lanciato nei primi drammatici 100 giorni di #TheDonald alla Casa Bianca) sostanzialmente stavolta dalle parti della Casa Bianca sono stati attenti a non investire con il divieto "solo" cittadini musulmani.
Possiamo senz'altro affermare che l'America deraglia sempre più nelle fobie e manie di quello che a oggi è il peggiore presidente della storia degli Stati Uniti: del resto, ai tempi del vaglio e del lancio del #MuslimBan e, della rivolta di molti giudici in molti stati americani (sopratutto quelli a guida progressista e democratica n.d.r) avevano bocciato questo editto - bollandolo come reazionario e in definitiva tacciandolo come "mosso da una mano di odio razziale" - il presidente (in perenne campagna elettorale) aveva minacciato e invocato la discesa in campo della Corte suprema per rimettere le cose a posto.
Era l'estate scorsa quando i giudici avevano bocciato la seconda versione del #MuslimBan.

Il ricorso alla Corte suprema segna una innegabile vittoria per Trump dato che, i repubblicani possono vantare la maggioranza assoluta nel novero di saggi o presunti tali chiamati a scrivere la parola finale su questioni delicati e della massima importanza nonché decidere della sorte di milioni di persone e cittadini americani.

Questa decisione avrà conseguenze drammatiche dato che d'ora in poi e in futuro renderà più probabile esprimersi a favore del divieto voluto e imposto da Trump e la sua amministrazione di falchi e reazionari che stanno facendo deragliare l'America in un gigante triste e sostanzialmente razzista.

La differenza nasce dal fatto che questo Ban coinvolge anche paesi non di religione musulmana certificando dunque il non profilarsi di una esclusione su base islamofobia ma per "ragioni di sicurezza nazionale".
In questa ottica però rimane come minimo bizzarra per non dire inconcepibile: l'Arabia Saudita è stata esclusa dall'orrendo bando di Trump eppure si tratta del paese coinvolto nell'attacco del 9/11, come chiamano in America quella drammatica giornata tutti i newyorkesi.







La decisione della Corte suprema ha un significato preciso: ora l'amministrazione Trump può applicare (a piacimento) le restrizioni - varieranno da caso a caso - mirano a impedire ai cittadini dei paesi coinvolti di emigrare negli Usa in modo permanente: a molti verrà impedito di lavorare, studiare oppure più semplicemente di andare in vacanza negli Stati Uniti.


La comunità somala dell'Ohio vede svanire il sogno di riunire le famiglie


In #Ohio precisamente a #Columbus vive la seconda comunità somala più grande d'America non appena è diventata ufficiale il via libera da parte della Corte suprema al bando ideato e ordinato da Trump è stata investita da un sentimento di scoramento e incredulità. Una sensazione di "sogno finito" dove per sogno si intende il "ricongiungimento delle famiglie somale": un sogno di una intera vita. E' una storia, mille storie comune a tutta la comunità somala ed è la stessa sorte toccata a Jamil Ibrahim - raccontata a una rete locale Tvb - quando, nel 2015 è riuscito a entrare in Usa insieme alla moglie e la loro bambina (all'epoca aveva sei anni) e ha dovuto lasciare indietro il figlio più grande, che allora aveva 14 anni. A quel punto il ragazzo avrebbe dovuto raggiungerli un anno dopo ma lo zampino delle procedure per ottenere il visto si sono complicate ritardandone la partenza: il ragazzo si trova ancora in un campo profughi in Uganda in compagnia di altri parenti e la possibilità di farlo arrivare in America ma ora sembra del tutto irrealizzabile.
Sono storie tutte uguali quelle di questi  "figli d'Africa" che sono arrivati dall'altra parte del mondo ripercorrendo le stesse rotte dei loro avi, ai tempi della schiavitù quando gli Oceani erano percorsi dalle "navi dei negrieri". Anche Jibril Ali arrivato dalla Somalia ha una storia simile a a quella di Jamil Ibrahim : si differenzia solo per il fatto che ha dovuto lasciare alla spalle la moglie e tre figli piccoli. L'idea era quella di raggiungere la famiglia.
Tutto finito. Spezzato. Cancellato per sempre.

Queste sono solo pochi esempi ma dietro la decisione della Corte suprema e grazie all'editto di Trump nei prossimi mesi e settimane andranno in scena la disperazione di centinaia e migliaia di cittadini di origine somala e in genere delle minoranze etniche e che certifica la definitiva scelta dell'America di Trump di isolarsi di ripiegare su stessa che altro non è che definitivo declino - altro che "America First" - se, però si deve dar credito alla vera agenda dell'amministrazione guidata da #TheDonald ecco che si potrebbe assistere a una vera e propria "deportazione di proporzioni bibliche" e, alla luce del sole con tanto di spedizione delle forze speciali - messe in cantiere da questa amministrazione - con l'intento di espellere tutto gli indesiderati.

E' una guerra, la solita, la stessa lanciata dalle elité contro i poveri e i migranti e se si dovesse fare una disamina su quanto è già avvenuto contro la comunità messicana che però aveva sempre vissuto negli Stati Uniti e di colpo si ritrova respinta e indesiderata. Sono la  faccia della stessa medaglia di quella "paranoia" - come è stata descritta dalla sinistra americana - che vede impegnata questa amministrazione a combattere una guerra senza quartiere nel tentativo velleitario di consegnare nelle mani uniche dei "suprematisti bianchi".

Il decreto a suo tempo bloccato da alcuni tribunali federali che avevano accettato i ricorsi delle associazioni  per i diritti civili, giudicando il provvedimento incostituzionale. "Ma non è ancora stata scritta la parola finale sul cosiddetto travel ban", e, a proposito di questo è previsto un caos di non facile lettura perché questo bando genererà non pochi drammi e problemi. In previsione di questo è stato riattivato l'account Twitter @NoBanJFK e stessa sorte è toccato il contatto email jfk-needalawier@gmail.com e il numero di telefono di emergenza per chi, giunto all'aeroporto newyorkese Jfk dovesse avere problemi.

Altre storie di sogni spezzati

"Non è sostenibile: se non cancelleranno quella norma per molti studenti come me proseguire gli studi di diventerà praticamente impossibile". Queste sono le amare parole di Hether Brinn, 24 anni le ha raccontate mettendo a nudo le sue paure per il futuro al quotidiano Boston Globe: la ragazza frequenta il secondo anno di dottorato all'Università del Massachusetts di Amherst dove studia "storia della cultura afroamericana".
Lunedì è scesa in piazza insieme a numerosi studenti per protestare contro una norma della fiforma fiscale che potrebbe portare i costi universitari alle stelle.
"Il peso economico di questa scelta rischia di devastare il sistema universitario", spiega un altro studente, Shawn Rhoads, 24 anni, dottorando di neuroscienze all'Ap durante la protesta che si è tenuta lo scorso 3 dicembre nel campus di Georgetown, a Washington.


Conclusioni

Il sito di uno dei tanti media statunitensi, Vox scrive sulla vicenda del #TravelBan : "La corte suprema sta ancora ascoltando gli argomenti di chi si oppone al provvedimento, e nelle prossime settimane dovrebbe emettere una sentenza definitiva sulla sua costituzionalità".
(Fonte.:vox;bostonglobe;ap;internazionale)
Bob Fabiani
Link
-www.vox.com;
-www.bostonglobe.com;
-https://www.ap.org/en-us;
-www.internazionale.it    
     

domenica 3 dicembre 2017

Destinazione Madagascar. Appunti di viaggio dall'Isola delle emozioni.*







*Con questo articolo inizia una serie di "speciali" dedicati al Madagascar. 
Le pubblicazioni si snoderanno su due piani: da una parte verrà raccontata la "Storia e la Cultura del Madagascar" e, dall'altra verrà aperto il "Taccuino personale" dei miei due viaggi sulla Grande Isola

Le pubblicazioni avverranno per tutto il mese di dicembre, buona lettura ai lettori.

(Bob Fabiani)





DALLE PAGINE DEL MIO PERSONALE TACCUINO DI VIAGGIO IN MADAGASCAR
                            (APPUNTI DEL PRIMO VIAGGIO MALGASCIO)




La Partenza - Roma, 2 settembre 2013, Aeroporto di Fiumicino



"Non potevo crederci che alla fine io ce l'avessi fatta. Stentavo a crederlo perché non so più quante volte avevo dovuto rimandare a tempi futuri la mia prima volta in Africa. Il fatto era che c'era sempre qualcosa che si metteva di mezzo tra me l'Africa. Tenendo duro però avevo vinto io, su tutti gli imprevisti...del comune vivere.
A volte però qualcosa che desideriamo con tuta la nostra forza, accade quasi...in modo imprevisto.

Capitava che da qualche tempo io fossi in contatto con alcuni amici musicisti francesi che avevo conosciuto ai tempi dei miei impegni radiofonici ormai datati più di di due lustri: è incredibile come noi ci facciamo prendere il sopravvento dalle piccole cose giornaliere e, per un motivo o per un altro, perdiamo completamente la "misura del tempo".

Lo confesso, è capitato anche a me.

In tutto questo lasso di tempo ero rimasto in contatto con alcuni membri della band che proprio in quei giorni del settembre 2013 avevano in procinto di fare una tournée in Madagascar e precisamente a Nosy Be e mi chiesero se me la sentissi di seguirli.

Jean, il leader del gruppo (una band di AfroReggae di Lione) aveva bisogno di un blogger che curasse le varie fasi di quella tournée e, in più - sempre a detta di Jean - se avessi accettato, non mi sarei limitato a fare il semplice lavoro di blogger ma, in realtà avrei potuto valorizzare i lavoro della band dato che, a mia volta io fossi un estimatore della musica e che alla fine, la mia sensibilità di musicista e percussionista sarebbe inevitabilmente venuta fuori.

Accettai.

Da almeno tre anni avevo pensato di fare un viaggio in Madagascar per un reportage che poi mi sarebbe servito per un mio futuro "romanzo africano" che volevo assolutamente scrivere quanto prima.

Ora stava accadendo e mi ritrovavo in trepida attesa dell'embargo: ancora qualche spicciolo d'attesa (in realtà si trattava di 50 minuti n.d.t) e poi avrei preso posto in aereo e mi sarei lasciato tutto alle spalle. Roma e il primo mondo.
Mi sentivo emozionato come un bambino ora che la mia destinazione Madagascar era realtà anche se, mi attendeva un volo di 14 ore prima di arrivare a destinazione...






Eccola la destinazione finale: avevo alla fine posato i miei piedi nell'Aeroporto Fascane di Nosy Be, Madagascar.
L'avventura malgascia poteva iniziare".
-Fine Prima parte-
Bob Fabiani   

     

sabato 2 dicembre 2017

Quelle testimonianze infernali dei migranti nei lager libici.






Durante l'ennesimo naufragio al largo delle coste della Libia che rende quel tratto di mare Mediterraneo sempre più macabro emergono le voci di chi è riuscito a scampare al genocidio.
Almeno per il momento.
Non c'è tuttavia nulla da festeggiare in quei volti impauriti, stravolti e umiliati di questa migrazione sempre più disumana.

Essere scampati alla morte certa tra le onde del mare per questi africani significa tornare direttamente nel centro dell'inferno dei lager libici. Significa finire di nuovo in quelle prigioni, spesso illegali spuntate come funghi grazie ai lauti fondi, elargiti dal tandem UE-Italia; prigioni gestite dalle milizie e dalle mafie.


Queste sono le loro testimonianze.








Donna camerunense racconta :

"Il mio bambino ha un anno e mezzo, è nato nel deserto del Niger. In Libia siamo stati in prigione per 5 mesi a Sabratha con il bambino. Una donna è morta dopo aver partorito, il cordone era stato tagliato col filo perché non c'è niente: niente medicine, niente cure. Non ci si poteva lavare. Ci mettevano droga nel cibo, l'acqua non era potabile".

Le voci di queste testimonianze che arrivano direttamente dall'inferno libico, laddove l'umanità di tutti (nessuno escluso) sembra per sempre compromessa, sospesa; sono quelle delle donne d'Africa provate, umiliate, stuprate eppure, malgrado queste tragedie, riescono ad avere quel tratto tipico della "fierezza africana".
Le guardi dritto nei loro grandi occhi e il messaggio che arriva è quello di una speranza, di un tentativo di instaurare un "ponte di legalità" dove poter ripristinare quel minimo di diritti umani e civili che sono totalmente calpestati per questa umanità africana costretta a fuggire da altre tragedie, altre guerre, dalla povertà causata anche dai cambiamenti climatici al pari dei governi corrotti capaci di spedire tutti sul lastrico.
Ma questa è solo una parte di verità che si va a sommare al cinismo e ai diktat imposti dal cosiddetto primo mondo che considera l'Africa sempre come terra di conquista dove poter disporre a suo libero piacimento delle risorse e delle materie prime che, per esempio, in Europa latitano e non da oggi.

Le parole di denuncia di queste donne non sono parole spese a vanvera ma, al contrario sanno andare dritto al cuore del problema e, sono pronunciate senza filtri.

"La tratta dei neri esiste in Libia. In Libia tutti sono armati, anche i bambini. Si sentono spari dappertutto. Prendono le donne, le torturano, ti spogliano e ti perquisiscono. Gli uomini e i bambini vengono sodomizzati. Spezzavano le dita alle ragazze chiudendole nelle porte. I trafficanti ci hanno spinto in mare dicendoci 'andate a morire nel Mediterraneo'".

Nell'ultimo genocidio consumato nel tratto di mare davanti alle coste della Libia - naufragio accaduto negli ultimi giorni di novembre - i migranti sono stati divorati dagli squali e, tra essi c'erano 27 bambini. A sentire le voci dei migranti sbarcati a Catania - gli stessi scampati all'atroce fine di migranti bambini, donne e uomini diventati "pasto per pescecani" tra le onde del Mediterraneo ormai "Mare di morte" emergono anche altri indizi della tragedia delle violenze subite nei lager libici: "Dopo essere stati imprigionati in Libia molti di noi sono stati picchiati e torturati con i cavi elettrici" - raccontano i migranti e aggiungono "queste torture servivano ad estorcere soldi alle nostre famiglie rimaste in Africa".
Questa ultima testimonianza trova riscontro dalle voci di alcune donne eritree che spiegano: "I trafficanti mentre torturavano molti di noi erano in collegamento con i nostri parenti in Eritrea, in questo modo li costringevano a pagare".
Forse è anche per questa ragione che i migranti sbarcati a Catania, per esseri finalmente riusciti a uscire dall'inferno di quei lager libici che direttamente dal porto della città etnea hanno inscenato canti e balli, nella più autentica tradizione africana.
  


Le drammatiche condizioni dei migranti nel lager libico di Abu Salim










Esiste un filo conduttore che tiene unite tutte queste testimonianze infernali dei migranti: sono le denunce delle donne che, con le loro voci provate riemergono dall'inferno in terra, rappresentato dalla Libia condannata a essere uno "Stato fallito" dopo la guerra del 2011 voluta dagli europei, sopratutto dalla Francia allora guidata dal presidente Sarkozy smanioso di togliere di mezzo Gheddafi, l'unico in grado di tenere a bada quelle milizie che oggi invece detengono il potere in quello che resta della Libia.
Sono voci di migliaia di migranti - donne e bambini - costretti a stare reclusi in queste prigioni, in condizioni estreme. Tutto è avvolto in detenzioni arbitrarie che, tuttavia in Libia diventano legalizzate con la deplorevole connivenza di UE e della stessa Italia.

Sono avvolti dal silenzio e dal buio.

A migliaia questi "figli e giovani madri d'Africa" sono costretti a stare in gabbie, sbarre con temperature che sfiorano i 40 gradi : anche questa visione rimanda agli orrori delle odiose pratiche della schiavitù di due secoli prima quando, venivano venduti alle aste di "schiavi africani", una volta arrivati nel cosiddetto "nuovo mondo", ossia gli Stati Uniti d'America.
Ma oggi avviene tutto attraverso la tecnologia - come ha testimoniato l'importantissimo reportage di Cnn - dove, un numero imprecisato di migranti-schiavi sono comprati e venduti da questi mercanti-trafficanti che, per troppo tempo sono stati tutelati e sovvenzionati ai massi livelli di un paese come la Libia dove non esistono regole e, a imperare è solo il caos, un caos prodotto dall'assurda guerra del 2011 che ha replicato in Africa, i disastri americani in Medio Oriente e, in epoca più recente in Siria creando una serie di "Stati fantasma" dove a imperare è solo la violenza e i soprusi di ogni genere contro la popolazione inerme.

Nel distretto di Tripoli che prende il nome di Abu Salim (centro di detenzione) l'Oim - Organizzazione internazionale per le migrazioni, stima che siano almeno 6 mila i migranti detenuti ma si tratta di stime per difetto e comunque riferite al mese del giugno scorso. Nelle celle - che sono pensate per 4 persone - viene in realtà condiviso da 20 donne e 20 bambini, stipati uno accanto all'altro. Le mamme pettinano i capelli delle bambine. Non esistono giocattoli, né acqua sufficiente per tutti. I detenuti sono spesso costretti a defecare e urinare nelle loro celle.

Sono storie di dolore collettivo e al tempo stesso individuale dove, tuttavia emerge, con chiarezza come il prezzo più alto è pagato dalle donne, giovani madri e dai bambini, i minori indifesi. Queste storie sono testi di una umanità in fuga da guerre, fame e dittature che dopo aver attraversato  il deserto subiscono lunghe detenzioni illegali gestito da milizie vicine a quel governo libico non riconosciuto in Libia ma imposto dall'ONU, UE e a cui l'Italia si appoggia per respingere e rimpatriare i migranti.
Sono detenzioni illegali concessi a bande di trafficanti di armi e droga, gli stessi che sono passati in massa a infoltire le fila della guardia costiera libica, armata e addestrata dalla Marina italiana usando fondi e risorse pubbliche dei cittadini italiani.

Dopo il drammatico reportage Cnn che ha squarciato il vergognoso silenzio che copriva le aste di migranti per vendere schiavi africani, al recente Summit UA-UE di Abidjan, i leader delle due istituzioni hanno capito che il problema deve essere affrontata seriamente. Il primo obiettivo è svuotare questi lager ma chissà se l'UE ha capito che è necessaria una strategia e non un intervento "in emergenza", come sottolinea Filippo Grandi dell'Unhcr.
Non sarà così facile riuscire nell'impresa: Federico Soda, direttore dell'ufficio del coordinamento per il Mediterraneo dell'Oim ammonisce : "E' dura sgomberare quelle prigioni. In gioco ci sono troppi soldi" e aggiunge "la Libia non ha formalmente alcun dovere nei confronti dei rifugiati, perché non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951. Inoltre l'instabilità del governo locale rende tutto più problematica ogni operazione".
Lo stesso Soda sottolinea: "Puntiamo a organizzare un volo al giorno per i rimpatri", come ratificato al termine - pochi giorni fa - del Summit di Abidjan 2017.
(Fonte.:jeuneafrique;mondediplomatique;internazionale;espresso)
Bob Fabiani
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