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domenica 28 giugno 2020

L'Editoriale: Se la statua di Montanelli spiega perché l'Italia non è innocente











La lotta iconoclastica che sta attraversando le piazze del mondo pone al centro del dibattito internazionale il tema della memoria e dei criteri che ogni società sceglie per rappresentare se stessa  attraverso la toponomastica, gli anniversari, i monumenti e gli eroi che decide di celebrare o di far cadere nell'oblio.
In Italia al centro di questa discussione c'è Montanelli. Giornalista e fondatore del quotidiano Il Giornale, convinto fascista in giovane età, comandante di una compagnia di àscari durante l'invasione dell'Etiopia, proprietà di Destà, una bambina di 12 anni comprata per 350 lire con un prezzo di favore dal padre, Montanelli è diventato il simbolo controverso dei valori che definiscono la storia coloniale e la cultura italiana.

Il dibattito sulla memoria è sempre stato complicato. In Comunità immaginate (1983) il sociologo Benedict Anderson ha parlato di "legami affettivi del nazionalismo" per descrivere il modo in cui la memoria è stata a lungo usata per generare un senso di appartenenza nazionale. La storia di questa appartenenza, tuttavia, è spesso controversa, inserita dall'epoca moderna in una lunga sequela di campagne di conquista, violenza e saccheggio, celebrate di solito come eroiche dai vincitori.

In questi giorni, i movimenti sociali di tutto il mondo hanno portato alla luce come dietro la sacralità dei monumenti eretti per celebrare la storia occidentale e le sue vittorie, non ci siano geste eroiche ma truci storie di violenza intrise di razzismo e di misoginia, che hanno inflitto un dolore acuto a una parte molto grande della popolazione mondiale.

Nelle ultime settimane sono stati abbattuti i principali baluardi di questa storia: dalla Statua di Cristoforo Colombo, decapitata a Boston e buttata pancia a terra in Minnesota, quale simbolo stesso del tentativo di celebrare il colonialismo europeo come un'avventura piuttosto che come l'atto inaugurale del genocidio delle popolazioni indigene, da allora espropriate, ridotte in schiavitù, chiuse in riserve come racconta Benjamin Madley in An American Genocide (2016); fino a Leopoldo II, il re del Belgio che ha brutalizzato il Congo, torturato e mutilato milioni di africani, tolto dal suo piedistallo e decorato con la parola "Razzista" prima di essere rimosso ad Anversa.
Negli stessi giorni, il Regno Unito gettava nel fiume la statua di Edward Colston, trafficante di schiavi responsabile del prelievo forzoso e della deportazione di 100 mila africani nelle colonie contro la loro volontà, mentre a Oxford il movimento studentesco Rhodes must fall chiede la rimozione dalla prestigiosa università inglese della statua di Cecil Rhodes, convinto assertore del primato della razza bianca nel mondo, suprematista bianco e imperialista ammirato da Hitler per la sua fede nel ruolo benefico del giogo coloniale in Africa.


-Un razzismo strutturale

Le proteste  che incalzano la celebrazione eroica della storia coloniale si susseguono ovunque, ma sono divampate anzitutto negli USA, dove 114 monumenti confederati su 1.747 sono stati rimossi negli ultimi 5 anni, in seguito alla sparatoria nella chiesa di Charleston di Dylann Roof, suprematista bianco che nel 2015 ha ucciso 9 afroamericani per dichiarare l'inizio della guerra razziale. La brutalità di quel gesto ha gelato il paese, inaugurando un difficile processo di riflessione sui valori che sigillano la storia nazionale, un processo che ha chiamato in causa il tema spinoso della memoria e i monumenti che gli Stati Uniti hanno scelto per rappresentare la propria identità.
Uno dei momenti chiave di questo processo è stata la manifestazione Unite the right del 2017 durante la quale diversi movimenti di suprematisti bianchi si sono riuniti a Charlottesville, Virginia, per opporsi alla rimozione della statua del generale della confederazione Robert E. Lee.

Erika Doss racconta in Memorial mania (2010) come all'indomani della fine della guerra civile americana siano stati eretti centinaia di monumenti dedicati a politici e militari della confederazione, a indicare la decisione di unire il Nord e il Sud nel nome della supremazia bianca. La narrazione messa in scena nel film di David Wark Griffith del 1915, Nascita di una nazione, nel quale gli schiavi liberati apparivano come mostri e stupratori, mentre il Ku Klux Klann era presentato come il ritratto patriottico della libertà, si riflette nell'iconoclastia statunitense, evidenziando come il legame affettivo che sigilla la nascita della nazione sia il dominio razziale.

Questi monumenti sono il promemoria quotidiano di un presente razzista.

Il diritto di continuare a trattare gli afroamericani come schiavi è il sottotesto delle reazioni alle proteste contro le statue dei confederati.
Proteste che sono il riflesso dell'incarcerazione di massa, della brutalità della polizia e, in generale, della segregazione e della disumanizzazione strutturale e sistematica dell'America nera.

La lotta iconoclasta sta costringendo la società occidentale a fare i conti con il razzismo strutturale della sua storia. In questo senso non si tratta di un processo simbolico, ma di una crisi di identità, che mette in discussione l'aura sacra con cui è stato celebrato per vari secoli il colonialismo europeo come riflesso di una sollevazione antirazzista e anticoloniale. Black Lives Matter significa questo, che la supremazia bianca che vive nella cultura occidentale deve essere messa a nudo e rivelata per il ruolo che esercita nella istituzioni, nella cultura e nei monumenti della nostra società, non solo ai tempi di Cristoforo Colombo, ma anche nel 2020, ai tempi dell'omicidio di George Floyd.


-In Italia


In Italia le richieste di rimuovere la statua di Montanelli dai giardini di porta Venezia (Milano) è stata ricevuta come un oltraggio.
Il solito controcanto per giustificare quelle stimmate razziste di cui l'Italia è piena. Minimizzare, inneggiare all'oltraggio perché in fondo "di errori ne facciamo tutti". Un coro di giornalisti, economisti, politici tutti insieme per ribadire che: "La memoria di Indro Montanelli è sacra".
Queste parole spiegano in modo chiaro il razzismo strutturale.
Il concetto di sacro in questo contesto è importante. Dire che la memoria di Montanelli è sacra significa richiedere la sospensione del giudizio e pretendere un'adesione incondizionata. La levata di scudi di un'ampia parte del giornalismo maschile italiano a protezione di Montanelli, in questo senso, non è problematica  solo in sé, ma in quanto difende ciò che ha rappresentato, l'adesione impunita e impenitente al suprematismo bianco, la capacità di presentare la violenza razzista come eroismo, la nostalgia per l'invincibilità del dominio occidentale, e con essa, di quel modello di uomo che può esercitare sulle sue prede lo stesso dominio che i militari esercitano in guerra.


"Non occorre un intuito psicologico freudiano per avvedersi che un indigeno ama il bianco solo in quanto le teme o in quanto lo tiene infinitamente superiore a sé. Niente indulgenze, niente amorazzi. (...) Il bianco comandi. Ogni languore che possa intiepidirci di dentro non deve trapelare al di fuori".


Non c'è molto da aggiungere dopo queste righe scritte da Montanelli: si parla di uno stato di soggezione intriso di crudeltà, che incoraggia in modo magistrale dominio di corpi e supremazia bianca, misoginia e fascismo, in una concezione di dominio bianco che in Italia non è mai stata messa in discussione. Da questo punto di vista, il suo rapporto con Destà (dodicenne etiope) e la conquista coloniale sono per Montanelli la stessa cosa: un'avventura con il quale il colono poteva divertirsi, nel sesso e in guerra, forte del suo dominio incontrastato.

Tuttavia quello che c'è dietro a questa sofferenza e a queste gesta è l'unico aspetto di questa storia di cui in Italia non è dato parlare. La violenza, le razzie, le scorrerie e gli eccidi della storia coloniale italiana, il massacro di massa guidato dal macellaio Rodolfo Graziani e l'uso di gas tossici contro gli etiopi per placarne la resistenza, sono non solo questioni che Montanelli ha negato per 50 anni ma parti della storia italiana che il dibattito pubblico pubblico si rifiuta di affrontare.
La negazione, il silenzio e la volontà di sminuire alimentano invece un'altra catastrofe, perché consentono la ripetizione della violenza coloniale nel presente.
(Fonte.:internazionale;nytimes;theatlantic)
Bob Fabiani
Link
-https://africalandilmionuovoblog.blogspot.com/l-editoriale  
   

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