Questa è una storia dolorosa e dimenticata. E' una storia di cui quasi nessuno si è occupato durante le lunghe giornate della pandemia. Le protagoniste sono donne lavoratrici migranti arrivano dall'Africa (in maggioranza etiope n.d.t) e Asia.
AfricaLand Storia e Culture africane racconta le loro proteste e le loro storie.
Nel pieno dell'era di una crisi sanitaria globale da coronavirus ci sono donne migranti che, da un giorno all'altro sono state cacciate dalle famiglie libanesi colpite dalla crisi economica e impossibilitate a permettersele. Per queste donne è impossibile tornare a casa in Africa come in Asia.
Ecco le loro testimonianze e il racconto delle loro lotte.
-Le donne invisibili fanno rete
"Sappiamo di datori di lavoro che non forniscono mascherine
e guanti e sottovalutano i rischi mandandole a fare la spesa
senza protezioni"
(Rana el Serbaji)
Cibo, acqua potabile, medicine ricariche telefoniche. Sono queste le richieste più frequenti dei migranti che lavorano come colf e badanti nelle case dei libanesi, o come inservienti in ristoranti, alberghi, negozi. Un esercito di lavoratrici e lavoratori, in maggioranza provenienti da Africa e Asia: oltre 250 mila persone, cui si aggiungono circa 75 mila irregolari.
Per loro la quarantena per contenere la diffusione del COVID-19, iniziata alla metà di marzo, ha portato alla luce - in modo brutale - l'ulteriore peggioramento delle proprie condizioni di vita, già deteriorate dalla crisi economica-finanziaria che, nello stesso periodo ha portato il Libano alla bancarotta.
La lira libanese al cambio con il dollaro (valuta ormai introvabile da queste parti) sul mercato parallelo è schizzata a 2.600, con un picco a 3.000 (in quei drammatici giorni di marzo e aprile) poi rientrato. Lo stipendio di una lavoratrice domestica varia in media dai 150 ai 400 dollari, corrisposto in lire libanesi con il cambio ufficiale a 1.500.
"Non lavoro da due mesi", è il racconto drammatico di Miriam, colf filippina in Libano da 26 anni e attivista per i diritti delle lavoratrici domestiche. "La famiglia per cui lavoro è in Europa e non so quando rientrerà. Adesso distribuiamo beni di prima necessità a chi ne ha bisogno. Molti, sopratutto chi lavorava in ristoranti e alberghi, avevano già perso il lavoro a causa della crisi e adesso sono bloccati in case spesso sovraffollate e se non riescono a pagare l'affitto rischiano di essere sfrattati. Raccogliamo fondi online e distribuiamo in circa cento case".
Storie di ordinaria disperazione al tempo della pandemia globale.
Le comunità di migranti (tra le più numerose quella delle donne etiopi n.d.t) si sono organizzate per sostenere chi tra loro è più vulnerabile, anche con il sostegno delle ambasciate.
Il gruppo Egna Legna Besides, fondato da donne etiopi, distribuisce beni di prima necessità, mentre le organizzazioni e le associazioni, libanesi e internazionali, cercano di garantire l'accesso alle cure mediche e di verificare il rispetto il rispetto delle condizioni di lavoro nelle case libanesi, oltre a premere sul governo affinché ponga maggiore attenzione a questa numerosa comunità in cui il rischio di un'esplosione di contagi, come ogni focolaio incontrollato, rappresenta una minaccia per la salute pubblica.
-Reclutamento kafala
E' lo stesso meccanismo di reclutamento, il sistema di sponsorship chiamato kafala, a rendere invisibili (e schiave) queste lavoratrici e lavoratori. Il migrante può lavorare soltanto per il suo sponsor, non può rescindere il contratto e in caso di abusi l'unica via d'uscita è la fuga che però significa restare nel paese illegalmente, rischiando l'arresto. Inoltre con l'emergenza COVID-19 le strutture accolgono chi fugge sono chiuse. La condizione peggiore è quella degli illegali, spiega Zeina Mohanna, a capo del progetto Protection of Migrants and Counter Trafficking della ong libanese Amel.
"Lavoravano come freelance nelle case e con il lockdown molte hanno perso il posto di lavoro perché temono controlli per strada".
Al divampare dell'epidemia per migliaia e migliaia di donne migranti la vita è diventata un inferno.
"Per la stessa ragione - prosegue Mohanna - sono restie a comunicare alle autorità se hanno sintomi riconducibili al COVID-19. Anche se volessero richiedere un tampone, senza documenti non possono e i rimpatri, per tante di loro che vogliono lasciare il Libano, sono fermi a causa della quarantena. Inoltre quando riaprirà l'aeroporto si porrà il problema della disponibilità e della capacità dei paesi di origine di garantire quarantene e ritorni in sicurezza. Per questo abbiamo chiesto alle forze di sicurezza di non essere rigidi in questo momento di emergenza sanitaria e pare che chiudano un occhio, anche per evitare sovraffollamenti nelle carceri, ma non possiamo essere sicuri di quanto questa linea sia applicata".
Tuttavia anche chi vive con i datori di lavoro non se la passa bene. La quarantena significa lavorare di più, perché tutta la famiglia è in casa, i bambini non vanno a scuola e le richieste aumentano, non avere un giorno di riposo, a volte non essere pagate e chi già viveva una situazione di maltrattamenti, adesso è bloccata in casa con i propri aguzzini.
"Sappiamo di datori di lavori che non forniscono mascherine e guanti alle lavoratrici, sottovalutano la loro esposizione al rischio del contagio mandandole a fare la spesa senza protezioni - racconta Rana el Serbaji - e ci sono casi in cui è stato proibito loro di riferire la comparsa di sintomi da coronavirus. Al momento non siamo a conoscenza di casi di contagio tra le lavoratrici domestiche, ma i dati in generale non sono accurati e non possiamo assolutamente escludere che ci siano persone affette dal virus nella comunità di migranti. Non tutti, inoltre, potrebbero permettersi di fare un test che costa 250 mila lire libanesi (circa 150 dollari n.d.t)".
In Libano negli anni le lavoratrici domestiche si sono organizzate e hanno alzato la voce per chiedere l'abolizione della kafala (la schiavitù).
"Adesso affrontiamo questa emergenza, ma torneremo a lottare per i nostri diritti", dice Miriam ricordando Faustina Tay, forse l'ultima vittima delle violenze che in alcune case libanesi sono riservate alle lavoratrici domestiche. La 23enne ghanese, è stata trovata morta nel parcheggio sottostante l'abitazione in cui lavorava, a Beirut, lo scorso 14 marzo. Per giorni aveva inviato richieste di aiuto: temeva per la propria vita. Sulla sua morte, inizialmente dichiarata suicidio, è stata aperta un'indagine.
Le testimonianze
"Sono qui da tre giorni, davanti all'ambasciata assieme altre donne. La famiglia dove lavoravo mi ha cacciata via, all'improvviso, dicendo che non aveva soldi per pagarmi. In un attimo mi sono ritrovata in strada. Voglio tornare a casa ma costa troppo, non ho soldi per farlo".
La testimonianza di Luna, etiope di 32 anni, è una delle tante rilasciate ai media locali e internazionali dalle dozzine di lavoratrici migranti africane e asiatiche per denunciare la gravità della situazione in cui si sono ritrovate da un giorno all'altro.
La crisi economica e politica libanese, aggravata dalla pandemia di coronavirus, ha fatto molte vittime. Tra queste migliaia di lavoratori migranti che già prima del COVID-19 godevano di scarse tutele. Tra loro le donne sono le più esposte all'abbandono e alla povertà estrema.
"La ragione principale dello stato in cui si trovano queste lavoratrici straniere è il crollo della valuta libanese, passata da 1.500 lire per 1 dollaro a 4.000 - spiega Abby Sewell, giornalista residente in Libano e impegnato a far conoscere attraverso i suoi reportage la condizione di queste donne abbandonate al loro destino - In Libano anche il lavoro a basso costo fornito da migranti provenienti dall'Etiopia e da altri paesi africani e asiatici non è più sostenibile per tante famiglie della classe media. Ciò che era considerato uno stipendio basso, mediamente 200 dollari, per una domestica oggi è una somma molto elevata".
I dollari ormai sono introvabili e anche Sewell lo conferma aggiungendo, "i datori di lavoro pagano gli stipendi in lire libanesi. E se prima 200 dollari corrispondevano a 300 mila lire, oggi superano abbondantemente le 600 mila lire. Le colf è diventata un lusso".
Le difficoltà economiche e il carovita hanno generato pratiche disumane, che violano i diritti basilari della persona e del lavoratore. Le famiglie risolvono il "problema" scaricando le collaboratrici domestiche davanti alle loro ambasciate.
La scena è raccapricciante: questi datori di lavoro, una volta scaricate le donne lavoratrici migranti ripartono a tutto gas come se avessero gettato via una vecchia lavatrice in una discarica abusiva. Particolarmente penosa è la condizione delle domestiche etiopi.
Scena abituale davanti all'ambasciata di Addis Abeba a Beirut, spiega ancora Sewell, è quella "del taxi che si ferma, le donne presenti lo circondano per aiutare l'ennesima loro compagna, in lacrima, cacciata via dalla famiglia dove lavorava. L'autista scarica frettolosamente dal bagagliaio una valigia, risale in auto e parte senza voltarsi indietro".
Varie ong libanesi e persone comuni fanno il possibile per aiutare le lavoratrici abbandonate, con cibo, abiti e materassi. La Caritas qualche giorno fa ne ha raccolte 35 in una sua struttura ma non basta.
Le autorità etiopi appaiono insensibili al problema. Iman Khazaal, del ministero del lavoro libanese, ha spiegato alla TV Al Arabiya che l'ostacolo più grande al rimpatrio in Etiopia è la condizione posta ai lavoratori cacciati di acquistare il biglietto aereo - quasi 700 euro - e di pagare al loro rientro in patria la permanenza di due settimane, per la quarantena dovuta al COVID-19, in hotel con tariffe che variano da 40 a 100 dollari a notte. Le ong per i diritti umani aggiungono che non poche famiglie non restituiscono il passaporto alle lavoratrici quando le abbandonano.
E' una formidabile arma di ricatto che sfruttano per tutelarsi da denunce relative a stipendi non versati. A questo punto consegnano i passaporti alle ambasciate ma soltanto quando sono sicure che le ex collaboratrici domestiche lasceranno il paese nel giro di poche ore.
Tuttavia le stesse autorità libanesi sono protagoniste di abusi e violazioni, poiché non hanno mai messo fine al sistema di sponsorizzazione kafala - ampiamente diffuso nei paesi arabi mediorientali più ricchi - che lega la presenza del migrante a un datore di lavoro specifico (kafeel), che controlla totalmente la loro vita, dal rinnovo della residenza al permesso di lavoro. In Libano, secondo fonti locali, sono almeno 200 mila i migranti soggetti alla kafala e oltre il 70% è composto da donne impiegate come badanti, colf e baby sitter.
Una domestica non può trovarsi da sola una nuova famiglia, ma deve ottenere l'autorizzazione del primo datore di lavoro. Ed è perennemente ricattabile: se si licenzia o viene licenziata non può far altro che rientrare in patria. In queste condizioni anche le violenze fisiche e gli stupri sono frequenti, come più parti hanno documentato in questi anni.
L'Ilo, l'Organizzazione internazionale del lavoro, ha ripetutamente chiesto a Beirut di abrogare il kafala ma finora non è cambiato nulla. Il ministro del lavoro libanese non è disposto ad andare oltre una midifica parziale del sistema di sponsorizzazione per evitare presenze di lavoratori stranieri "irregolari" nel paese.
-Conclusioni
Anche a queste latitudini possiamo trarre un insegnamento da questa drammatica crisi sanitaria globale: il virus non solo ha colpito quelle fasce di cittadini più poveri (in tutto il mondo) ma ha finito per segnare, tracciare, consolidare le condizioni di disuguaglianza tra ricchi e poveri. Il coronavirus ha drasticamente ridotto (e cancellato) del tutto i diritti umani, civili e sociali per i migranti e tra queste drammatiche disparità, a pagare il prezzo più alto sono le donne.
(Fonte.:theguardian;jeuneafrique;ilmanifesto)
Bob Fabiani
Link
-www.theguardian.uk.com/international
-www.jeuneafrique.com
-www.ilmanifesto.it
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