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venerdì 7 agosto 2020

Viaggio in Mauritania tra deserto e mare Pt.2








Percorrendo la strada lungo la costa della Mauritania s'incontrano saline, dune e spiagge sconfinate. E popolazioni dal passato nomade che vanno incontro a un futuro ancora incerto.

AfricaLand Storie e Culture africane pubblica la seconda parte del viaggio in Mauritania tra deserto e mare.



Proseguiamo il nostro viaggio decisi a raggiungere Chami prima del tramonto.
Lo specchietto retrovisore cattura l'immagine di Salima che ci saluta, completamente sola. Chami è l'El Dorado della Mauritania. Quando passarono di qui i cooperanti catalani della Carovana solidaria, nel novembre del 2009 - poco  prima che tre di loro fossero rapiti da Al Qaeda nel Maghreb islamico al chilometro 170, superata la stazione di servizio Gare du Nord - a Chami c'erano a malapena quattro baracche e qualche negozietto per attirare i viaggiatori di passaggio.

Oggi Chami fa impressione. Il brulicare di persone, la frenesia edilizia e il caos di veicoli, animali, officine e negozi sono tali che non si può far altro che fermarsi, mettersi a sedere, respirare a fondo e aspettare che tutto ciò che si sta osservando piano piano si metta in ordine.

Compriamo banane e acqua. Ci sediamo alla stazione di servizio, dove si radunano i veicoli carichi di cercatori d'oro in partenza verso il deserto. Sono lavoratori irregolari. Paria. Molti sono migranti. Di solito un piccolo imprenditore - uno che ha la macchina, ha comprato un generatore, un metal detector, pale, picconi e corde - carica tre o quattro ragazzi sul pick-up e si addentra nel deserto per avvicinarsi alla grande miniera d'oro. Lì i giovani manovali scavano piccoli pozzi dove si cala un uomo sorretto da corde, il quale fruga nel buio quasi senza ossigeno e riempe di pietre e terra un secchio che i suoi compagni riportano su con una carrucola e la forza delle braccia. Più di 15 mila persone lavorano in questo modo. Gli incidenti mortali sono all'ordine del giorno. Invece i dipendenti della grande miniera gestita dai canadesi con tecnologie d'avanguardia, recintata, ben controllata e inaccessibile ai curiosi sono circa 5 mila.
Sono gli operai d'élite della Kinross Gold Corporation, che ha già raddoppiato la produzione, e viaggiano su pulmini con l'aria condizionata.

All'uscita della città, in un enorme spazio aperto, si ammassano i laboratori artigianali dove i minatori informali spaccano le pietre, le triturano con grandi macine, poi versano la polvere in vasche piene d'acqua per setacciarla e cercano di separare l'oro buttando del mercurio nell'acqua. La maggior parte di loro dorme in baracche  e casette di cemento di tre o quattro metri quadrati dove possono stiparsi fino a dieci persone. Le baracche sono sparse disordinatamente tra le dune, e i residui di questa febbre dell'oro - bombole di gas vuote, compressori, generatori, pneumatici, motori guastati, bidoni bucherellati - si accumulano sulla sabbia. C'è anche un cinema che proietta partite di calcio e serie televisive, annunciando chissà, futuri quartieri residenziali, mentre nel centro di Chami si vedono già i segni di una città moderna: lampioni nuovi e villette a schiera destinate agli ingegneri della miniera, alle autorità locali e ai militari; un piccolo albergo per i visitatori illustri; una caserma sulle cui pareti il vento del deserto ha creato un'immensa duna che arriva fino alle garitte di sorveglianza, come per ricordare che perfino nella città d'oro il deserto detta legge.





Ci fermiamo a dormire in una khaima in uno spiazzo che si presenta come un campeggio. Troviamo una coppia di spagnoli. Viaggiano su un camper attrezzato per il deserto. Hanno trovato "orribile" quello che hanno visto finora del paese.
La tempesta di sabbia che li ha accompagnati dalla frontiera settentrionale è stata un incubo. Cercano inutilmente i bagni, l'elettricità, il wifi. La donna è contrariata. Ha comprato dei frutti di mare a Nouadhibou "a un prezzo" e non ha ancora avuto tempo di preparare la paella.

"Qui la potrà preparare tranquillamente", cerchiamo di incoraggiarla.

"Già, ma noi la paella la mangiamo sempre di domenica e ormai è lunedì".


-Due attività

"Benvenuti! Accomodatevi", dice Lamin mentre toglie la sabbia dai cuscini sparsi sul pavimento e ci riceve nel suo negozio di alimentari. Lamin el Kanane Mohamed parla uno spagnolo eccellente. E' uno dei tanti sahrawi che si trasferirono a vivere da queste parti dopo la ritirata spagnola dal Sahara Occidentale e la successiva guerra con il Marocco li costrinsero ad abbandonare le loro terre. Siamo nel paesino di El Mhaijrat. Lo potremmo chiamare El Mhaijrat di sopra, perché la parte più antica è vicina alla spiaggia, a circa due chilometri di distanza. Quando fu costruita la strada, gli abitanti della zona vicino al mare, in gran parte pescatori, cominciarono a spostarsi verso la striscia d'asfalto per vendere ai viaggiatori la bottarga (uova di muggine) e il pesce essiccato, ottimo peri diabetici. Nella zona ce ne sono parecchi per via del tè troppo zuccherato. Così nacque un nuovo paese, che continua a crescere grazie al commercio. Ancora non è ben chiaro se per gli abitanti di El Mhaijrat la strada è più redditizia della spiaggia, e se il commercio sostituirà la pesca. Oggi nsi dividono tra le due attività.

Il negozio di Lamin è uno dei quei posti dove tutto quello che è in vendita rispecchia l'austerità a cui è costretta la maggior parte della popolazione. Solo l'acqua si vende in grandi bidoni. Il resto - tè, caffè, tabacco, zucchero, riso, uova - si vende a unità o in minuscoli sacchetti di plastica adatti a un'economia familiare dove ogni pasto è un giorno guadagnato.

"Quindi arrivate da Nouadhibou?", sorride Lamin, che ha voglia di chiacchierare e ci sta già raccontando la sua vita.
Ricorda il giorno in cui, quando ancora era un bambino, scoppiò la guerra e la sua famiglia fu costretta a scappare dalla guerra dalla Guera, il quartiere spagnolo di Nouadhibou. E di come, in mezzo al caos, la famiglia si dovette dividere e lui non rivide più i genitori fino a cinque anni dopo, nel campo profughi di Tindouf, in Algeria.

"Mia nonna fu uccisa da un aereo. Ci attaccavano i marocchini, i mauritani, i francesi. E gli spagnoli ci abbandonarono. Certo, ora mi vedete in questa desolazione. Magari un altro giorno mi ritroverete alle Canarie, a lavorare nel settore alberghiero. La vita può cambiare", dice Lamin.
Ci racconta di quando a Tindouf fu imbarcato con altri 35 bambini su un aereo diretto a Cuba, dove rimase poi per cinque anni ospite nella Isla de la Juventud.

Lemin parla dell'esilio, di famiglie sparse per il mondo, della lotta del Fronte Polisario. Storie tramandate oralmente, come quelle di tanti altri popoli dimenticati. Ci vorrebbero tante Svetlana Aleksievic per raccoglierle prima che vengano dimenticate man mano che i loro protagonisti scompaiono.

"Vedremo mai nascere la Repubblica sahrawi?".

"Dopo tante sofferenze, sarebbe giusto", dice Lamin con sguardo sognante.

Uno dei militari della caserma del paese entra a salutare ed evita di parlare di cosa è giusto o no. Lamin manda il ragazzo che lo aiuta in negozio  - il negozietto, la "tiendita", dice con il suo dolce accento delle Canarie - a prendere dei sacchi di sabbia della duna. Il ragazzo torna con la sabbia, la stende sul tappeto dandole una forma quadrata. Il militare apre la borsa di stoffa che ha con sé. Tira fuori alcune palline nere, fatte con escrementi di cammello e qualche bastoncino ricavato da rametti di acacia.
Distribuisce i pezzi.
Lamin sceglie i bastoncini. Se la prendono con calma.

"Si gioca come a dama".

La partita può durare anche tre ore.

Ci lasciamo alle spalle il parco nazionale di Arguin, il territorio degli imraguen, una comunità d'origine berbera che da secoli si dedica alla pesca.
La loro tecnica ancestrale consiste in un canto che invoca la complicità tra l'uomo e la natura. Gli imraguen usavano addentrarsi in mare formando un cerchio, camminando in zone poco profonde, ed erano i delfini a spingere verso le loro reti spiegate i banchi di pesce. Oggi questa pratica è scomparsa e gli imraguen pescano su barche tipiche delle Canarie, a vela latina.
Fare il bagno in queste acque, dormire in una khaima cullati dal vento e dalle onde, svegliarsi con centinaia di migliaia di uccelli che volano imbiancando il cielo, l'acqua e la sabbia, mangiare un pesce capitaine o un'aragosta alla brace... Cosa si può chiedere di più?

Arriviamo a Nouakchott verso sera.







L'illuminazione dei lampioni che comincia 30 chilometri prima della città, le pale eoliche che si susseguono accanto a gruppi di cammelli, capre e pecore, le file di alberelli che cercano di sopravvivere in vasetti di plastica che un camion innaffia a uno a uno con una pompa: sono la testimonianza più evidente della capacità di costruire  dell'essere umano, della sua testardaggine quando si trova ad affrontare un progetto inverosimile, come la creazione di una città in mezzo a nulla.
-Fine seconda parte-
*Bru Rovira è un giornalista spagnolo. Per 25 anni è stato corrispondente del quotidiano catalano La Vanguardia. Oggi scrive sopratutto di temi sociali per vari giornali spagnoli. Il suo ultimo libro è Solo pido un poco de beleza (Ediciones B 2016)
(Fonte.:elpais)
Bob Fabiani
Link
-www.elpais.com/elpais/esp 
 
   

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