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venerdì 16 agosto 2019

Restituire all'#Africa la sua musica. Pt.1







Uno dei tesori dal valore inestimabile per l'Africa, è sempre stata la musica. Un vero tesoro di Cultura che abbraccia l'intero continente, da Nord a Sud.

Ma che fine ha fatto la sterminata "banca dati" - naturalmente sotto forma di musica - ? E di quale tesoro stiamo parlando?

All'indomani della grande stagione delle Indipendenze per le giovani nazione africane, sbocciò un fervido fermento di artisti, suoni, registrazioni che caratterizzò quella stagione; il post - indipendenza. Divenne specchio e centralità del continente con una miscela affascinante di suoni e storie che ora devono essere recuperate e restituite all'#Africa.
(Bob Fabiani)


Restituiamo all'Africa la sua musica*


"Nell'agosto del 2018 il governo etiope ha chiesto al National army museum di Londra la restituzione di due ciocche di capelli dell'imperatore Teodoro II, ucciso durante la spesso dimenticata invasione dell'Abissinia per mano delle forze britanniche nel 1868. E' stato l'ultimo atto di un colossale rimpatrio di tesori e simboli storici trafugati dall'Europa in quattro secoli di spregevoli razzie. Nel caso della Francia, il governo si è fatto i complimenti da solo per uno studio comicamente superfluo, ma inevitabilmente rigoroso, su quello che i tanti musei del paese dovranno restituire al più presto alle ex colonie africane. Paesi Bassi, Germania e Belgio hanno promesso di fare altrettanto.

Ovviamente, questi paesi - la restituzione di una minuscola frazione del totale dei tesori accumulati gratuitamente con i saccheggi - servono a placare il bacino elettorale della diaspora e le nuove élite dei paesi africani coinvolti.
Ma non facciamoci illusioni: l'Africa dovrà accontentarsi di qualche rara concessione (e dell'implicita ammissione di colpa) da parte degli ex dominatori. Una percentuale tra il 90 e il 95 per cento del patrimonio culturale dell'Africa continua a restare fuori dal continente.

Eppure, mentre s'invoca la restituzione dei bronzi del Benin, delle maschere della Cabinda, di una serie di opere d'arte e perfino delle spoglie dei sovrani, una delle produzioni artistiche più importanti del continente, che circola nei paesi ricchi del mondo con aste online e collezioni private, non è tra la richieste. Sono le registrazioni della musica africana dall'indipendenza in poi. Questo è il momento giusto per creare un movimento globale di africani (e non solo) che si ponga l'obiettivo di raccogliere, organizzare e far tornare nei paesi di appartenenza la colonna sonora di uno dei periodi storici più gloriosi del continente. Semplicemente, dobbiamo restituire all'Africa la sua musica.

Dagli anni sessanta fino alla metà degli anni ottanta, le capitali culturali dell'occidente - New York, Chicago, Liverpool e Londra - per innovazione e creatività non erano al livello delle città africane fresche d'indipendenza. Dakar, Khartoum, Luanda e Mogadiscio erano all'avanguardia del suono, protagoniste di quanto di meglio l'umanità avesse mai prodotto.

Le band occidentali, grazie a un potere di marketing senza uguali, hanno conquistato le orecchie e i cuori di tutto il mondo. Ma se avessero potuto godere della stessa diffussione e degli stessi mezzi, le band africane gli avrebbero dato del filo da torcere. Quello che succedeva nelle roccaforti culturali dell'Africa  - nell'albergo della stazione ferroviaria di Bamako con la Rail Band,  nel Jazira Hotel di Mogadiscio con la Iftiin Band,  nel nightclub Le Miami di Dakar con la Star Band,  negli studi di registrazione do Cotonou con l'Orchestre Poly-Rhythmo,  nelle baraccopoli di Luanda con i Jovens do Prenda  - era semplicemente di una categoria superiore.

Al confronto, "i Beatles", ha detto senza tanti giri di parole Quincy Jones in un'intervista a Vulture, "erano i peggiori musicisti del mondo. Erano quattro stronzi che non sapevano suonare. Paul era il peggior bassista che avessi mai sentito".

Forse Jones non si sarebbe nemmeno fatto un'opinione sul quartetto di Liverpool se all'epoca le incisioni di Zani Diabaté, Zoundegnon Bernard, Axmed Naaji o Paulino Vieira fossero state più accessibili. La musica africana post-ondipendenza era lo specchio della storia del mondo e della centralità del continente negli scambi culturali attraverso l'Atlantico e l'oceano Indiano, una miscela di suoni che provengono da ogni angolo del mondo, la testimonianza di un cosmopolitismo e di un'apertura innati.

La musica di questa prima indipendenza fu la massima espressione di una ritrovata e autentica autonomia, una vetrina straordinaria delle capacità di un continente espresse in soli vent'anni di libertà dal potere occidentale. A prescindere dagli orientamenti politici e nonostante, a volte, la brutalità che l'ha contraddistinta, la prima generazione dei leader africani concordava sulla centralità dei fermenti culturali autoctoni, a lungo repressi, per decolonizzarsi spiritualmente e riaffermare la fiducia in se stessi.

In Senegal, Léopold Senghor spese quasi un quarto del bilancio dello stato per le arti, proclamando Dakar la capitale della civiltà nera e ospitando il Festival mondial des arts nègres nel 1966. In Somalia, la passione di Siad Barre per la musica, considerata un  bene pubblico, gettò le basi per il finanziamento pubblico del teatro nazionale, le cui colonne sonore sono ancora oggi la massima espressione musicale del paese.



In Sudan, Jaafar al Nimeiri coltivò i rapporti con l'élite artistica, garantendole sempre il massimo sostegno. In entrambe le repubbliche del Congo, titani della musica come Franco hanno ispirato strumentisti e vocalist in tutto il continente. In Angola, con il passaggio dall'indipendenza alla guerra civile, le band di Luanda degli anni settanta restano tra le principali custodi della storia recente del paese.

La fase culminante di questo sforzo fu una gigantesca rete di scambio tra paesi africani, i loro musicisti e le loro culture : un tonico necessario per le loro storie rubate oltre che una findamentale forza unificatrice. Artisti come il sudanese Mohammed Wardi si esibivano a Yaoundé, in Camerun, di fronte a stadi gremiti che non capiva una parola di arabo ma che era innamorata della musica sudanese. I musicisti più raffinati di quello che allora era lo Zaire incidevano regolarmente a Nairobi e suonavano con artisti keniani.
Nel classico congolese Nitarudia dell'Orchestre Vévé,  il cantante solista rassicura la sua amata : "Non preoccuparti, baby, verrò a trovarti a Nairobi", parole che erano lo specchio di un'epoca.

Mogadiscio era il cuore culturale non solo dell'Africa orientale, ma anche dei paesi dell'oceano Indiano, con i suoi musicisti che mescolavano senza sforzo melodie persiane, indiane e dell'Asia orientale.
Molti fortunati che hanno vissuto la scena notturna di Mogadiscio prima della guerra  non fanno che parlare dell'onnipresenza e del livello delle infaticabili band somale. Senza dimenticare l'importanza dei movimenti per l'authenticité in Guinea e in Ciad.

Nessuno sa quantificare davvero questa esplosione di libertà creativa. Buona parte della musica, però, fu incisa su vinile, registrata su cassette, masterizzata professionalmente.  Prese tutte insieme, queste registrazioni sono il più importante documento storico del continente.

Negli anni ottanta, il potere finanziario occidentale spazzò via quasi tutte le conquiste dei due decenni precedenti. Le valute crollavano, l'indebitamento cresceva, le economie agonizzavano, i dazi cadevano. La musica non fu risparmiata. I paesi erano al collasso e l'economia era paralizzata, così il braccio culturale del capitalismo neoliberista si appropriò di uno dei più straordinari patrimoni artistici del continente.

Non molto tempo dopo, e forse proprio a causa degli abissi toccati negli anni ottanta, la musica africana è stata portata sul mercato globale con prezzi arbitrari, basati su un'dea artificiosa di rarità che ha trasformato un mezzo mezzo deperibile di valore storico in un bene di lusso per ricchi. I dischi più ricercati dei paesi meno accessibili si vendono regolarmente per cifre a quattro zeri su eBay o Discogs. Una copia originale in vinile del classico Tche belew dell'etiope Hailu Mergia è stata venduta per più di quattromila dollari. I 33 giri di boogie e funk nigeriano, molti dei quali registrati mentre infuriava la guerra del Biafra, se li possono permettere in pochi. I singoli sudanesi ed etiopi degli anni sessanta e settanta spesso si vendono a prezzi esorbitanti. L'aumento costante del loro costo ha colpito lo stesso Sudan, dove il valore di un disco a volte supera il reddito medio locale. Con l'eccezione di una manciata di etichette che girano i proventi delle vendite dei dischi agli artisti, questo denaro non viene quasi mai restituito ai musicisti o alle loro famiglie.

Il direttore di Radio Métropole, storica istituzione di Haiti con un curatissimo archivio della sontuosa produzione musicale dell'isola, spiega come una delle collezioni più grande che mai gli sia capitato di vedere si trova in un bar a tema caraibico a Tokyo. E aggiunge : "Su i miei scaffali ci sono centinaia di cassette di musica dell'Africa orientale, dischi haitiani, alcune delle incisioni più preziose della musica tradizionale maliana, capolavori su 33 giri di Brazzaville in condizioni perfette e molto altro".
La chiamata alle armi nasce da una profonda autocritica, ispirata da un negoziante di musicasette di Gibuti che, con tanto di ricevuta apostrofò così : "Lei sta portando via la cultura del paese".
Più di recente, per rintracciare degli lp in condizioni accettabili da usare come master per una compilation afrocubana della Star Band di Dakar, sono dovuto passare per tre rivenditori europei. I nostri contatti in Senegal non sono riusciti a trovare nemmeno una copia.

Il diritto alla restituzione passa prima di tutto per i controlli alla fonte. Dalla biblioteca nazionale di Singapore, dove sono conservate incisioni storiche di tutto il sudest asiatico, alla Smithsonian institution, la precedura standard chiede di fornire una serie di documenti prima di poter accedere alle copie fisiche dei materiali per uso commerciale. La custodia e il controllo delle incisioni dovrebbero essere affidati a istituzioni e musei del continente d'origine. Questo piccolo passo basterebbe a evitare la pirateria e a riprendere possesso del patrimonio audio.

Il Museo delle civiltà nere, da poco inaugurato a Dakar, sarebbe il posto ideale da dove cominciare. Se i responsabili del museo decidessero di costruire un archivio, grossisti, negozi e collezionisti privati potrebbero affidargli le parti meglio conservate delle loro collezioni. Tutto questo, naturalmente, richiederebbe empatia e correttezza. Rifiutarsi di restituire anche una quantità simbolica di pezzi sarebbe una macchia indelebile sulla coscienza di una piccola ma crescente comunità internazionale di appassionati. Sarebbe la spia di un amore per la cultura africana condizionato al controllo della proprietà privata.

Può sembrare donchisciottesco, ma è fattibile.

Non c'è bisogno di svuotare tutti i negozi di dischi, le biblioteche e le cantine dei collezzionisti. Anche una piccola collezione mostra l'apprezzamento per culture relegate ai margini e una mentalità aperta al mondo. Di certo il surplus accumulato attraverso l'accaparramento e la tesaurizzazione dev'essere rispedito indietro, allo stesso modo dei tesori salvati dalla scena del crimine dei musei europei.
(Fonte.:africasacountry)

- Fine prima parte -

*Vik Sohonie è un giornalista e dj. Fondatore dell'etichetta Ostinato Records, specilizzata in ristampe di musica africana del passato
   
Bob Fabiani
Link
-https://africasacountry.com

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