La situazione sul campo in Libia è sempre più ingarbugliata e drammatica. Gli interessi contrastanti di Ankara e Mosca rischiano di far salire la tensione nel Mediterraneo orientale e di coinvolgere altri paesi nel conflitto, come l'Egitto.
In questo reportage AfricaLand Storie e Culture africane cerca di far luce su quanto avviene a Tripoli.
-Da guerra civile libica a "guerra totale" (e per procura di altri)
Le analogie spaventano sempre più le alte sfere, a Parigi ma non solo. L'aumento delle ingerenze straniere in Libia - con Turchia e Russia in primo piano, e sullo sfondo una galassia di gruppi mercenari - avvicina pericolosamente il paese Nordafricano agli abissi siriani.
Dopo la sconfitta subita all'inizio di giugno dal maresciallo ribelle Khalifa Haftar alle porte di Tripoli, la controffensiva del governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al Sarraj si dirige su Sirte, città cerniera fra la Tripolitania filoturca a ovest e la Cirenaica in via di "russificazione" a est. Sirte, un tempo feudo di Muammar Gheddafi ed ex bastione del gruppo Stato Islamico/Daesh (Is), oggi incarna la divisione del paese, marcando la frontiera tra le due zone recentemente finite sotto sovranità straniera.
Una decina di anni di sconvolgimenti si riassumono in questa città tanto simbolica che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, sostenitore di Haftar, ha annunciato il 20 giugno che se il Gna avesse superato la "linea rossa" che collega Sirte alla base aerea di Al Jufra, 250 chilometri a sud, le sue truppe sarebbero "intervenute direttamente" in Libia.
"Sirianizzazione" ? In Libia il successo di questo neologismo la dice lunga sui crescenti timori che si accenda un nuovo focolaio di crisi nel Mediterraneo orientale, cosa che potrebbe destabilizzare non solo i vicini nordafricani della Libia, ma anche i paesi più a sud, nel Sahel.
A nove anni dall'insurrezione che ha rovesciato (con l'aiuto della Nato) il regime dittatoriale di Gheddafi, la Libia è un paese in cui si è aperta una frattura. E in questa vuoto "si precipitano varie potenze straniere senza preoccuparsi troppo", tutte in preda alla tentanzione "di approfittare dell'attuale clima internazionale che tollera l'uso sregolato della forza", sostiene Ghassan Salamé, che è stato il capo della missione delle Nazioni Unite nel paese fino a marzo del 2020.
Dopo la caduta di Gheddafi la Libia si è impantanata in un "conflitto a bassa intensità", commenta Pierre Razoux, ricercatore dell'Istituto di ricerche strategiche della scuola militare di Parigi. Il crollo della jamahiriya (lo "stato delle masse" teorizzato da Gheddafi) ha sprigionato forze centrifughe - per esempio il risveglio delle famose città-stato, come Misurata e Zinran - sullo sfondo delle mire legate al petrolio e dell'importazione di conflitti ideologici da altri paesi del Medio Oriente.
-Tre ossessioni
In questi anni di lento sgretolamento, europei e statunitensi si sono interessati solo a tre cose: il petrolio, il terrorismo e l'immigrazione. Queste ossessioni hanno completamente offuscato la loro capacità di giudizio, impedendogli di vedere che nel corso degli anni su questi tre aspetti ci sono stati dei miglioramenti e che un'altra crisi covava in profondità.
Il petrolio scorre di nuovo a fiumi da quando Haftar, nel settembre 2016, ha riaperto gli impianti della Mezzaluna petrolifera, la parte di costa dove si concentrano le attività legate agli idrocarburi. Lo stesso anno il terrorismo ha subito una dura sconfitta, non solo a Bengasi per mano di Haftar, ma anche a Sirte, dove le milizie di Misurata, fedeli al Gna, hanno distrutto la roccaforte dell'Is (Daesh) con l'appoggio dell'Africom, il comando statunitense in Africa.
Quanto all'immigrazione, gli accordi segreti del 2017 tra l'Italia e le milizie della Tripolitania hanno rallentato il flusso di migranti e profughi originari dell'Africa subsahariana.
Ma allora da dov'era l'emergenza, visto che su questi fronti era tornata la calma?
Quello che maturava in silenzio, nell'indifferenza di molti, era il progetto di conquista dell'intero territorio libico del maresciallo Haftar.
Ma cosa vuole davvero quest'uomo?
Servirà del tempo per valutare con esattezza l'avventura di questo ex collaboratore di Gheddafi, che ha vissuto per vent'anni in esilio negli Stati Uniti prima di rientrare in Libia per partecipare alla rivoluzione a Bengasi nel 2011.
Haftar ha acquistato crediti combattendo contro i jihadisti a Bengasi e riaprendo la Mezzaluna petrolifera. Forse sarebbe entrato nella storia dalla porta principale se avesse saputo articolare la sua iniziativa con la mediazione dell'ONU, che nel 2016 ha partorito il Gna di Tripoli. Invece il capo dell'autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) ha decretato che il suo rivale, Al Sarraj, era ostaggio di "milizie terroriste" e che era inutile discutere con lui.
Mentre gli occidentali gli consigliavano di scegliere la "soluzione politica", Haftar ha costruito la sua macchina militare con l'appoggio diretto degli Emirati Arabi Uniti, dell'Arabia Saudita e dell'Egitto, violando l'embargo dell'ONU sulle armi.
La sua offensiva su Tripoli, lanciata all'inizio dell'aprile del 2019, non è stata una sorpresa. Ha consacrato un progetto che veniva da lontano: quello di concludere la fase che si era aperta con le "rivoluzione arabe" del 2011, con il pretesto di lottare contro i Fratelli Musulmani. E il maresciallo, con il suo caudillismo pomposo, è stato incoraggiato a percorrere quella strada da una coalizione di regimi dittatoriali regionali impazienti.
In questa vicenda la Francia, che era alla ricerca di un uomo forte ed era sensibile alla retorica antislamista di Haftar, lo ha appoggiato da dietro le quinte, chiudendo un occhio sui suoi rapporti con gruppi salafiti d'ispirazione saudita. Anche gli Stati Uniti hanno dato una sorta di semaforo verde, perché interessati solo al petrolio e alla lotta al terrorismo.
-Importanti analogie
Da allora la situazione è degenerata, aprendo la strada alla "sirianizzazione".
Certo, le due guerre hanno delle differenze importanti. In Libia, per esempio, l'Iran è assente dal quadro, e con esso la frattura tra sunniti e sciiti. Non c'è un equivalente libico dell'irredentismo curdo. Per non parlare del declino - almeno per ora - della presenza dell'Is (Daesh). Inoltre l'immensità del territorio libico non è paragonabile alle dimensioni contenute della Siria, e per giunta il potere di Damasco, con tutte le sue debolezze, sembra conservare la sua verticalità, a differenza dell'effimera autorità del Gna. Infine, come osserva Razoux, il procedere della crisi in Libia "è stato più lento rispetto alla Siria".
Queste sono le differenze.
Ma spicca una forte analogia: la pesante interferenza militare da parte di Turchia e Russia, con la prima che interviene alla luce del sole, mentre la seconda si nasconde dietro i mercenari del gruppo Wagner. Il governo di Tripoli, sentendosi abbandonato dalla comunità internazionale ( a cominciare dall'Italia n.d.t), si è gettato tra le braccia turche. E Ankara è stata più che lieta di prestare soccorso ad Al Sarraj, in cambio del suo sostegno alle mire turche nel Mediterraneo, in particolare sui giacimenti di gas naturale scoperti di recenti.
Da allora la protezione di Ankara si manifesta in modo sempre più aggressivo al largo delle coste libiche, dove ogni giorno si sfiora l'incidente con le navi europee, sopratutto francesi, incaricate di verificare il rispetto dell'embargo sugli armamenti. Quanto ai russi, a maggio hanno dispiegato nella base di Al Jufra degli aerei Mig-29 e Sukhoi-24, per difendere le posizioni dell'Enl di Haftar, suscitando un crescendo di nervosismo tra gli statunitensi.
Da questa primavera, dunque, l'aumento delle tensioni è diventato ben visibile. Per i libici il rischio è perdere quel po' di sovranità che gli resta, in guerra come in pace. Perché Ankara e Mosca riproducono in Libia quei rapporti ambivalenti di cui hanno già dato prova in Siria, dove la rivalità militare si accompagna a una gestione congiunta della mediazione diplomatica. Per molti aspetti i due paesi si sostengono a vicenda: "Ognuno ha un vantaggio sull'altro", sintetizza Pascal Ausser, direttore della Federazione mediterranea di studi strategici.
"I turchi hanno gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli e l'appartenenza alla Nato. I russi hanno il gas naturale e la superiorità militare".
Sotto il condominio russo-turco la Libia rischia di retrocedere al rango di pedina in una trattativa più globale. E qui torna il riferimento alla Siria.
"Erdogan e Putin potrebbero concludere un accordo in base al quale la Turchia smette di alimentare la sacca di rivolta a Idlib in Siria, e in cambio la Russia si disinteressa di Tripoli e convince Haftar a restare in Cirenaica", ipotizza Razoux.
Così si arriverebbe alla "sirianizzazione" del combattimenti e delle tregue alle porte meridionali di un'Europa impotente.
(Fonte.:lemonde)
Bob Fabiani
Link
-www.lemonde.fr/afrique/libye
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