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lunedì 4 maggio 2020

Da crisi sanitaria globale alla crisi internazionale da Covid-19





Mentre il mondo tenta di riemergere dalla più grande crisi sanitaria globale e l'Africa si prepara a vivere le "settimane cruciali" nel contrasto al virus, tutte le agenzie-stampa del mondo rilanciano la notizia delle pesanti accuse dell'amministrazione americana - guidata da #TheDonald - all'indirizzo della Cina.
E' stato Mike Pompeo, segretario di Stato americano, già a capo della CIA: "La Cina è colpevole della pandemia" buono per sviare il drammatico bollettino dei casi e dei decessi che il coronavirus ha scatenato in tutti gli Stati Uniti.

-L'accusa di Pompeo

"Il coronavirus arriva dal laboratorio di Wuhan", questo aveva urlato Trump in una delle sua uscite sensazionali per cercare di "lavarsi la coscienza" dopo il disastro e l'assoluta inadeguadezza con la quale il presidente ha affrontato l'epidemia  - seccamente smentita dall'Oms-Organizzazione mondiale della sanità oltre che da Pechino - il ministro degli esteri, al secolo, Mike Pompeo a indicare nell'istituto di virologia della città cinese - epicentro della pandemia mondiale - l'origine di tutto.

"Ci sono prove sensazionali che il coronavirus è nato in un laboratorio di Wuhan",  e poi rincara la dose "Non è la prima volta che siamo colpiti da virus per colpa di errori nei laboratori cinesi".

E' metà giornata quando l'ex capo della CIA cita un rapporto della National Intelligence salvo poi aggiungere ed escludere l'ipotesi del virus fabbricato e diffuso intenzionalmente.
Tutto questo è accaduto durante un'intervista alla televisione Abc: il segretario propende per la tesi della "pista dell'incidente" ossia, si sarebbe trattato di pura e semplice negligenza.

Ma perché negli Stati Uniti, la Casa Bianca si avventura in questa strada scivolosa e non priva di insidie e di pesanti conseguenze e, spingendo il mondo sull'orlo di una grave crisi internazionale?

Non è difficile capirlo.

Intanto il dato dei contagi è impressionante: il bollettino aggiornato parla di 1.149.197 superando la spaventosa cifra dei 66 mila decessi.
I freddi numeri però non dicono tutto. Sono giorni che in tutti gli States è divampata la "questione cinese" che entra di prepotenza nella campagna elettorale per le "Presidenziali 2020".

#TheDonald è alla ricerca di un cavillo, di un vero capro espiatorio al quale addossare il disastro del dopo-virus che gli consenta di essere rieletto. E arginare la pesante accusa dei Dem USA che parlano di diversivi per nascondere i suoi ritardi nell'affrontare la pandemia.

Torniamo a Pompeo.

Le accuse di Pompeo piovono mentre sui media internazionali filtra un rapporto degli 007 della Five Eyes nel quale si punta il dito su Pechino - per altro a questo gioco pericoloso si iscrivono anche altri governi: dalla Francia all'Australia - per aver mentito sull'origine del Covid-19.
Si tratta di un documento di 15 pagine, la coalizione delle intelligence americana, inglese, canadese,neozelandese e appunto austrialiana descrive i tentativi iniziali del regime (cinese) di minimizzare il virus, cercando di insabbiare le tracce tramite la censura. Già agli inizi di dicembre, sostiene il rapporto degli 007, la Cina sapeva che il virus poteva essere trasmesso da uomo a uomo e aveva iniziato a limitare le ricerche online sulla nuova misteriosa polmonite. E mentre diceva al mondo che le restrizioni ai viaggi non erano necessarie, Pechino aveva bloccato gli spostamenti al suo interno.







Dalla lettura del rapporto alle accuse del segretario di Stato americano il passo è breve.

"La Cina ha fatto di tutto per assicurarsi che il mondo non sapesse del virus in modo tempestivo. Questo è un classico tentativo di disinformazione comunista". E incalza "Pechino, ha agito come fanno i regimi autoritari scatenando così una crisi enorme".

Prima di congedarsi dall'intervista televisiva, Pompeo non ha resistito a lanciare l'ultima pesante bordata.

"Noi sosteniamo dall'inizio che il virus è originato lì. Ora l'intero mondo può vederlo".


-La reazione di Pechino

"Non importa quante volte una bugia venga ripetuta, o quanto accuratamente venga fabbricata. Resta ciò che è".
Lo ha ribadito anche ieri il Quotidiano del popolo, organo del governo cinese: le accuse degli Stati Uniti sono false. Si tratta del tentativo di Donald Trump di trasformare Pechino nel "capro espiatorio" del virus. Inoltre, dalla Cina rilanciano: "Si tratta di bugie, dove sono le prove?"

Questo il contrattacco cinese che, senza tanti giri di parole parla di "fabbricare una falsa teoria" da parte degli Stati Uniti.

Tuttavia Pechino rischia l'isolamento: dopo le accuse pesanti e urlanti di Pompeo, nelle ultime ore si registra una vera e propria corsa all'iscrizione  alla richiesta americana di una commissione di inchiesta. L'ultima in ordine di tempo è l'Australia mentre, dall'altra sponda dell'Oceano, Regno Unito, Francia e Germania sottolineano i punti oscuri sulle origini del virus.

Che cosa farà dunque il mondo?

Non è detto che il mondo seguirà Trump nelle sue indagini e forse nemmeno nella richiesta (pretestuosa) dei risarcimenti economici nei confronti di Pechino (anche Cortina, in Italia, ha seguito l'esempio di alcuni stati americani ... vedremo con quali risultati).



Quello che è certo è che Pechino non intende fare passi indietro.



-L'eccezione degli Stati Uniti*





Dice la verità così raramente che quando lo fà, com'è successo il 29 marzo 2020, ha l'impatto di una rivelazione: "Vorrei tanto riavere la nostra vita di prima. Avevamo l'economia più straordinaria che abbiamo mai avuto, e non avevamo la morte". Be' forse non tutta la verità. La prima frase non era né vera né falsa: descriveva solo un desiderio. Desiderio che, quando l'ho sentito esprimere  - e ne ho trovato dentro di me un'eco lamentosa - , ammetto di aver soppesato, per un attimo, come fosse una mela lucida che tenevo nella mano.
Sembrava un desiderio dignitosissimo da nutrire "in tempo di guerra", dato che è la guerra la metafora che lui ha deciso di usare. Solo che nessuno nel 1945  avrebbe voluto tornare alla "vita di prima", cioè al 1939, se non per far resuscitare i morti. La catastrofe richiedeva un nuovo inizio. E solo un nuovo modo di pensare può portare a un nuovo inizio. Questo lo sappiamo. Eppure, quando lui ha detto "vorrei tanto riavere la nostra vita di prima" ha colto l'opinione pubblica in un momento di debolezza: in vestaglia, in lacrime, o nel mezzo di una chiamata di lavoro, o con un neonato in braccio e mentre era nel mezzo di una chiamata di lavoro, o in procinto d'infilarsi una tuta ignifuga fatta in casa prima di avventurarsi nella metropolitana, per andare a fare un lavoro che non si può fare in casa, mentre da una costa all'altra milioni di bambini si arrampicano sulle pareti per la noia. E sì, in quel contesto di fragilità, "la vita di prima" suonava rassicurante, anche solo come espressione retorica, tipo "c'era una volta" o "ma io lo amo!". La sua seconda frase però mi ha fatto tornare in me. Balle, balle, balle. Il demonio è coerente, se non altro. Ho gettato via la mela e guarda un po', era marcia e piena di vermi.
Poi ha detto la verità: non avevamo la morte. Certo, avevamo persone morte. Avevamo i feriti e le vittime. Avevamo gli innocenti che ci rimettevano la vita per sbaglio. Avevamo il conteggio delle vittime e a volte perfino le foto sui giornali dei sacchi neri per i cadaveri, anche se a molti sembrava sbagliato farli vedere. Avevamo "disuguaglianze nelle condizioni di salute". Negli Stati Uniti, però, questo implicava qualche forma di colpevolezza da parte dei morti. Al posto sbagliato, nel momento sbagliato. La pelle del colore sbagliato, le idee sbagliate, la città sbagliata. La posizione sbagliata delle mani quando gli era stato chiesto di scendere dal veicolo. L'assicurazione sanitaria sbagliata o forse nessuna assicurazione. L'atteggiamento sbagliato verso la polizia.
Quello che ci mancava completamente, però, era il concetto della morte in sé, della morte assoluta. Quella che arriva per tutti, a prescindere dalla posizione sociale. Nella morte assoluta sta la verità della nostra vita, ovviamente, ma gli Stati Uniti non sono mai stati molto inclini, sul piano filosofico, a vedere la vita come una serie di problemi distinti. la guerra contra la droga, contro il cancro, contro la povertà e via dicendo. Non che ci sia qualcosa di ridicolo nel tentare di allungare la distanza tra la data sul nostro certificato di nascita e quella sulla lapide: la vita morale dipende proprio dal fatto che a quello sforzo attribuiamo un senso. Ma forse in nessun'altra parte del mondo quello sforzo  - e il suo relativo successo - sono legati ai soldi come negli Stati Uniti.
Forse è per questo che nell'immaginario statunitense pestilenze ed epidemie - considerate troppo poco attente alle disparità sociali - sono state relegate da un bel prezzo nell'ambito della storia passata o degli altri continenti. Anzi, l'ha messo in chiaro lui stesso all'inizio della sua presidenza, interi paesi "di merda" andavano considerati colpevoli del proprio alto tasso di mortalità: quella gente era per definizione nel posto sbagliato (laggiù) al momento sbagliato (in una fase arretrata dello sviluppo). Quei posti erano appestati in senso permanente, perché non avevano la lungimiranza di essere l'America. Neppure il collasso ambientale avrebbe toccato l'America o al limite l'avrebbe toccata solo all'ultimo minuto. In relativa sicurezza, riparata dalle sue alte mura, l'America avrebbe banchettato con quello che restava delle sue risorse, ancora enormi in confronto alla sofferenza di quelli là fuori.
Ma ora, come lui ci fa notare, siamo grandi nella morte, siamo dei campioni. Si teme che, quando alla fine si tireranno le somme, in quel campo gli Stati Uniti saranno il paese numero al mondo. Eppure, paradossalmente, la presunta democraticità delle epidemie  - il fatto che possano colpire allo stesso modo tutti gli aventi diritto al voto -  si rivela un po' sopravvalutata. Questa è senz'altro un'epidemia, ma le gerarchie statunitensi, erette nell'arco dei secoli, non si lasciano abbattere tanto facilmente. Il tasso di moralità tra i neri e gli ispanici è attualmente il doppio che tra i banchi e gli asiatici. I poveri stanno morendo più dei ricchi. Più nei centri urbani che nelle campagne. La mappa dei virus nei quartieri di New York diventa più rossa proprio nelle zone dove vivono le persone delle fasce di reddito più basse e dove la qualità delle scuole è inferiore. La morte prematura non è quasi mai stata un fenomeno causale negli Stati Uniti. In genere ha avuto una fisionomia, una collocazione geografica e un reddito molto precisi. Per milioni di statunitensi la guerra c'è sempre stata.
Ma ora, a quanto pare per la prima volta, lui la vede. E, assetato di gloria, si definisce un presidente in tempo di guerra. Se lo prenda pure, quel titolo, così come il primo ministro britannico, sull'altra sponda dell'oceano, tenta di darsi un tono churchilliano.
Chrchill (che in tempo di guerra il suo dovere lo fece) imparò a sue spese che anche quando la gente ti viene dietro in una guerra, e anche quando concorda sul fatto che sia stata una guerra "giusta", non significa necessariamente che voglia tornare alla "vita di prima" o farsi guidare da te verso quella nuova. La guerra trasforma chi la fa. Quello che prima era necessario ora appare superfluo; quello che era dato per scontato si rivela fondamentale. C'è un proliferare di questi strani capovolgimenti. I cittadini si ritrovano ad applaudire un sistema sanitario nazionale che negli ultimi dieci anni il loro stesso governo ha privato di fondi e trascurato in modo criminale. C'è chi ringrazia dio per l'esistenza di certi lavoratori "essenziali" che prima guardava dall'alto al basso, lo schifava quando loro pretendevano di essere pagati 15 dollari all'ora.
La morte è arriva negli Stati Uniti. C'è sempre stata, anche se è stata coperta e negata, ma ora la vedono tutti. La "guerra" che l'America le sta facendo dovrà per forza di cose andare oltre un leader fasullo, scavalcarlo e superarlo. Questa è un'impresa collettiva: coinvolge milioni di persone, che non dimenticheranno facilmente quello che hanno visto. Non dimenticheranno l'orrore, nella sua eccezionalità tutta statunitense, di vedere i diversi stati, per dirla con le memorabili parole di Andrew Cuomo, governatore dello stato di New York, contendersi all'asta "come su eBay" attrezzature mediche in grado di salvare vite umane. La morte viene per tutti. Me negli Stati Uniti da molto tempo a questa parte, si pensa che le maggiori probabilità di ritardarla se le aggiudica il migliore offerente.
Una potenziale speranza per la nuova vita statunitense è che al suo interno un'idea simile diventi finalmente inconcepibile, e che la prossima generazione di leader possa ispirarsi non alla retorica bellicosa di Churchill ma alle parole dette in tempo di pace da Clement Attlee, il suo avversario alla camera dei comuni, il capo del Partito laburista, che nelle elezioni subito dopo la guerra ottenne una vittoria schiacciante su Churchill: "La guerra è stata vinta grazie agli sforzi di tutto il nostro popolo che, con pochissime eccezioni, ha messo al primo posto il paese e lasciato molto in secondo piano i propri interessi privati e particolari (...) Perché dovremmo pensare di poter raggiungere i nostri obiettivi in tempo di pace - garantire a tutti da mangiare, vestiti, case, istruzione, tempo libero, previdenza sociale e piena occupazione - dando la priorità agli interessi privati?".
Come gli statunitensi non si stancano mai di ripetere, può darsi che ci siano aspetti della nostra vita in cui l'interesse privato ha il ruolo centrale. Ma, come ha deciso collettivamente l'Europa dopo la seconda guerra mondiale, messa in ginocchio dalla morte, la sanità non dovrebbe essere uno di questi.
*Zadie Smith è una scrittrice britannica (di origine giamaicana) che vive a New York.
(Fonte.:newyorker;nytimes;afp)
Bob Fabiani
Link
-www.newyorker.com
-www.nytimes.com
-www.afp.fr     

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