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martedì 30 giugno 2020

Mali, ONU proroga di 1 anno missione Minusma









La situazione sul campo in Mali è sempre complessa: nonostante gli sforzi della Francia e del governo maliano per sradicare i miliziani jihadisti dal Mali continui senza soste, i risultati sono scarsi. Non aiuta anche la situazione politica interna al paese africano: il governo non riesce ad arginare le violenze e, la popolazione, è sempre più sfiduciata.
Vista la situazione, il Consiglio di sicurezza ONU ha deciso all'unanimità di prorograre di 1 anno il mandato della missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Mali (Minusma), ossia fino al 30 giugno 2021.
(Fonte.:rfiafrique)
Bob Fabiani
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-http://rfi.fr/afrique/mali

lunedì 29 giugno 2020

Quando Bob Marley stregò gli stadi di Milano e Torino (27-28 Giugno 1980)










Il 27 giugno 1980 a San Siro in Milano e il 28 al Comunale di Torino il profeta del Reggae, Bob Marley fu il protagonista  di due date indimenticabili. Insieme ai Wailers - il suo storico gruppo di cui faceva parte anche Peter Tosh fino al 1974 - proprio a Milano, Bob Marley, diede vita al suo miglior "live".







Prima del concerto-evento di Bob, sul palco era salito un giovanissimo Pino Daniele che, da poco, aveva inciso uno dei suoi primi capolavori: Nero a metà.


Il profeta del reggae Bob Marley aveva posato i suoi piedi per la prima volta in Italia, il giorno precedente al concerto del Meazza, sbarcando all'aeroporto di Linate. A una domanda - dal tono vagamente razzista e sprezzante - dell'inviata del Tg2, che gli faceva notare l'apparente incongruenza fra la denuncia della Babylon capitalista e gli ingenti guadagni percepiti con la musica rispose: "I soldi sono importanti per l'uomo bianco, che ne ha fatto una religione".

Quella sera si esibì a San Siro, di fronte a 80 mila persone.






E 24 ore più tardi sbarcò al Comunale: era sabato 28 giugno 1980, una giornata soleggiata d'inizio estate.
Il pomeriggio si aprì con il grande bluesman romano Roberto Ciotti, cui seguirono Pino Daniele e gli scozzesi dell'Average White Band, penalizzati da un volume in sordina e accolti con malcelata indifferenza, se non addirittura fischiati. Troppo differenti dal sound in levare del reggae e, poi, siamo onesti (40 anni dopo ...): tutti erano lì per Bob Marley.
Che si fece attendere.






Calato il sole, intorno alle 21,30, sul palco salirono The Wailers, i 7 Wailers insieme alle I Threes guidate dalla moglie Rita, protagoniste di un preludio in 4 canzoni. Poi arrivò il momento tanto atteso. Nel tripudio dello stadio, finalmente arrivò Bob: saltellante a ritmo di "skank" (il suono in levare della chitarra ritmica nel reggae; accompagnata da basso e batteria e il resto degli strumenti ...), con i dreadlocks agitati in aria come tentacoli (contro Babilonia ...).
Iniziò a intonare l'intensa Natural Mystic (canzone che l'accompagnò nell'ultimo viaggio terreno, in Giamaica, nel giorno del suo funerale), poi Positive Vibration, War/No More Trouble e No Woman No Cry, Jaming ed Exodus (Movement of Jah People).

Era l'epilogo, nel tripudio dello stadio milanese e poi replicato l'indomani, a Torino.





Ma il momento più intenso arrivò con il bis: Bob tornò in scena solo, abbracciando la sua mitica chitarra Ovation, per intonare quello che poi sarà il suo testamento spirituale: Redemption Song.

E ricominciò la festa.

Il ritmo pulsante, incalzante, ipnotico del reggae invase nuovamente lo stadio: in rapida successione Could You Be Loved, Is This Love, Roots, Rock, Reggae e poi Zimbabwe, Zion Train e la trionfale chiusura con la potente e rivoluzionaria Get Up Stand Up, scritta anni addietro con Peter Tosh.

Quando Bob arrivò in Italia era all'apice della sua missione artistico-musicale. In aprile di quel 1980 era tornato in Africa (dopo il viaggio del 1978 in Etiopia viaggio che gli servì per scrivere l'album Survival che uscì nel 1979 e conteneva al suo interno le canzoni Zimbabwe Africa Unite; n.d.t) partecipando alla festa per l'Indipendenza (dal Regno Unito n.d.t)dell'ex Rhodesia tramutata in Zimbabwe.

Era appena uscito Uprising, quello che sarebbe stato a tutti gli effetti il suo ultimo "Album inedito" e, il 30 maggio era partita da Zurigo la tournée trionfale che lo portò a suonare dopo l'Italia, in Spagna, Francia, Irlanda, Regno Unito e Stati Uniti. Qui la marcia trionfale s'interruppe il 23 settembre a Pittsburgh, il teatro dell'ultimo show.
Bob Marley arrestò il suo lungo cammino verso la celebrità planetaria l'11 maggio 1981 quando, i sintomi di un male incurabile lo portarono via: aveva appena 36 anni.
Il chitarrista di Kingston fu la prima grande star del cosiddetto Terzo Mondo, capace attraverso le sue canzoni di parlare di giustizia, unità, amore e pace a tutti i giovani, neri o bianchi che fossero perché, i suoi brani erano "canzoni di libertà" per tutti gli oppressi, in qualsiasi parte del Pianeta si trovino, ancora oggi, 40 anni dopo.
(Fonte.:rollingstone) 
Bob Fabiani
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-www.rollingstone.it

Madagascar, prorogato lo stato emergenza sanitaria a causa del Covid-19













Il primo ministro malgascio Christan Ntsay ha annunciato in TV le misure da seguire per continuare la lotta contro il Covid-19 e sabato sera, in Consiglio dei ministri, lo stato di emergenza sanitaria è stato prolungato di 15 giorni.
La Grande Isola  conta 2.138 casi e 20 decessi.
Questa settimana il paese, che è in parziale decontenimento, ha visto un aumento del numero di persone affette da coronavirus, in particolare nella capitale Antananarivo.
(Fonte.:rfiafrique)
Bob Fabiani
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-http://www.rfi.fr/fr/afrique/madagascar   

domenica 28 giugno 2020

Libia, 100 civili uccisi dalle mine anti-uomo (secondo l'ONU)








Dalla partenza degli uomini di Khalifa Haftar da Tripoli all'inizio di giugno, oltre 100 persone, principalmente civili, sono state uccise o ferite dalle mine anti-uomo poste dai combattenti prima di abbandonare il terreno della capitale.
E' quanto emerge da un rapporto redatto dalla missione ONU in Libia.
Il governo di Unità nazionale di Tripoli ha denunciato  i crimini di guerra commessi dall'esercito di Haftar nella capitale libica durante l'assedio.
(Fonte.:rfiafrique)
Bob Fabiani
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-http://www.rfi.fr/fr/afrique/libye

L'Editoriale: Se la statua di Montanelli spiega perché l'Italia non è innocente











La lotta iconoclastica che sta attraversando le piazze del mondo pone al centro del dibattito internazionale il tema della memoria e dei criteri che ogni società sceglie per rappresentare se stessa  attraverso la toponomastica, gli anniversari, i monumenti e gli eroi che decide di celebrare o di far cadere nell'oblio.
In Italia al centro di questa discussione c'è Montanelli. Giornalista e fondatore del quotidiano Il Giornale, convinto fascista in giovane età, comandante di una compagnia di àscari durante l'invasione dell'Etiopia, proprietà di Destà, una bambina di 12 anni comprata per 350 lire con un prezzo di favore dal padre, Montanelli è diventato il simbolo controverso dei valori che definiscono la storia coloniale e la cultura italiana.

Il dibattito sulla memoria è sempre stato complicato. In Comunità immaginate (1983) il sociologo Benedict Anderson ha parlato di "legami affettivi del nazionalismo" per descrivere il modo in cui la memoria è stata a lungo usata per generare un senso di appartenenza nazionale. La storia di questa appartenenza, tuttavia, è spesso controversa, inserita dall'epoca moderna in una lunga sequela di campagne di conquista, violenza e saccheggio, celebrate di solito come eroiche dai vincitori.

In questi giorni, i movimenti sociali di tutto il mondo hanno portato alla luce come dietro la sacralità dei monumenti eretti per celebrare la storia occidentale e le sue vittorie, non ci siano geste eroiche ma truci storie di violenza intrise di razzismo e di misoginia, che hanno inflitto un dolore acuto a una parte molto grande della popolazione mondiale.

Nelle ultime settimane sono stati abbattuti i principali baluardi di questa storia: dalla Statua di Cristoforo Colombo, decapitata a Boston e buttata pancia a terra in Minnesota, quale simbolo stesso del tentativo di celebrare il colonialismo europeo come un'avventura piuttosto che come l'atto inaugurale del genocidio delle popolazioni indigene, da allora espropriate, ridotte in schiavitù, chiuse in riserve come racconta Benjamin Madley in An American Genocide (2016); fino a Leopoldo II, il re del Belgio che ha brutalizzato il Congo, torturato e mutilato milioni di africani, tolto dal suo piedistallo e decorato con la parola "Razzista" prima di essere rimosso ad Anversa.
Negli stessi giorni, il Regno Unito gettava nel fiume la statua di Edward Colston, trafficante di schiavi responsabile del prelievo forzoso e della deportazione di 100 mila africani nelle colonie contro la loro volontà, mentre a Oxford il movimento studentesco Rhodes must fall chiede la rimozione dalla prestigiosa università inglese della statua di Cecil Rhodes, convinto assertore del primato della razza bianca nel mondo, suprematista bianco e imperialista ammirato da Hitler per la sua fede nel ruolo benefico del giogo coloniale in Africa.


-Un razzismo strutturale

Le proteste  che incalzano la celebrazione eroica della storia coloniale si susseguono ovunque, ma sono divampate anzitutto negli USA, dove 114 monumenti confederati su 1.747 sono stati rimossi negli ultimi 5 anni, in seguito alla sparatoria nella chiesa di Charleston di Dylann Roof, suprematista bianco che nel 2015 ha ucciso 9 afroamericani per dichiarare l'inizio della guerra razziale. La brutalità di quel gesto ha gelato il paese, inaugurando un difficile processo di riflessione sui valori che sigillano la storia nazionale, un processo che ha chiamato in causa il tema spinoso della memoria e i monumenti che gli Stati Uniti hanno scelto per rappresentare la propria identità.
Uno dei momenti chiave di questo processo è stata la manifestazione Unite the right del 2017 durante la quale diversi movimenti di suprematisti bianchi si sono riuniti a Charlottesville, Virginia, per opporsi alla rimozione della statua del generale della confederazione Robert E. Lee.

Erika Doss racconta in Memorial mania (2010) come all'indomani della fine della guerra civile americana siano stati eretti centinaia di monumenti dedicati a politici e militari della confederazione, a indicare la decisione di unire il Nord e il Sud nel nome della supremazia bianca. La narrazione messa in scena nel film di David Wark Griffith del 1915, Nascita di una nazione, nel quale gli schiavi liberati apparivano come mostri e stupratori, mentre il Ku Klux Klann era presentato come il ritratto patriottico della libertà, si riflette nell'iconoclastia statunitense, evidenziando come il legame affettivo che sigilla la nascita della nazione sia il dominio razziale.

Questi monumenti sono il promemoria quotidiano di un presente razzista.

Il diritto di continuare a trattare gli afroamericani come schiavi è il sottotesto delle reazioni alle proteste contro le statue dei confederati.
Proteste che sono il riflesso dell'incarcerazione di massa, della brutalità della polizia e, in generale, della segregazione e della disumanizzazione strutturale e sistematica dell'America nera.

La lotta iconoclasta sta costringendo la società occidentale a fare i conti con il razzismo strutturale della sua storia. In questo senso non si tratta di un processo simbolico, ma di una crisi di identità, che mette in discussione l'aura sacra con cui è stato celebrato per vari secoli il colonialismo europeo come riflesso di una sollevazione antirazzista e anticoloniale. Black Lives Matter significa questo, che la supremazia bianca che vive nella cultura occidentale deve essere messa a nudo e rivelata per il ruolo che esercita nella istituzioni, nella cultura e nei monumenti della nostra società, non solo ai tempi di Cristoforo Colombo, ma anche nel 2020, ai tempi dell'omicidio di George Floyd.


-In Italia


In Italia le richieste di rimuovere la statua di Montanelli dai giardini di porta Venezia (Milano) è stata ricevuta come un oltraggio.
Il solito controcanto per giustificare quelle stimmate razziste di cui l'Italia è piena. Minimizzare, inneggiare all'oltraggio perché in fondo "di errori ne facciamo tutti". Un coro di giornalisti, economisti, politici tutti insieme per ribadire che: "La memoria di Indro Montanelli è sacra".
Queste parole spiegano in modo chiaro il razzismo strutturale.
Il concetto di sacro in questo contesto è importante. Dire che la memoria di Montanelli è sacra significa richiedere la sospensione del giudizio e pretendere un'adesione incondizionata. La levata di scudi di un'ampia parte del giornalismo maschile italiano a protezione di Montanelli, in questo senso, non è problematica  solo in sé, ma in quanto difende ciò che ha rappresentato, l'adesione impunita e impenitente al suprematismo bianco, la capacità di presentare la violenza razzista come eroismo, la nostalgia per l'invincibilità del dominio occidentale, e con essa, di quel modello di uomo che può esercitare sulle sue prede lo stesso dominio che i militari esercitano in guerra.


"Non occorre un intuito psicologico freudiano per avvedersi che un indigeno ama il bianco solo in quanto le teme o in quanto lo tiene infinitamente superiore a sé. Niente indulgenze, niente amorazzi. (...) Il bianco comandi. Ogni languore che possa intiepidirci di dentro non deve trapelare al di fuori".


Non c'è molto da aggiungere dopo queste righe scritte da Montanelli: si parla di uno stato di soggezione intriso di crudeltà, che incoraggia in modo magistrale dominio di corpi e supremazia bianca, misoginia e fascismo, in una concezione di dominio bianco che in Italia non è mai stata messa in discussione. Da questo punto di vista, il suo rapporto con Destà (dodicenne etiope) e la conquista coloniale sono per Montanelli la stessa cosa: un'avventura con il quale il colono poteva divertirsi, nel sesso e in guerra, forte del suo dominio incontrastato.

Tuttavia quello che c'è dietro a questa sofferenza e a queste gesta è l'unico aspetto di questa storia di cui in Italia non è dato parlare. La violenza, le razzie, le scorrerie e gli eccidi della storia coloniale italiana, il massacro di massa guidato dal macellaio Rodolfo Graziani e l'uso di gas tossici contro gli etiopi per placarne la resistenza, sono non solo questioni che Montanelli ha negato per 50 anni ma parti della storia italiana che il dibattito pubblico pubblico si rifiuta di affrontare.
La negazione, il silenzio e la volontà di sminuire alimentano invece un'altra catastrofe, perché consentono la ripetizione della violenza coloniale nel presente.
(Fonte.:internazionale;nytimes;theatlantic)
Bob Fabiani
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sabato 27 giugno 2020

News For Africa n°18 (il Continente informa)







Nuovo appuntamento con News For Africa. In questo numero:


  • Sierra Leone, il ritorno a scuola delle ragazze madri
  • Angola, missione verde per la giovane superministra
  • RDC, la fine di Ebola nel Nord-Est
  • Covid-19 Africa, i casi raggiungono i 350 mila contagi









-Sierra Leone, il ritorno a scuola delle ragazze madri 









Da qualche settimana, in Sierra Leone, alle ragazze incinte e alle mamme minorenni è permesso tornare a scuola. Per 10 anni ne erano state bandite: a loro era proibito di studiare. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, l'indegno provvedimento non riguardava un'esigua minoranza di infelici teenager.
Il travagliatissimo paese dell'Africa Occidentale oltre il terzo delle gravidanze, per la precisione il 36% sono di adolescenti. E appena 38 ragazze ogni 100 arrivano a frequentare le scuole medie.
Questa tragica situazione ha un perché. La Sierra Leone è stata devastata da una feroce guerra civile durata una decina d'anni e finita nel 2002 (uno dei tanti conflitti dimenticati e ignorati dalla comunità internazionale). La lenta ricostruzione avviata nel nuovo secolo ha subito un'altra battuta d'arresto con l'epidemia di Ebola del 2014 - 2016.
La Sierra Leone, con circa 4 mila morti, è stata il secondo paese più colpito. Le scuole sono rimaste chiuse per lunghi periodi, migliaia di ragazze abbandonate a se stesse, costrette a provvedere come potevano alla propria sopravvivenza, vittime di soprusi e violenze. Quasi 20 mila le gravidanze precoci.
Il divieto di frequentare la scuola alle giovanissime mamme  voleva essere un deterrente, considerata la fame di istruzione che c'è in tutta l'Africa. Ma il rimedio è stato molto molto peggiore del male.
Donatori, ong, attiviste si sono battuti per anni contro quella legge discriminatoria. Finalmente, dopo le recenti condanne da parte di corti internazionali, il 30 marzo scorso ne è stata annunciata la revoca immediata. Poi è arrivato il coronavirus. In Sierra Leone, a oggi, sono stati segnalati 1.394 casi con 59 decessi.
Il presidente ha assunto poteri d'emergenza e annunciato provvedimenti estremi, sull'esempio di altri paesi africani come la Nigeria, il Kenya e il Sudafrica.
In questo scenario da incubo, le scuole rischiano di restare chiuse a tempo indeterminato.
(fonte.:jeuneafrique;bbcafrica;theguardian)



-Angola, missione verde per la giovane superministra





Adjany da Silva Freitas Costa, più in breve Adjany Costa, è una donna molto giovane e in gamba. Ha 30 anni, parla 6 lingue, è biologa, ha frequentato le università di mezza Europa e attualmente è dottoranda in Zoologia a Oxford
Nella sua breve vita si è già meritata diversi premi e insomma è una ragazza eccezionale. Nata in Angola, dall'aprile scorso, è stata nominata ministro dell'Ambiente, del Turismo e della Cultura del paese africano.
Mai nessun angolano aveva occupato una poltrona ministeriale in così giovane età. Figurarsi una donna. I media di tutto il mondo sottolineano che il suo non è un dicastero qualunque, ma un superministero, formato accorpandone tre.
Quella del presidente Joao Lourenço è stata una decisione innovativa e coraggiosa, anche se Adjany, inesperta di politica, dovrà stare attenta a non lanciarsi allo sbaraglio.
Il suo compito infatti non è per nulla banale, anzi è strategico.
Dalla fine della guerra civile, 18 anni fa, la rinascita dell'Angola è stata fondata sulla rendita petrolifera; ma il declino del prezzo del greggio  - e la corruzione - la stanno rapidamente esaurendo. La missione della neo-ministra è riuscire a coniugare conservatorismo e turismo per mettere a disposizione del suo bellissimo e immenso paese altre, più durevoli fonti di reddito.
Adjany Costa avrà poi un altro compito: far dimenticare  con il suo esempio un'altra donna molto in vista e molto chiacchierata della scena pubblica angolana, Isabel Dos Santos, figlia dell'ex presidente, già a capo dell'ente petrolifero di Stato, una delle imprenditrici più ricche e potenti d'Africa: è scappata in Portogallo per sfuggire alle accuse di riciclaggio e corruzione.
(fonte.:jeuneafrique;afp)


-RDC, la fine di Ebola nel Nord-Est del paese








La fine dell'epidemia di Ebola, scoppiata nel Nord-Est della Repubblica Democratica del Congo, è stata annunciata ufficialmente dal Ministro della Sanità RDC, Longondo Eteni.
Si è trattato di uno dei focolai di Ebola più lunghi e mortali della storia. 
La decima epidemia lascia dietro di sé 2.300 morti  e un sistema sanitario indebolito che ora lotta contro il Covid-19, il morbillo e il colera.
(fonte.:who.int.afro;medicisenzafrontiere)



-Covid-19 Africa, i casi raggiungono i 350 mila contagi







Nonostante in Africa la pandemia da coronavirus sia arrivata molto dopo rispetto ad altri continenti è indubbio che, il suo avanzare sia costante e senza tentennamenti. I media internazionali tendono a censurare o, nel migliore dei casi a inserire le news del grande continente nella casella delle "brevi e ultimissime" , l'Africa fa registrare aumenti triplicati. Certo i numeri - se paragonati a quelli dell'Europa, degli Stati Uniti oppure del Sudamerica sono decisamente più contenuti - tuttavia, i disastri della grave crisi sanitaria globale sono evidenti anche nel Continente nero. E' in atto una drammatica recessione e ovunque, nei 54 paesi avanza la povertà.
I dati dell'ultimo bollettino dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), aggiornato al 27 giugno 2020 parlano di 356,442 casi di contagi e i decessi sono 9.156.
Ecco la situazione paese per paese:

Sudafrica 124.590/2.340 Egitto 61.130/2.533 Nigeria 23.298/554 Ghana 15.834/103 Algeria 12.685/885 Camerun 12.592/313 Marocco 11.465/217 Sudan 9.084/559 Costa d'Avorio 8.739/64 RDC 6.552/148 Senegal 6.354/98 Kenya 5.533/137 Etiopia 5.425/89 Guinea 5.260/29 Gabon 5.209/40 Gibuti 4.643/52 Mauritania 3.739/19 Rep.Centrafricana 3.340/40 Somalia 2.870/90 Mali 2.060/113 Madagascar 2.005/16 Sud Sudan 1.952/36  Guinea Bissau 1.556/19 Zambia 1.531/21 Sierra Leone 1.394/59 Congo 1.204/39 Tunisia 1.164/50 Niger 1.059/67 Benin 1.053/14 Guinea Equatoriale 1.043/12 Malawi 1.005/13 Burkina Faso 934/53 Ciad 865/74 Ruanda 858/2 Uganda 848/0 Mozambico 788/5 Eswatini 731/8 Sao Tomé&Principe 712/11 Libia 698/18 Liberia 684/34   Togo 591/14 Zimbabwe 561/7 Tanzania 509/14 Mauritius 341/10 Comore 272/7 Angola 212/10  Eritrea 167/0 Burundi 144/1 Botswana 125/1 Namibia 102/0 Gambia 44/2 Lesotho 24/0 Seychelles 20/0
(fonte.:who.int/afro)
Bob Fabiani
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venerdì 26 giugno 2020

Madagascar, 60 esimo anniversario d'Indipendenza (26 Giugno 1960 - 26 Giugno 2020)









Il Madagascar celebra oggi 26 giugno 2020, il 60esimo anniversario dell'Indipendenza dalla Francia con una serie di attività in tutta l'isola.
Le cerimonie sono guidate dal presidente malgascio Andry Rajoelina con una grande parata tenuta ad Antananarivo, la capitale, sul viale dell'indipendenza, dove le truppe fiancheggiavano le strade  mentre il presidente era a bordo di una antica Cadillac.









Gli eventi sono in corso nonostante la crisi sanitaria causata dal Covid-19 (la situazione nell'isola a oggi vede 1.922 casi con i decessi di 16 persone) con la maggior parte dei funzionari di sicurezza e altri partecipanti che indossano mascherine.



-Democrazia e dimostrazioni: presidenti e rivoluzioni








Il giorno dell'indipendenza è anche l'occasione per dare spazio ai ricordi di quanti hanno subito le conseguenze della drammatica stagione coloniale con le cicatrici dolorose impresse sulla pelle che riecheggia anche tra la generazione di oggi.

Una delle vittime dei padroni coloniali è Randriamamonjy, combattente per l'indipendenza del Madagascar.

"Ogni mattina ci facevano salire su per la collina. I fucilieri senegalesi con i francesi attuavano una guardia arcigna e spietata, ci frustavano come se fossimo asini che tirano un carro".

Riannodando i fili dei ricordi conclude: "Ci hanno fatto camminare su terreni accidentati, avanti e indietro. Ore e ore. La pelle si lacerava per queste pratiche. Ho ancora cicatrici sulle ginocchia e sulla schiena, ancora oggi. I senegalesi ci apostrofavano così: "Ti arrendi adesso?". Io rispondevo sempre alla stessa maniera, l'unica possibile: preferivo morire con i miei fratelli caduti".


-La storia









Il 1947 segnò l'inizio della rivolta per l'indipendenza che durò fino al 1949 e provocò la morte di 100 mila cittadini. Alcuni furono uccisi nell'insurrezione, altri morirono di fame e freddo dopo essere fuggiti nelle foreste.
Il Madagascar è tra i primi paesi a ribellarsi contro i padroni coloniali nel 1947 in Africa. La libertà arrivò solo 13 anni dopo, il 26 giugno 1960: l'anno dell'Africa.
Quando la Francia decise di concedere l'indipendenza al Madagascar, Philibert Tsiranana fu uno dei candidati alla presidenza, carica che ottenne nel 1959.
I malgasci non hanno avuto molte opportunità per esercitarsi nella democrazia. Durante il periodo monarchico o quello dell'occupazione francese non vi erano le premesse. Persino una volta ottenuta l'indipendenza nel 1960, all'elezione del primo presidente seguì ben presto l'improvviso arresto dei tentativi democratici. Nel 1972 un golpe portò l'esercito al potere. 
Dal 1975 la dittatura militare si consolidò tramite l'ammiraglio Didier Ratsiraka. Dalla fine del dominio monopartitico nel 1991 il Madagascar sta tentando di instaurare la democrazia.

-Una rivoluzione pacifica

L'emancipazione politica del popolo malgascio iniziò nei tardi anni Ottanta, assieme alle crescenti critiche e opposizioni al sistema di governo. Tale sviluppo sfociò negli anni 1990/91 in grandi dimostrazioni contro il regime in corso. E' interessante osservare che nello stesso periodo anche nei paesi del centro ed est Europa ci furono insurrezioni contro il regime dittatoriale.

Nella prima metà del 1991 centinaia di migliaia di persone si riversarono giorno dopo giorno nelle strade per dimostrare pacificamente a favore di un cambiamento politico. Di questo enorme movimento dell'Africa verso la democrazia l'opinione pubblica si accorse a malapena, in quanto a quell'epoca erano i cambiamenti politici in Europa ad attirare tutta l'attenzione. Grazie al "potere al popolo" si arrivò infine a un governo di transizione e nel 1993 alle prime libere elezioni democratiche dopo due decenni.
(Fonte.:africanews;jeuneafrique;madagascartribune)
Bob Fabiani
-www.africanews.com
-www.jeuneafrique.com
-www.madagascar-tribune.com


giovedì 25 giugno 2020

La diga della discordia sulle acque del Nilo











La grande disputa sulle acque del Nilo, le tensioni tra Etiopia, Egitto e Sudan a causa di una diga voluta da Addis Abeba dimostrano che le contese per le risorse idriche si stanno inasprendo. Con quali conseguenze?
L'Egitto teme che i lavori potrebbero complicare una situazione idrica già grave a causa delle politiche del regime di Al Sisi.
Sullo sfondo però si intravede sempre più minacciosa, lo spettro della "guerra dell'acqua" che potrebbe sconvolgere il continente: colpisce che in questa vicenda, Trump, si sia proposto come mediatore tra Addis Abeba e il Cairo.

AfricaLand Storie e Culture africane, in questa inchiesta cercherà di far luce sulla grande disputa che si sta giocando sulle acque del Nilo.


-Le acque contese del Nilo












Qualche tempo fa il governo etiope ha sistemato una compagnia di musicisti in una serie di capanne con vista sulla valle e sulla diga. Là in cima gli artisti suonavano, prendevano appunti e riflettevano su quello che succedeva a valle, sul significato per il paese e per il continente africano.
Il governo etiope aveva deciso che servivano nuove canzoni, e aveva portato lì, nell'estremo Nord-Ovest del paese, un gruppo di artisti. Fatti imbarcare su un aereo nella capitale Addis Abeba, sballottati per 5 ore a bordo di una Toyota su strade sterrate, erano approdati in quella zona infestata da coccodrilli. Uno di loro si era steso sul letto del Nilo Azzurro: sembrava sbadigliare in direzione della diga che troneggiava a qualche centinaio di metri di distanza con i suoi 1.870 metri di lunghezza e 145 di altezza.
Gli etiopi vogliono avviare la chiusura delle paratie, in modo da formare un lago gigantesco. La diga dovrebbe funzionare a pieno regime nel 2022, con 5 anni di ritardo rispetto ai piani. Ma è previsto che due turbine comincino a produrre elettricità nel dicembre del 2020.

"La diga permetterà di lasciarci alle spalle un secolo di diffidenza nei confronti del Nilo", diceva l'ingegnere capo Simegnew Bekele durante una visita guidata al cantiere nel marzo 2017. Con il casco in testa, Bekele guardava la diga: dietro di lui soffiava un vento che trasportava la sabbia del Sudan e davanti decine di enormi lampioni illuminavano il grande cantiere, mentre sotto volteggiavano le scintille prodotte dalla saldatura dei congegni delle turbine. Nonostante il rumore, il caldo e la polvere, c'era un'atmosfera particolare, come se ogni giorno fosse quello della fine dei lavori.

"Forse il maggior pregio della diga è stato quello di unire il paese", notava l'ingegnere, che in Etiopia è considerato un piccolo eroe nazionale. Dal punta di vista degli etiopi la diga porterà vantaggi a tutti.

"Produrremo energia per tutta l'Africa", si rallegrava Bekele.

L'impianto idroelettrico legato alla diga ha una potenza di 6.000 megawatt, più o meno l'equivalente di cinque centrali nucleari. Abbastanza per un continente il cui sviluppo è frenato anche dai frequenti blackout. Secondo Bekele sarà un vantaggio anche per i paesi vicini: le linee che portano in Sudan sono già state posate.
Quando tutte e sedici le turbine saranno in funzione, produrranno più elettricità di quanta l'Etiopia ne consumi. Questo paese un tempo poverissimo oggi conta di esportare elettricità in Spagna e in Turchia. Ma i paesi vicini, il Sudan e l'Egitto, che hanno sempre diviso tra loro l'acqua del Nilo lasciando l'Etiopia a bocca asciutta, temono molto la diga.









-La madre della Terra



Duemilacinquecento anni fa lo storico greco Erodoto scriveva che "l'Egitto è un dono del Nilo". I circa cento milioni di egiziani chiamano il fiume umm al duniya, madre della Terra, e sono convinti che la sua acqua gli appartenga.
Guardare il Nilo dall'alto è un'esperienza quasi religiosa: le sue rive sono come un nastro verde che attraversa il deserto del Sahara. Oltre il Cairo, in corrispondenza delle chiuse di Al Qanatir e Al Khayriyya, questo nastro si apre a ventaglio, come una foglia di ginkgo biloba: vicino ad Alessandria il fiume si divide in due rami che puntano al Mediterraneo, uno verso la città di Rosetta e l'altro verso quella di Damietta.






Un'accesa controversia divide gli studiosi su quale sia il fiume più lungo del mondo tra il Rio delle Amazzoni e il Nilo.
Il fiume africano ha due affluenti, il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco; il secondo, il più lungo dei due, ha origine dal lago Vittoria, in Uganda. Il Nilo Azzurro invece nasce dal lago Tana, sull'altopiano etiope; è più breve, ma il suo apporto di acqua è decisamente maggiore quando i due fiumi si uniscono a Khartoum. Più che azzurro è marrone, per via dei sedimenti trasportati dalle acque. Quel che è certo è che nessun altro fiume al mondo ha la stessa importanza del Nilo per tante persone: il suo bacino tocca 11 paesi, dove vive il 6 per cento della popolazione mondiale.
Da secoli l'Egitto si considera il custode della acque del Nilo, la grande civiltà che ha il diritto di vigilare sullo stato di salute del fiume. E di sfruttarlo. L'Egitto consuma moltissima acqua per la sua popolazione, che aumenta di due milioni di persone ogni anno. E fa già i conti con la siccità idrica, che secondo i parametri delle Nazioni Unite si verifica quando la quantità d'acqua pro capite è inferiore mille metri cubi all'anno. La disponibilità egiziana al momento è di appena 570 metri cubi. Secondo le previsioni, nel 2025 l'acqua non basterà più per la popolazione che nel frattempo avrà raggiunto i 115 milioni di abitanti.

Cosa succederà se l'Etiopia chiuderà i rubinetti per riempire la diga?

Già alla fine dell'Ottocento, l'Egitto cominciò una sanguinosa guerra contro l'Etiopia quando al Cairo si diffuse la convinzione che Addis Abeba voleva il Nilo tutto per sé. Il conflitto rischia ora di ripetersi. Nel 2011, quando l'Etiopia decisa di costruire la diga, il governo egiziano valutò la possibilità di lanciare degli attacchi aerei. L'attuale presidente, Abdel Fattah al Sisi, sostiene  di non volere una guerra, ma allo stesso tempo dichiara di tenere "tutte le opzioni aperte". E anche il premier etiope e premio nobel per la Pace 2019 Abiy Ahmed non ha escluso un conflitto se non si troveranno altre soluzioni.
Egitto, Sudan ed Etiopia s'incontrano da anni a intervalli regolari, per discutere della quantità di acqua del fiume che spetta a ciascuno di loro e per stabilire quanto tempo concedere agli etiopi per riempire la diga. Le minacce si sono alternate ai negoziati. Il punto più controverso è individuare un meccanismo per stabilire quanta acqua l'Etiopia debba far passare attraverso la diga nella fase di riempimento, negli anni di siccità e in quelli di pioggia abbondante. A un certo punto si è deciso di incaricare alcuni ingegneri indipendenti di raccogliere dati nei tre paesi ed elaborare una simulazione su cui poi basare un accordo. Per stabilire di cosa dovesse occuparsi l'indagine ci sono voluti anni di discussione, e altri ancora per decidere a chi affidarla. Alla fine i tre paesi hanno assegnato una ricerca preliminare a uno studio francese allo scopo di definire le modalità della ricerca vera e propria.


-Una crescita a due cifre 


Le tensioni sono aumentate a ottobre, quando l'Egitto è tornato a parlare della possibilità di una guerra contro l'Etiopia. Mosca si è offerta mediatrice e il 24 ottobre 2019, a margine del vertice Russia-Africa organizzato dal presidente russo Vladimir Putin a Soci, si è svolto un incontro tra il capo di stato egiziano e il premier etiope. L'incontro del 6 novembre a Washington con i rappresentanti di Etiopia, Egitto e Sudan è "andato bene", commentava in un tweet il presidente statunitense Donald Trump. Il 25 gennaio i ministri degli esteri e delle risorse idriche dei tre paesi, riuniti a Washington, hanno raggiunto un accordo iniziale.
Questo conflitto dimostra che l'acqua è una risorsa sempre più contesa. In Africa è tutto. In molte zone è il primo pensiero al mattino e l'ultimo alla sera. L'acqua è fonte di vita, ma quando scarseggia è anche fonte di ostilità. Da un secolo a questa parte le cose sul Nilo vanno così. Ma ora l'Etiopia vuole cambiarle.
Il nome del progetto che deve aiutare la nazione a risorgere è Grand ethiopian renaissance dam (Grande diga del rinascimento etiope). Per decenni si è parlato del paese e sopratutto per le pance gonfie dei bambini affamati, e non per la cultura millenaria, i paesaggi mozzafiato, le foreste vergini e i deserti di sale. Da anni, però, l'economia cresce con tassi a due cifre (dato ovviamente pre-pandemia da Covid-19 n.d.t); Addis Abeba è percorsa da una linea di tram e in uno stabilimento di periferia si assemblano cellulari di ultima generazione. Lo scopo della diga è anche celebrare questa nuova Etiopia, che il mondo non può più ignorare.
Ma per le aziende straniere, comprese quelle cinesi che in Africa sono ovunque, la diga era un'impresa che creava troppi problemi. Perciò inizialmente gli etiopi l'hanno finanziata da soli. In quasi tutti gli appartamenti e i negozi del paese c'è un titolo di credito incorniciato con il nome del donatore e l'importo. Anche se molti etiopi erano ostili al regime autoritario di allora, chi poteva ha dato un contributo e così sono stati raccolti 4 miliardi di dollari.

Prima di poter produrre elettricità, però, bisogna riempire il lago artificiale: un'operazione che richiede dai tre ai venti anni, a seconda dell'esperto a cui ci si rivolge. In questo arco di tempo l'Etiopia limiterà l'acqua  che scorre attraverso il Sudan e l'Egitto.

"Si tratta di un riempimento progressivo", aveva risposto l'ingegnere Bekele a una domanda sulla questione.

Cosa voleva dire?

"Ma è evidente!". La sua espressione non ammetteva altre domande. Non aveva voglia di discutere con i giornalisti di un argomento così delicato.
A quel punto Bekele si era alzato ed era entrato nel fabbricato che ospitava la mensa. Quel giorno, come tutti gli altri, il menù offriva melanzane e carciofi fritti come antipasto, poi spaghetti e cotoletta.
L'Etiopia è l'unico paese dell'Africa subsahariana a non essere mai stato colonizzato e gli etiopi lo fanno notare a ogni straniero nei primi dieci minuti di conversazione. Gli italiani ci provarono a lungo, ma furono sempre sconfitti, fino a quando le truppe di Mussolini riuscirono a tenere il paese sotto un controllo approssimativo per qualche anno.
Ma quando perse la seconda guerra mondiale l'Italia perse anche l'Etiopia.
Gli etiopi non sembrano portare rancore: l'incarico di costruire metà della diga, circa 700 chilometri a Ovest della capitale, è stato affidato proprio a un'azienda italiana, la Salini Impregilo. Per questo nella mensa del cantiere quel giorno si gustavano piatti italiani. Sulla collina più alta c'era il comprensorio che ospitava i caposquadra europei. A quanto dicevano gli operai, di sera a bordo piscina si tenevano festini a base di pizza, vino rosso e belle donne. Ma in quel momento la piscina era vuota e regnava il silenzio.
L'altra metà della diga è stata commissionata a un'azienda legata alle forze armate etiopi, chiamata Metals and engineering corporation (Metec). E' il metodo cinese: per far crescere l'industria nazionale si autorizzano le joint ventures, in modo da sfruttare un po' le competenze altrui. Seduti con una bottiglia di birra davanti alle loro capanne, gli operai etiopi rimproveravano alla Metec i ritardi nel progetto.

"Se continua così non basteranno 30 anni per finire", ha detto con irritazione il premier etiope Abiy Ahmed nel luglio 2018. Qualche giorno dopo, l'ingegnere capo Bekele è stato trovato morto nella sua auto, vicino al corpo c'era una pistola. Secondo la polizia si è sparato, forse perché temeva di non riuscire a finire la diga. Milioni di etiopi hanno pianto la sua scomparsa e ci sono state manifestazioni violente per chiedere vendetta. Abiy ha subito revocato l'incarico alla Metec, considerata corrotta, e sono state trovate aziende europee e cinesi per finire la diga il primo possibile.


-Mesi secchi e piene


"Non vedo l'ora che la diga sia pronta", dice Khawad A. Amin. Sugli umori del Nilo, che scorre a pochi metri di distanza, potrebbe scrivere un libro.

"Da sei anni il fiume pare impazzito". L'acqua è sempre troppa o troppo poca, e in entrambi i casi il raccolto va male. Nel suo campo ai margini della capitale sudanese Khartoum, alcune persone stanno scavando per cercare l'acqua di falda, che nei mesi secchi sprofonda sempre più in basso. Poi seguono le piene: "L'acqua era troppa e le piante sono tutte morte", spiega il contadino. Amin spera che la diga possa regolare la situazione. Questo è l'argomento che usano gli etiopi per convincere i loro vicini: con la diga ci sarà una quantità d'acqua costante tutto l'anno.

Le oscillazioni del Nilo sono estreme: a Khartoum il livello del fiume varia di otto metri, a seconda della stagione. L'85 per cento dell'acqua si concentra nei mesi delle piogge (da fine giugno a settembre).
Sulla carta il Nilo ha sempre la stessa portata d'acqua: stando a un accordo del 1959 tra Egitto e Sudan, esattamente 84 miliardi di metri cubi all'anno, misurati presso la diga di Assuan. L'accordo fissò anche la quantità d'acqua che sarebbe spettata a ciascuno: 18,5 miliardi di metri al Sudan e 55,5 all'Egitto (altri 10 evaporano o sono assorbiti dal suolo). Nel 1929 i coloni britannici avevano firmato un patto simile. All'Etiopia non spettava nulla: per questo le sue canzoni esprimono tanta amarezza.

"I numeri sono solo stime: hanno poco a che vedere con la realtà", dice Ahmed el Tayeb nel suo enorme ufficio. El Tayeb dirige il Centro di ricerca nazionale sull'acqua del Sudan e conosce i livelli di quasi tutte le annate. Secondo lui, negli ultimi anni sono arrivati più di 100 miliardi di metri cubi d'acqua, ma la maggior parte è scorsa via. La siccità ha fatto inaridire i campi, mentre per gestire le piene è stato necessario aprire le chiuse delle centrali idriche, che altrimenti sarebbero state divelte.

"La diga consentirà di sbarrare il passaggio alla massa d'acqua nella stagione delle piogge, per poi suddividerla nell'arco di dodici mesi", spiega El Tayed.

Oltre all'agricultura ne gioverà anche la produzione di elettricità: grazie all'apporto regolare d'acqua la produzione delle centrali sudanesi dovrebbe aumentare del 20 per cento circa.


-A dura prova


Nel 1960, il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser fece erigere la grande diga di Assuan, nazionalizzando il canale di Suez per finanziarne la costruzione. La diga diventò un simbolo nazionale: larga 980 metri alla base, chiude la valle del Nilo per 4 chilometri a 111 metri d'altezza. L'acqua si raccoglie in un lago artificiale che arriva fino al Sudan. Il lago Nasser può contenere un quantitativo d'acqua rispetto a quello che potrà contenere il nuovo lago etiope e ha protetto l'Egitto da inondazioni e siccità, regalandogli fino a tre raccolti all'anno.

Tuttavia anche l'Egitto mette a dura prova il Nilo: l'acqua è verde e piena di buste di plastica e altra immondizia.
Al Cairo i politici non sanno fare altro che minacciare l'Etiopia perché temono la chiusura di un rubinetto che loro invece vogliono tenere aperto, per far fiorire il deserto grazie a progetti prestigiosi. Sul lago Nasser i politici hanno fatto costruire un impianto di pompaggio gigantesco, il più grande del mondo, che prende il nome dal deposto presidente Hosni Mubarak. Le sue 24 pompe alimentano un ampio canale di cemento: si dice che trasporti 25 milioni di metri cubi d'acqua al giorno.
Il governo progetta la bonifica di 8.400 chilometri quadrati nel mezzo del deserto, un'area grande dieci volte Berlino, dove dovrebbe trasferirsi un egiziano su cinque. Il progetto si chiama Toshka; aveva cominciato a pensarci Nasser, poi l'idea fu abbandonata e ripresa più volte.

Il Cairo con i suoi 25 milioni di abitanti, e il delta si nutrono delle acque del Nilo: più del 90 per cento delle risorse idriche del paese proviene dal fiume. Eppure nei dintorni della città le rive sono piene di impianti industriali che sottraggono l'acqua e l'avvelenano con gli scarichi.
L'Egitto paga un prezzo alto per aver addomesticato il Nilo: il mar Mediterraneo sta rosicchiando il delta e in alcune zone del paese si perde un centinaio di metri di costa all'anno. La salinizzazione del suolo e delle acque di falda impedisce l'agricoltura. Alla foce di Alessandria, da tempo il fiume non è più grandioso. A Damietta ormai l'acqua ristagna salmastra e non arriva al mare. A Rosetta arrivano solo 140 metri cubi d'acqua al secondo. L'inquinamento costringe i pescatori a spingersi molto lontano. Secondo le previsioni degli scienziati, nel 2030 un terzo del delta del Nilo sarà sommerso nel mar Mediterraneo.
Ma l'Etiopia sembra insensibile a questi scenari terrificanti: al governo importa solo costruire nuovi canti di gioia ai vecchi lamenti. Una delle canzoni tradizionali dice: "Da migliaia di anni il fiume non ci dà niente". Non sarà più così, finalmente. Nelle capanne con vista sulla valle, i musicisti hanno composto nuove canzoni che non lasciano spazio ai compromessi. Lodano la diga, la lungimiranza del governo e gli etiopi: "Ora il Nilo aiuta anche noi e non solo i nostri vicini".


-La nuova geopolitica dell'Africa (con Trump mediatore)







In Africa è iniziata una nuova geopolitica della pandemia. Guerra dell'acqua tra Etiopia ed Egitto, crisi sanitaria ed economica per l'epidemia da coronavirus (l'ultimo bollettino OMS parla di 300 mila casi in tutti i 54 paesi e oltre 8.000 decessi), invasione delle locuste e nel mezzo la rivalità tra Stati Uniti e Cina in Africa Orientale.
Trump che si propone come improbabile mediatore tra il Cairo e Addis Abeba ("Voglio inaugurare la diga Gerd") mentre minaccia tagli all'OMS e accusa il suo capo, Tedros Ghebreyesus, ex ministro etiope della sanità e degli esteri, di essere troppo dalla parte di Pechino.
Addis Abeba ha così schierato l'esercito intorno alla "Grande diga della rinascita etiope" (Gerd), controverso progetto sul Nilo che coinvolge il Sudan.
Etiopia ed Egitto e sta provocando tensioni sempre più forti con il generale-presidente Al Sisi, il beniamino di Trump. Il Cairo teme che la diga sul Nilo Azzurro, al confine fra l'Etiopia e il Sudan, limiterà le forniture di acqua da cui dipende mentre Addis Abeba afferma che il progetto realizzato dall'italiana Salini-Impregilo e dai cinesi, è cruciale per il suo sviluppo: l'Etiopia può diventare il maggiore esportatore africano di energia elettrica.
La Diga del Rinascimento sarà la più grande del continente. I cinesi, che hanno investito 2 miliardi di dollari in turbine e generatori, ritengono questo progetto fondamentale.
Durante l'era maoista la presenza cinese in Etiopia era fondata sulla necessità di ottenere la solidarietà africana contro Taiwan e l'Occidente. Oggi la Cina è interessata all'Etiopia sulla base di un calcolo politico: Addis Abeba offre a Pechino un contesto in cui poter esercitare la propria influenza presso l'Unione Africana (AU), la Commissione economica per l'Africa dell'ONU e altre istituzioni come l'OMS. Inoltre Pechino ha aperto la sua base militare a Gibuti  - altro cliente cinese - e l'ha collegata con una ferrovia ad Addis Abeba.
Ma esistono anche ragioni economiche: l'Etiopia è il secondo stato più popoloso dell'Africa (112 milioni) e rappresenta un importante mercato per le merci cinesi.
Non è un caso che Pechino abbia fatti di Addis Abeba il punto di arrivo e di distribuzione anche verso altri Paesi africani degli aiuti per combattere il virus. E che il premier etiope Abiy Ahmed, Nobel per la pace 2019, sia in costante contatto con Xi Jinping ma anche con Putin. L'attacco all'etiope Tedros, capo dell'OMS, non l'ha preso certo molto bene, e come lui l'Unione Africana (AU) che ha reagito con veemenza contro Trump.
Se è vero che Tedros ha dichiarato in ritardo l'emergenza globale il 30 gennaio  - con il forte sospetto che il viaggio a Pechino del 28 gennaio da Xi Jinping, fosse più di carattere politico che incentrato sulla salute pubblica  -  Trump, che ha in dispregio ogni organizzazione multilaterale, aveva già minacciato di tagliare fondi all'OMS, indebolendo ancora di più il anti-epidemie. Ora gli americani pagano duramente le sue sottovalutazioni e i suoi pregiudizi.
Tra questi l'errore peggiore è stato il taglio degli investimenti sulla ricerca dei virus.
Nell'ultimo decennio era stato sostenuto il programma Predict, finanziato da Usaid, l'agenzia americana per la cooperazione internazionale. Grazie a Predict erano stati identificati anche in Africa, 900 nuovi virus da animali compresi 160 nuovi ceppi di coronavirus. Ma Trump nell'ottobre 2019 ha deciso di chiudere Predict ritenuto troppo favorevole alle istanze ambientaliste ed ecologiste.
Guerra dell'acqua, pandemia e diplomazia adesso si intrecciano in Africa Orientale. Sulla Grande Diga Trump è sceso in campo al fianco dell'Egitto ma la mediazione di Washington  è fallita.
La disputa rientra nella storica contesa sullo sfruttamento delle acque del Nilo. Il Cairo giustifica le sue pretese sulla base dei trattati codificati dalle autorità coloniali britanniche a favore di Egitto e Sudan (l'allora Sudan anglo-egiziano) nel 1902 e 1929. Nel 1959, i due Paesi, divenuti indipendenti, stipularono un accordo sul razionamento degli 84 miliardi cubi di acqua annui d'acqua del fiume, assegnandone 55,5 a favore del Cairo che con l'accordo tra Nasser e l'Urss poi terminò la diga di Assuan (1970). L'Etiopia, parte non contraente di questi trattati, iniziò a valutare la possibilità di costruire una diga sul Nilo ma venne frenata negli anni della guerra civile, con il rovesciamento dell'imperatore Haile Selassie da parte del governo militare del Derg di Menghistu, e del conflitto dell'Ogaden con la Somalia. Il progetto fu così avviato da Meles Zenawi nel 2010.
Il 26 febbraio scorso  Washington e il Cairo hanno stilato un accordo, rifiutato dall'Etiopia, sul riempimento del bacino della diga sulla quantità d'acqua che dovrebbe trattenere. Il negoziato si è bloccato, la tensione è salita e Trump non ha perso l'occasione per ripetere che Al Sisi è il suo dittatore preferito, aggiungendo che era lui "il meritevole del premio Nobel per la Pace" non il premier etiope : e con siffatti personaggi il rischio di una guerra non è purtroppo un opzione da scartare.
(Fonte.:jeuneafrique;sueddeutsche;ilmanifesto)
Bob Fabiani
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-www.jeuneafrique.com
-www.sueddeutsche.de
-www.ilmanifesto.it  
               

mercoledì 24 giugno 2020

Trump, tolleranza zero contro gli antirazzisti e nuovo comizio a Phoenix










"Dieci anni di carcere per chi
vandalizza o distrugge monumenti"
(Trump, presidente USA)







Il presidente americano, Donald Trump si scaglia contro il movimento Black Lives Matter: non tollera, nel modo più assoluto che i manifestanti - in rivolta per le pratiche razziste delle forze dell'ordine dallo scorso 25 maggio - nelle lotte contro il razzismo strutturale negli Stati Uniti, prendano di mira tutte le statue che rappresentano i simboli inneggianti allo schiavismo contro la comunità afroamericana e alle minoranze in USA.

Nel nuovo comizio per #USA2020, Trump parla di fronte a una platea di "studenti per Trump", accorsi in 3 mila, senza minimamente prestare attenzione alle precauzioni anti-Covid-19.





L'uscita di Phoenix è stata l'occasione per il "presidentissimo" di gettare la maschera: la campagna elettorale che condurrà - da qui ai prossimi 5 mesi - sarà incentrata e spingerà forte, contro il movimento BLM e la rivolta antirazzista. Lo ha ribadito nel comizio: per lui, non hanno motivo di esistere né le proteste e tanto meno la rivolta che ha incendiato tutta l'America. Non farà nulla per ascoltare le istanze delle proteste e delle lotte: anzi, si impegnerà ad alimentare odio e tensioni per spaccare e polarizzare ancor di più questa America 2020.
Sia durante l'incontro di Phoenix che nelle giornate precedenti, #TheDonald, a più riprese ha annunciato che i responsabili che abbattono statue che inneggiano a coloro che hanno alimentato lo schiavismo andranno incontro a pene severe: 10 anni di reclusione.






-Scontri tra polizia a manifestanti

Phoenix, in Arizona, è stato il teatro di scontri tra la polizia e i manifestanti che si trovavano all'esterno della Dream City Church dove, il tycon, ha tenuto il secondo comizio elettorale per la corsa alla Casa Bianca 2020.
La polizia ha usato lo spray al peperoncino per disperdere le centinaia di manifestanti radunati nella zona per esprimere il loro dissenso contro #TheDonald.


-Joe Biden in vantaggio nei sondaggi


Intanto, il suo rivale alle Presidenziali 2020, il "Dem", Joe Biden nei sondaggi è avanti di 14 punti: la corsa verso la rielezione per Trump si annuncia difficile e tutta in salita e, per questa ragione, il tycon, giocherà tutte le sue fiche contro la "feccia" rappresentata dalla rivolta antirazzista e schierandosi dalla parte dei suprematisti bianchi.
(Fonte.:nytimes;theatlantic)
Bob Fabiani
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-www.nytimes.com
-www.theatlantic.com

martedì 23 giugno 2020

Pandemia e lockdown nelle banlieue parigine. Parla il regista maliano Ladj Ly: "I miei Miserabili delle banlieue vittime di polizia e politica"









Come è stata vissuta la pandemia di coronavirus nelle banlieue parigine? Sono stati rispettati i diritti umani di chi vive in questi luoghi depressi dove, lo Stato francese al pari di tutti i governi della Repubblica, negli anni, non sono stati in grado di risolvere un problema antico: l'integrazione di questi cittadini francesi di seconda generazione?
E' in questi quartieri alla periferia di Parigi dove è più presente la "questione della violenza della polizia" di tutto questo parla il regista di origine maliane Ladj Ly.

Ly è il regista del film francese tratto da Hugo (appunto I Miserabili n.d.t), premiato a Cannes, ai César e in finale agli Oscar. Ha debuttato on demand sulla neonata piattaforma Mio Cinema.




-Ladj Ly: "I miei Miserabili delle banlieue vittime di polizia e politica


Premio della Giuria a Cannes 2019, nella cinquina del film internazionale agli ultimi Oscar, 2 milioni e 200 mila spettatori in Francia: l'esordio del regista di origine maliane Ladj Ly, I Miserabili (Les Misérables), prende titolo e quartiere (Montfermeil) da Victor Hugo, la storia di poliziotti colpevoli, ragazzini inermi e diffuse complicità della realtà difficile delle banlieue.









-Ladj Ly, sulla "questione banlieue e lockdown".


Un bilancio catastrofico.Sono quartieri molto poveri, la gente non arriva a fine mese, non ne può più. C'è chi ha messo in atto azioni di sostegno, ma è una polveriera: gli ultimi sono le prime vittime. E la polizia non aiuta: è  molto violenta, ancor più nei mesi del chiusura per pandemia.


-Il problema della polizia


Sì, è un problema. Serio. Ha carta bianca, almeno, ritiene di averla e di potersi permettere tutto: fa paura. I video sugli abusi dei poliziotti non si contano più.


-Immobilismo e incapacità dei politici


Mi sono sempre chiesto: cosa fanno i politici? La realtà è che sono i cattivi coltivatori di cui parlo nel film, i responsabili di quel che è accaduto: nella gestione della crisi sanitaria globale non sono migliorati. Penso al reperimento delle mascherine: in Marocco è stato gestito benissimo, da noi, qui in Francia no. Incredibile, ma dovranno renderne conto.


-La percezione della Francia sul significato di vivere nelle banlieue

Nessuna percezione. Siamo sempre stati messi da parte, bollati come feccia. Però qualcosa è cambiato, i gilets jaunes hanno aperto gli occhi su altre condizioni di disagio, nelle province. E sull'enorme violenza poliziesca: ci sono gilet gialli che negli scontri con le forze dell'ordine hanno perso un occhio, una mano.


-Il presidente Emmanuel Macron  sconvolto dal film




Sì, il presidente Macron ha visto il film ed è rimasto sconvolto, ha chiesto ai suoi ministri di trovare una soluzione, ma nulla di fatto è cambiato: i politici si sgolano da 30 anni, e poi non fanno niente. Siamo stati abbandonati una volta di più, hanno mandato solo più poliziotti.


-Il mancato riscatto delle banlieue


Nel 2005 si sono sollevate tutte insieme, per un mese è stata rivolta, ma poi non è cambiato molto, anzi: le promesse non sono state mantenute, la violenza non è finita.

-Coronavirus e banileue 

La pandemia da coronavirus ha portato qualche soluzione e per questo penso che non tutti i mali vengono per nuocere, la gente è tornata ad aiutare il prossimo, e il virus, come abbiamo visto, colpisce tutti. E' la fine di un'era, del mondo capitalista per come lo conosciamo? Forse, di certo nessuno è indenne.


-Soluzioni ai problemi delle sofferenze secondo Ly


Cultura e istruzione, sono le priorità. Ne parlo a ragion veduta, nel mio quartiere Montfermeil ho fondato una scuola di cinema: è aperta a tutti, gratuita, è un successo. E' quella la strada da percorrere. Detto questo, io faccio il mio, ho denunciato cinematograficamente le condizioni di vita delle banlieue: i politici facciano il loro, è ora.


-Un territorio abbandonato dallo Stato: chi ne prende il potere? E l'Islam su questo tema come si pone?

Il rappresentante del mondo islamico ha un ruolo, lo mostro bene nel film, inutile negarlo. Ma dobbiamo mollare i luoghi comuni su radicalizzazione e jihad: Islam e terrorismo non sono sinonimi.


-Progetti futuri






Dagli USA mi sono arrivate tantissime proposte, serie gigantesche e perfino un film Marvel, ma ho detto di no a tutto: continuo con I Miserabili, ne farò una trilogia, un secondo capitolo sulla rivolta del 2005 vista attraverso gli occhi del sindaco socialista di Clichy-sous-Bois Claude Dilain, il terzo ambientato negli anni Novanta.
(Fonte.:mediapart;ilfattoquotidiano)
Bob Fabiani
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-www.mediapart.fr
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lunedì 22 giugno 2020

Beffa Tulsa










E' iniziata decisamente col piede sbagliato la campagna per le Presidenziali 2020 di Donald Trump. E' un momento decisamente complicato per il "presidentidsimo", in caduta libera nei sondaggi di gradimento degli americani oltre che incalzato - sempre più in modo compatto - dal movimento Black Lives Matter che si batte in favore dell'antirazzismo e per i diritti civili degli afroamericani.

La beffa di Tulsa, lo svuotamento del comizio di #TheDonald portato in porto con prenotazioni fasulle, è il primo successo politico di una generazione nuova, ironica e veloce.

A Tulsa dietro il flop di presenze per Trump, uno scherzo virale su Tik Tok: è questa la spiegazione che ne da il NYtimes dopo l'invito a registrarsi al comizio per poi non presentarsi.

Come se tutto questo non bastasse e dopo i ripetuti manrovesci presi in faccia,  prima ad opera della Corte Suprema che, nella scorsa settimana gli aveva dato torto su uno dei punti cardini del suo mandato presidenziale: sancendo che è "illegale lo stop al programma dreamers" ossia, quel programma pensato per difendere gli irregolari arrivati in USA da bambini (l'amministrazione guidata da #TheDonald voleva espellerli tutti...) e successivamente, a ridosso del clamoroso flop andato in scena a Tulsa - la stessa città che nel 1921 fu teatro del peggior massacro razziale ai danni della comunità afroamericana - , Trump aveva cercato disperatamente di bloccare la pubblicazione del nuovo libro di John Bolton, l'ex consigliere alla sicurezza nazionale ma, anche in questo caso, #TheDonald non ha potuto portare in porto l'obiettivo che si era prefisso: il Dipartimento Giustizia USA gli ha dato torto. Il libro è uscito e contiene una "stroncatura totale della presidenza del Tycon".





Lo stesso Bolton nelle varie interviste concesse alle televisioni americane ha detto chiaro e tondo che "Trump non è adatto a fare il presidente" e dato che c'era, ha voluto anche rendere pubbliche le sue intenzioni di voto a novembre per le Presidenziali 2020: "Non voterò per lui a novembre".

Ma non è il solo.

Alcuni giorni prima quando era già divampata la rivolta dopo la brutale uccisione di George Floyd, era intervenuto l'ex presidente repubblicano Bush jr. per criticare la svolta militare di #TheDonald che, per sgomberare le proteste di Washington - ossia quelle che anche durante il comizio per pochi intimi ha attaccato e di nuovo chiamata "feccia e terroristi che hanno a cuore la distruzione della nostra storia" - aveva chiamato l'esercito USA ricevendo una valanga di "niet" perché, sostanzialmente, gli Stati Uniti non sono un "regime autoritario"; in quella occasione Bush jr. si era scagliato contro Trump e aveva annunciato di "non votare alle Presidenziali di novembre per Trump".
(Fonte.:nytimes)
Bob Fabiani
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domenica 21 giugno 2020

L'Editoriale: La lotta antirazzista in USA (e nel mondo) e l'istigazione all'odio di Trump










"Sono il presidente dell'ordine e della legge"
(Donald Trump, presidente USA)





All'indomani della disumana morte violenta di George Floyd - avvenuta a Minneapolis il 25 maggio scorso - in USA è divampata una rivolta contro il "razzismo istituzionale" della polizia americana che assassina cittadini della comunità afroamericana. E' stata la scintilla. E gli Stati Uniti d'America bruciano. Non accadeva dal 1968 da quell'aprile '68 dove era stato giustiziato Martin Luther King Jr.
Non è solo una rivolta disperata quella portata avanti dal movimento Black Lives Matter ma una nuova stagione per il mondo intero. Anche per altre questioni: economiche, sociali e di genere.
La questione irrisolta degli Stati Uniti d'America non può più essere rimandata: va risolta così come nel resto del mondo.
Le manifestazioni di protesta - che da quel 25 maggio non sono mai cessate - mettono sul tavolo una serie di quesiti che non possono essere ignorate. Non possono esserlo perché al loro interno pongono un'urgenza di fondo (in America come nel resto del mondo): la voglia di cambiamento radicale.







La lunga scia di violenze e abusi di potere, lo strisciante odio razziale che non è mai stato accantonato in America è arrivato al punto di non ritorno. E non solo negli Stati Uniti in fiamme. Questo drammatico convivere della comunità afroamericana con la condotta razzista e l'odio razziale delle forze dell'ordine al pari della società americana ha prodotto una nuova stagione di lotta. Ma se questo da una parte era più che plausibile, le manifestazioni che si sono succedute dopo l'assassinio di George Floyd ci dicono che, in questa America 2020, qualcosa di diverso è in atto. A scendere in piazza non è solo la comunità nera ma anche e sopratutto tutta una generazione di giovani bianchi che hanno una nuova consapevolezza: voltare pagina. Chiudere per sempre la "pratica del razzismo istituzionalizzato".

Non è cosa di poco conto. Proprio l'ondata di proteste antirazziste hanno avuto la forza di trainare un movimento  - appunto il Black Lives Matter - anche al di qua dell'Oceano.
Quello che sta accadendo dalla fine di maggio tra gli Stati Uniti e quindi di rimando in Europa, senza tralasciare l'Africa pone una nuova consapevolezza del problema: il razzismo strutturale che esiste in tutto il mondo. Gli attivisti e i cittadini che stanno manifestando in queste settimane, in tutto il mondo chiedono un radicale cambiamento a cominciare dalla violenza - che si fa abuso di potere - delle forze dell'ordine. Ma non solo. E' arrivato il momento di rivedere non solo il "passato colonialista" che, per esempio, in Africa aprì la drammatica "stagione colonialista" che, a sua volta aprì la strada alla deportazione degli schiavi (gli antenati della comunità afroamericana in America n.d.t).
E' una questione di giustizia sociale negata ai neri: è il paradigma che sta alla base  della 'mission' dell'attuale amministrazione Trump che vinse la scorsa tornata Presidenziale (2016) con l'orrendo slogan "Make America Great Again (Facciamo di nuovo l'America grande)" laddove, questo vuol dire rimettere in circolo le pratiche odiose dei tempi dello schiavismo che imperversava negli Stati del Sud.
Alla luce di quanto disse Trump il giorno del suo giuramento a presidente degli USA nel gennaio di quattro anni fa, non sorprende la sua visione reazionaria, tutta arroccata e ostinatamente sbilanciata a favore del suo elettorato, bianco e razzista che, nelle scorse settimane lo ha portato a tuonare: "Legge e ordine" per stanare la rivolta.


-Istigazione all'odio dall'inquilino della Casa Bianca


Il 19 giugno di ogni anno, in USA la comunità afroamericana celebra la liberazione dallo schiavismo: il presidente Trump, non se ne è curato più di tanto quando ha lanciato la sua voglia irrefrenabile di tornare in pista (dopo la condotta disastrosa sul fronte del Covid-19 e il conseguente lockdown, per altro sempre contestato dalla sua base elettorale; condotta disastrosa che ha prodotto oltre 120 mila decessi), sul terreno a lui più congeniale ossia, il comizio da campagna elettorale. Senza tenere conto del dramma che questa America 2020 sta vivendo e dopo che, nelle passate settimane aveva dato il peggio di sé (volendo risolvere la situazione usando il pugno di ferro e raccogliendo solo schiaffi non da poco ...) quando, evidentemente, non ha ben colto quello che stava (e sta) avvenendo nelle città americane: Trump, vedendo la massa oceanica delle proteste e delle rivolte per le strade USA aveva dato l'ordine di risolvere la matassa con il cipiglio militare arrivando a militarizzare la capitale, Washington rifugiandosi nel bunker presidenziale. Non contento aveva fatto costruire un muro a difesa del Palazzo, una scena drammatica e che, da sola, racconta meglio di qualsiasi narrazione o descrizione, la crisi americana in atto.
Del resto questo presidente non ha mai posto in cima alla sua agenda politica la coesione politica degli Stati Uniti e così, per il ritorno "on the road" ha scelto Tulsa, la stessa città dell'Oklahoma dove, nel 1921 si verificò il più grande massacro razziale ai danni della comunità afroamericana. Dalla Casa Bianca, i suoi collaboratori hanno dovuto penare le proverbiali "sette camicie" per farlo recedere dall'idea di tenere il suo comizio elettorale nello stesso giorno del #Junettenth.
Ma le ultime settimane per Trump sono state davvero pesanti e tutti negli negli Stati Uniti, in questi giorni e in queste ultime ore si stanno ponendo la stessa domanda: "Che cosa accadrà nei prossimi mesi e nel pieno di una campagna elettorale per le Presidenziali 2020?".

-Le istanze del movimento Black Lives Matter

  






Il movimento Black Lives Matter dal 25 maggio - giorno della morte disumana di George Floyd - sta cambiando le cose: in America, mai come in questo momento si è capito che è necessaria una riforma delle forze dell'ordine: su questo punto sono tutti concordi. La questione sarà uno snodo centrale della prossima campagna elettorale per la Casa Bianca 2020 e, insieme a questo punto, la "Rivoluzione Culturale" del Black Lives Matter pone sfide decisive. Su tutti i fronti. Ci sono troppe questioni irrisolte che partono dalla dolorosa "stagione dello schiavismo" al mancato inserimento dei neri nel tessuto della società americana.
Le nuove generazioni hanno posto il problema che non è solo uno slogan ("No Justice No Peace - Senza Giustizia non c'è Pace"): deve essere rivisto tutto il tessuto sociale della società americana come del resto, ha già iniziato a porre Chaz zona autonoma a Seattle Capitol Hill che propone di porre fine a quella visione disumana proposta dal capitalismo braccio armato del sistema neoliberista.
In ragione di questa evoluzione della rivolta, quando sono passate più di due settimane di proteste e manifestazioni, non si può liquidare (come invece tenta di fare in modo ipocrita il "presidentissimo") il movimento come una accolita di "pericolosi terroristi" . Ancora ieri, Trump, parlando dal pulpito del suo comizio elettorale di Tulsa ha tuonato e attaccato le proteste per la giustizia sociale e razziale, accusandole di "distruggere la nostra storia".

Perché Trump usa questa narrazione?

Il presidente, come molti benpensanti - al di là e al di qua dell'Oceano - è inorridito da una delle questione posta dal movimento: il processo ai simboli dell'era coloniale e schiavista.
In questo modo si cerca di oscurare la domanda di fondo che la rivolta pone: "chiudere per sempre la lunga stagione dello schiavismo e con quanti lo alimentarono". Non si capisce come altrimenti, si possa cambiare. Se non si è disposti a condannare quella pagina infame della storia dell'umanità e dei cosiddetti Stati moderni che, guarda caso sono gli stessi che hanno costretto milioni di persone a subire l'onta della dittatura del colonialismo e dello schiavismo.


-Dibattito a senso unico (sulle Statue degli schiavisti abbattute)









Nelle ultime settimane sui media di tutto il mondo si sono sprecati fiumi d'inchiostro su alcune azioni del movimento Black Lives Matter che, in USA come in Europa hanno preso di mira le statue e i simboli del colonialismo (e dello schiavismo): l'ultima, in ordine di tempo è quella di Albert Pike che, per chi non fosse troppo addentro alla storia degli Stati Uniti è il fondatore del Ku Klux Klan ossia, il gruppo dei suprematisti bianchi e razzisti che davano la "caccia al nero" negli Stati del Sud razzisti e il "papà" dei massoni americani; abbattuta a Washington il 19 giugno, il giorno del #Junetteenth.
Pagine e pagine di giornali sono state scritte per bacchettare gli attivisti. Una schiera infinita di benpensanti (naturalmente bianchi n.d.t) hanno pensato bene di continuare sulla stessa falsa riga, quello stesso modo che da 401 anni; si tenta di dare lezioni alla comunità afroamericana e quella nera in generale. Non una parola di condanna per quelle pratiche disumane è stata spesa: piuttosto, fa molto comodo arroccarsi (come del resto fa l'attuale inquilino della Casa Bianca, n.d.t) sulla presunta "violenza barbarica" che sarebbe contenuta in questa che invece è una vera e propria "azione politica". Mai che questi illustri tromboni spendano una parola su come rimuovere questi simboli. Sopratutto su ciò che rappresentano ancora oggi negli Stati Uniti ma anche nel Regno Unito, in Belgio e anche in Italia.
Del resto per questi "signori" si tratta addirittura di civiltà e di quel progresso moderno che era alla base delle Potenze Colonialiste in Africa e quindi in America. Costoro fanno finta di non capire che quel razzismo strutturale - che sta alla base delle azioni assassine delle forze dell'ordine americane ma, non dimentichiamolo, anche delle stesse polizie europee - affonda le radici sulle "pratiche dello schiavismo" di quei grandi uomini. In realtà questi ultimi non erano altro che "mercanti di uomini" che si macchiarono di atrocità disumane quando allestirono le cosiddette "navi negriere" che deportavano (con la forza) milioni di africani nel "nuovo mondo". Si fa finta di dimenticare che questa pratica fu alla base di imperi e fecero la fortuna di quelle stesse potenze.
Ma fa comodo deviare il discorso: mettendo insieme tutto e il contrario di tutto con la speranza che presto, il movimento Black Lives Matter torni nei ranghi.

-Conclusioni

Quanto sta avvenendo dal 25 maggio 2020 è invece qualcosa di molto più profondo e se si riflette su quanto già avvenuto potremmo avere un quadro più chiaro dei tempi che stiamo vivendo. A molti non sarà sfuggito il tentativo di sabotare le rivolte antirazziste con pratiche più o meno sperimentate nel Novecento: nei primi giorni infatti, si è tentato di far abortire la rivolta. Ma il tentativo di indirizzarla nella violenza becera dei saccheggi e degli scontri con le forze dell'ordine sono miseramente fallite.
Il progetto che sta portando tanti giovani - neri e bianchi - in strada per dire basta al razzismo è molto più ampio e di lungo respiro e le parole di Angela Davis, grande attivista dei diritti civili per gli afroamericani in questo senso sono il miglior viatico per concludere questo post.


"E' ora di costruire un movimento globale, contro il razzismo dagli USA all'Italia" .
(Fonte.:theatlantic;politico)
Bob Fabiani
Link
-www.theatlantic.com
-www.politico.com