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giovedì 6 agosto 2020

Dogon, il popolo della Falesia








Esiste una muraglia di roccia giallastra che spezza la monotonia della savana del Sahel, finendo col gettare un'ombra sbiadita sulla sabbia della pianura. Una muraglia lunga circa 200 chilometri e alta fino a 500 metri, che fa da scenario al mondo dei Dogon.


-Dogon, i misteri del popolo delle stelle

I Dogon sono una popolazione del Mali. Questo popolo, di circa 240.000 individui, occupa la regione della Falesia di Bandiagara (importante formazione rocciosa localizzata nel Mali e costituita da una falesia di roccia sedimentata che si eleva  a circa 500 metri sul livello sabbioso sottostante. Si estende da Sud verso Nordovest per circa 200 chilometri, sino al massiccio Grandamia; n.d.t) a Sud del fiume Niger, e alcuni gruppi sono stanziati nei territori attigui al Burkina Faso. Sono prevalentemente coltivatori di miglio, caffè e tabacco e hanno una particolare abilità come fabbri e scultori.
La lingua Dogon presenta caratteristiche particolari, con molte varianti e dialetti. Ogni membro di questa popolazione ha quattro nomi: un nome proibito e segreto, un altro che è corrente, uno che si riferisce alla madre e uno che è il nome della classe di età. Per evitare problemi con le altre parole di uso comune, questi nomi sono presi da dialetti di altre tribù Dogon.
Ogni nome ha un significato linguistico.


-Falesia di Bandiagara









Percorrere la falesia di Bandiagara è come passare davanti a un enorme quadro monocromatico. La terra delle abitazioni si confonde con lo sfondo della roccia.
I villaggi sembrano camaleonti, che si nascondono all'occhio dello straniero. Solo le piogge estive, quando il cielo è generoso, pennellano qua e là di verde questa terra.
Allora la falesia cambia volto. Le rocce bagnate si fanno più scure, alberi e arbusti segnano l'orizzonte e dall'alto della scarpata cascate d'acqua precipitano sulla piana, riempiendo i torrenti stagionali.

Visti dalla piana arida, che un tempo era verdissima, i villaggi dogon, con le loro capanne dal tettuccio di paglia, sembrano presepi aggrappati alle rocce giallastre.
In alto, sopra i tetti appuntiti delle capanne, occhieggiano le grotte dove vivevano i Tellem, popolazione di pigmei che abitavano la regione prima dell'arrivo dei Dogon.
L'intera muraglia è costellata da queste cavità nella roccia. I Tellem le avevano occupate, per difendersi dalle razzie dei popoli delle pianure. Con un complicato ma quanto mai efficace sistema di corde e non poca agilità, riuscivano a raggiungere rapidamente i loro ripari e ritirare le funi, per impedire ai nemici di raggiungerli.

-Brevi cenni storici (e leggende)

Attorno al quattordicesimo secolo arrivò in questa regione una popolazione proveniente da Sud, forse per sfuggire all'espansione degli imperi islamici, che stavano occupando il Sahel. Erano i Dogon.
Narra la leggenda che gli antenati dei Dogon, cercando di sfuggire ai loro persecutori, arrivarono nella terra dove oggi vivono e che Amarubu, uno dei tre capostipiti, inseguendo un facocero trovò una sorgente nascosta. Nangabulu, un altro antenato, mentre inseguiva un coccodrillo scoprì una grande palude, dove venne fondata Bandiagara. Da allora il facocero e il coccodrillo divennero animali sacri e vengono ancora oggi adorati dai Dogon come antenati.
I Dogon si stabilirono ai piedi della falesia e diedero vita a una civiltà tra le più note di quelle dell'Africa occidentale, grazie anche al lavoro di Marcel Griaule, il celebre etnologo francese che a partire dagli anni '30 del secolo scorso dedicò la sua vita a studiare questo popolo.

La falesia getta una lunga ombra sulla piana sottostante, la cui vita è quanto mai aleatoria e legata alle piogge, che nel Sahel sono sempre più scarse.
A partire dagli anni '70 si sono succedute diverse stagioni di siccità, col risultato di mettere in ginocchio questo popolo di contadini, che cerca di strappare ogni giorno a quella terra arida e a quelle rocce un po' di sopravvivenza.
La vita qui è sempre tra il troppo poco e l'appena abbastanza.





Per comprendere questa terra e questa gente bisogna percorrere la falesia a piedi, per poi infilarsi nelle spaccature della roccia e risalire sull'altopiano roccioso, dove i campi sono pozze di terra, lasciate libere dalla crosta dura e violacea della pietra. Roccia e sabbia: i Dogon vivono tra questi due elementi. Il piede calpesta lame taglienti o sprofonda. Qui, sullo sfondo di questa grande quinta naturale, si intrecciano due storie.
Un visitatore di un altro pianeta che attraversasse questa terra vedrebbe campi spesso sbriciolati dalla siccità, magari steli di miglio, donne che percorrono chilometri per approvvigionarsi d'acqua e molte case abbandonate. Ma se cercasse nei libri informazioni sui Dogon, leggerebbe di un mondo fatto di simboli cosmici, di misteriose astronomie, di gente che trascorre il tempo a riordinare l'universo secondo mappe ancestrali armoniche e virtuose.
Per gli occidentali i Dogon sono quelli di Marcel Griaule. Nel suo libro più celebre, Dio d'acqua, uscito nel 1948, Griaule offrì un'immagine dei Dogon e del loro ricco e complesso universo cosmogonico che vive ancora oggi, alimentata e corroborata da operatori turistici, guide di viaggio e riviste del settore, per i quali il Dogon mistico e incontaminato è un prodotto che si vende bene. Un'immagine proiettata su uno schermo di sogno, buona per appagare la nostra carenza di miti e misticismo.
L'immagine resta congelata, immutabile, senza storia: i Dogon erano così e saranno sempre così . Si sprecano espressioni come "ancestrali", "immutati", "tradizionali" e si nega così a questa gente la capacità di fare storia.

Tuttavia, il nostro viaggiatore alieno, passeggiando qui e là, vedrà una miriade di orti coltivati a cipolle. Perché, se per gli occidentali i Dogon sono i misteriosi astronomi che conoscono il segreto della stella Sirio B, in Africa occidentale la loro fama è legata alle cipolle. E le cipolle portano, talvolta, all'Islam.

Le reti commerciali del Mali e dei paesi limitrofi sono gestite in gran parte da mercanti islamici ed è più facile entrarvi se si condivide questa fede. Così, ai piedi della falesia  - che nel 1989 è stata dichiarata Patrimonio Mondiale dell'Umanità Unesco in quanto "culla dell'animismo" - si vedono nascere sempre più di frequente piccole moschee dalla classica architettura saheliana.






Nelle fotografie che si trovano su guide e cataloghi non vediamo mai i motorini che percorrono ansimando le piste, il traliccio del telefono che domina la piazza di Sanga davanti all'ufficio postale, né le bancarelle dei mercati con oggetti in plastica e magliette dei Chicago Bulls o di Ronaldo. Eppure i Dogon sono anche questo. La società dogon, spessa definita "tradizionale" da una certa etnologia, cela dentro di sé i germi della flessibilità straordinaria, che le permette di conservare l'essenziale, unendo il suo apparente conservatorismo alla sua caratteristica dinamica di fondo.
Se ci si reca in Mali non si fa parte di un turismo di massa e neppure uno sprovveduto, tuttavia, questo turista, non è disposto a condividere tutto con i Dogon, solo la parte che più lo affascina. Magari rischiando di proiettare su quella gente valori che ha o crede di avere perduto. Ed è questo che gli propongono le guide locali, spostandosi su quella zona franca che è in fondo il terreno del turismo. L'autenticità ricercata dal turista "etnico" è proporzionale alla distanza dalla modernità che ciò che accade davanti ai suoi occhi mantiene.
Il turista fa come se ciò fosse autentico, pur essendo conscio della rappresentazione in atto. In fondo la questione non è se il turista viva o meno un'esperienza autentica, ma se egli ne percepisca una certa autenticità basata sulla distanza dalla sua esperienza quotidiana che sulla reale conformità alla tradizione locale. I Dogon lo sanno ed è proprio questa dimensione che offrono al turista. Molti di loro hanno letto Dio d'acqua e narrano ai visitatori ciò che Griaule ha scritto dei Dogon. I turisti vedono così appagata la loro ricerca di autenticità.
"Autentico" sembra dovere coincidere con immutabile, a dispetto dei diversi e profondi mutamenti che attraversano questa terra: l'avanzata dell'Islam, l'azione delle Ong che operano sul terreno, l'introduzione di colture commerciali come le cipolle.

Anni fa a Sanga si poteva incrociare Youssuf Tata Cissé, etnologo maliano che insegnava alla Sorbona.

"Tutti i simboli che hanno scoperto qui li ritrovi a Bambara, tra i Minyanka e in un sacco di altri posti qui attorno", e aggiunge "Non è mica una cultura unica al mondo! Fa parte di un continuum che percorre quasi tutta l'Africa occidentale". 

A fronte di queste dichiarazioni ci si chiede: "Perché allora i Dogon sono diventati così famosi?" .

"Perché su di loro hanno scritto più libri", afferma Cissé e chiosa: "O perché questo è un gran posto e tutto diventa più bello".

A pensarci bene Youssuf Tata Cissé aveva ragione.

I turisti però oggi non arrivano più. Anche all'ombra della falesia è arrivata l'onda strisciante del jihadismo, ed è arrivata con il volto dei Peul, i tradizionali allevatori della savana. Tra loro e le popolazioni sedentarie locali non è mai corso buon sangue, ma in qualche modo si era stabilita una forma di convenienza: dopo il raccolto, i bovini potevano pascolare sui campi, fornendo letame, assai ambito dai contadini.
I Peul ricevevano in cambio miglio, altri prodotti alimentari e talvolta anche piccole somme di denaro. Di tanto in tanto nasceva qualche lite, perché i bovini invadevano i campi prima della fine del raccolto. Gli scontri talvolta degeneravano e venivano sequestrate alcune vacche.







Negli ultimi anni però qualcosa è cambiato: l'ondata fondamentalista, iniziata nel 2011 con l'occupazione del Mali settentrionale, dopo una prima fase militare si è trasformata in una penetrazione silenziosa di elementi islamisti nei villaggi del Mali, tra cui quelli dogon. Questo ha provocato numerosi scontri, anche a fuoco, con molti morti, al punto che i Dogon hanno formato una sorta di milizia etnica, a metà tra un'associazione di cacciatori e un corpo paramilitare, che nel marzo 2019 con un assalto armato ha raso al suolo il villaggio di Ogossagou, tra Mopti e le frontiera con il Burkina Faso, lasciando a terra oltre 150 vittime, tutti civili di etnia peul trucidati a colpi di machete e armi da fuoco mentre veniva appiccato il fuoco all'intero villaggio. L'eccidio è stato motivato dagli assalti jihadisti condotti dai miliziani guidati dal predicatore peul Amadou Koufa e inquadrati nella principale coalizione jihadista del Sahel, il "Gruppo di sostegno all'islam e ai musulmani", di fede qaedista e sospinto dalle sempre maggiori pressioni dell'ondata islamista. Il tutto sotto lo sguardo indifferente dell'esercito maliano, rimasto inerte di fronte a questi violenti episodi.

I Peul vengono considerati oggi dai Dogon, nel migliore dei casi, dei collaborazionisti.
Il mosaico etnico del Mali è andato drammaticamente in frantumi per effetto combinato dalla disgregazione della Libia e della diffusione tossica del radicalismo religioso di stampo wahabita, che un tempo era marginale in questi luoghi.
Difficile dire quale sarà il futuro di quello che fu un pacifico popolo di coltivatori. Nere nubi si affacciano all'orizzonte.
(Fonte.:nationalgeographic)
Bob Fabiani
Link
-www.nationalgeographic.com/africa



  

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