Intere generazioni di donne e uomini, ragazzi e ragazze, appassionati di cinema si sono innamorati, nel tempo di Casablanca; grazie anche a un film - intitolato semplicemente Casablanca e interpretato da Ingrid Bergaman, Humphrey Bogart e Paul Henreid con la regia di Michael Curtiz - del 1942.
Una grande storia di drammi e sentimenti al tempo della seconda guerra mondiale.
Ma oggi cosa è diventata Casablanca?
Probabilmente non c'è nulla di meglio per scoprire le trasformazioni di questa città africana che si trova in Marocco, del lasciare la parola a Tahar Ben Jelloun, il più celebre scrittore marocchino. Secondo lo scrittore, Casablanca, è benedetta per la sua poesia stile Mille e una notte. Dannata perché subisce il peggio della modernizzazione.
(Bob Fabiani)
"Somiglia un po' a un B-movie
in cui Burt Lancaster
gioca con il revolver
e Richard Widmark si nasconde nei bus.
E' maleodorante, inquinata, snervante,
folle. Ed è viva, così viva che non lascia
nessuno in pace,
nemmeno di notte"
(Tahar Ben Jelloun, scrittore marocchino)
-Casablanca non è un film*
Se fosse un libro sarebbe scritto male, nonostante alcune pagine sublimi di poesia surrealista. Sarebbe un manoscritto lasciato da un aristocratico arabo tra le mani di briganti analfabeti. Ma un manoscritto tratto dalle Mille e una notte, riveduto e corretto dai tempi moderni. Se fosse un film sarebbe in bianco e nero con sequenze in cui la notte denuncia gli intrallazzi del giorno. Di certo con Casablanca di Michael Curtiz girato in uno studio nel 1942 dove il nome di questa città suona come uno schiaffo al destino.
Sarebbe un B-movie americano in cui Burt Lancaster gioca con il revolver come fosse una trottola e Richard Widmark è un fuggiasco che si nasconde in autobus sovraffollati, sorpreso da tutta quella gente che prende l'autobus perché non può fare altrimenti. Autobus dove la promiscuità significa povertà, miseria.
Sarebbe, per esempio, Bab Al Hadid - Stazione Centrale, il magnifico film di Youssef Chahine del 1958 sulla gente semplice del Cairo e su ciò che si intreccia in una grande stazione ferroviaria, la vita, l'amore, la morte. Non potrebbe essere un film francese tipo François Truffaut o Claude Chabrol. Sarebbe un po' fuori contesto e poco credibile. Troppo garbato, carino, con immagini troppo leggere. Casablanca è un film noir dove tutte le inquadrature sono esagerate e in cui il dialogo è fatto di schiaffi e intimazioni, un lungometraggio che non risparmia nessuno.
Penso al film di Akira Kurosawa Dodes'ka-den (1970), al sogno di un ragazzino che combatte la miseria immaginando un mondo che gli dia un posto al sole e nel cuore della vita. Le parole Dodes e Kaden sono onomatopeiche del rumore del tram o di un treno che parte. Il ragazzo pensa di essere il conducente del tram e ripete queste parole fino a farci credere che siamo su un treno suburbano in partenza per il paradiso. Tutti i ragazzini delle baraccopoli di Casablanca hanno prima o poi preso questo treno. Alcuni si aiutano respirando la colla o fumando prodotti tossici. Ma le case popolari stanno prendendo il posto delle baraccopoli e il film di Kurosawa ci ricorda che la poesia può vincere la miseria.
Se fosse un animale, sarebbe un cavallo stremato, robusto, fiero e crudele. Un cavallo ribelle che corre lungo i viali e che nessuno può fermare.
Se fosse un oggetto, sarebbe una grande valigia di legno posata di fronte al mare e sulla quale i gabbiani vengono a depositare i loro escrementi.
Casablanca è una città, di grandi dimensioni, grossa, maleodorante, inquinata, snervante, folle, con di tanto in tanto un vento di poesia che profuma di gasolio, tabacco e birra. E' viva, così viva che non lascia nessuno in pace, nessuno può dormire tranquillo. Gli edifici sorgono accanto a vecchie baraccopoli, attigui alla vecchia medina dove la miseria vive nascosta perché ha bisogno di dignità.
Alcune case sono state demolite per erigere edifici senz'anima. Bisogna pur vivere, guadagnare dei soldi e andare avanti anche a costo di schiacciare qualcuno.
Oppure sarebbe una donna. Sì e no. Una donna sottile, che ama il piacere e si nasconde per viverlo, figlia del popolo, che cerca un taxi verso le due del mattino per tornare nel suo quartiere, di cui non pronuncia il nome. Lei lo sa: dimmi dove vivi e ti dirò chi sei. Ahimè! E' così, la povertà non è fotogenica. Altrove, nei quartieri bene, una donna sistemata, affermata, borghese e altezzosa.
Una donna violenta, che sputa sulla polizia e sui clienti che passano tutto il giorno al caffè. Una donna in djellaba su una bicicletta, che pedala con tutte le sue forze, guardando lontano. Una donna velata, ma senza crederci troppo. Le hanno detto che era meglio indossare un velo, sarebbe stata meno importunata. Sì e no. Una donna d'affari, con i segni esteriori della sua classe e della sua aspirazione alla modernità che lei trucca a modo suo, bilingue, tradizionale e occidentale, quel che basta per non cadere nella schizofrenia. Ci vuole coraggio, per riuscirci.
Ma Casablanca è così, raccoglie e divide, attira e respinge, gestisce il bene e il male con indifferenza, o con disinvoltura.
Giovani che non hanno più paura.
Fanno finta di niente, ma allo stesso tempo sanno che devono trovare un lavoro. Contestano, organizzano manifestazioni, vogliono un miglioramento immediato della loro condizione. Sono coraggiosi, hanno immaginazione, bruciano i dogmi, danno fastidio e si impongono perché fanno parte di questo paesaggio umano così complesso, dove la rabbia si esprime in un rap radicale, poesia della disperazione.
Un giro per il tribunale di primo grado. Lì passa tutto il Paese, contadini disorientati che vanno e vengono, avvocati in toga che attraversano l'atrio, altri discutono, strani tipi parlano a bassa voce, li chiamano samsara, mediatori. Non è il posto dove consegnare le buste, dove contare le banconote, no, questo si fa dall'altra parte della strada in uno squallido caffè. Sistemo tutto io, conta su di me.
Ma la giustizia è malata. Come va il Paese? Male, la corruzione è ovunque. A Casablanca come altrove.
Non c'è più fiducia nella giustizia contaminata dal denaro. Meglio far finta di niente. La ruota gira per tutti.
Uno strano cliché: Casablanca sarebbe il polmone del Marocco. Lo dicono perché l'economia del Paese è in gran parte concentrata qui.
Se è così è un polmone in uno Stato marcio per la nicotina, per la corruzione, per i fumi delle dicerie, per il cattivo vento dei giorni tristi in cui nulla va per il verso giusto. Il mercato azionario e la speculazione. Calcio e denaro. La Corniche e i suoi club. La Corniche e i suoi alberghi. Ingorghi, concerto di clacson che danneggiano l'udito. E in lontananza la Grande Moschea, un monumento sull'acqua costruito con i soldi di tutti i marocchini, ricchi e poveri, volontari e recalcitranti. Un minareto alto nel cielo. Il mare lo scuote. La nebbia la nasconde.
E poi ci sono le "Torri gemelle" e i grandi centri commerciali. Ci si aggira come in Europa, stessa geometria, stesso spazio, con commesse pagate pochissimo, con vigilanti molto vigili, con cartelloni pubblicitari in cui tutto va bene. Casablanca dà il la.
Tutto inizia da qui.
Casablanca e la sua art déco degli anni Trenta appartiene al passato. Casablanca e la sua architettura coloniale, con le sue case discrete, con i suoi artisti che lottano contro la mediocrità sempre più arrogante, con pseudo artisti che siedono nei salotti e credono che l'arte sia vendere e nient'altro che vendere; creano illusioni, ma non sono molti. Gli altri, i grandi artisti, sono discreti e lavorano. La città è più grande della Parigi intramuros. Casablanca è immensa, sovrappopolata, ma viva, soffocante, e volge le spalle al mare. Il mare bisogna andarlo a cercarlo, a vederlo, a disegnarlo.
Il pesce costa caro. E' per via dei giapponesi, per via degli spagnoli che comprano il pesce ancora vivo. Rimane la sardina, il pesce più economico e sano. Il pesce è diventato un lusso. Casablanca d il la. Lo stesso vale per Agadir o Tangeri. Così mangiamo polli con gli ormoni. Casablanca e il suo porto.
E' un mondo malfamato. Puzza di cibo fritto. Rumore e polvere. La gente si alza dal letto e va a fare un giro al porto. Merci e uomini. Gru e gatti. Un cane randagio e un cieco hanno sbagliato città.
Casablanca di notte. E' una faccenda che non conosco. Ma la immagino. Comunque, la città dorme poco. Citt insonne, smemorata di se stessa, che disegna ombre allucinate che camminano barcollanti fino all'alba. Scompaiono con i primi raggi di sole, lasciando i viali agli autobus stanchi, ai piccoli taxi rossi dove si può ascoltare il richiamo alla preghiera o l'ultimo rap in un arabo dialettale e arrabbiato.
*Tahar Ben Jelloun è nato a Fès nel 1944 e vive a Parigi. Narratore, giornalista, ha vinto il Premio Goncourt (1987). L'ultimo romanzo edito in Italia è Insonnia (La nave di Teseo 2019). Nel 2020 è uscito l'ebbok Diario di un criminologo.
(Fonte.:jeuneafrique)
Bob Fabiani
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-www.jeuneafrique.com
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